Copyright - 1999 - 2004 - © Fioravante BOSCO - Tutti i diritti riservati - Visualizzazione consigliata 800x600

GIUSEPPE GARIBALDI

GARIBALDI

GARIBALDI - COMMEMORAZIONE

GIUSEPPE GARIBALDI E I MILLE

GARIBALDI: EROE? TRADITORE? MERCENARIO?

CHI ERA VERAMENTE GIUSEPPE GARIBALDI

GARIBALDI PROMETTE

PADRE DELLA PATRIA

MEDIOCRE GENERALE

GIUSEPPE GARIBALDI

I MILLE DI GARIBALDI

LA COSIDDETTA IMPRESA DEI MILLE

I NOVANTA GIORNI DI GARIBALDI IN SICILIA

UN UOMO DAL "CUORE TENERO"

I MILLE

MILLE E NON PIU' MILLE

GARIBALDI: NEGRIERO

PIU' FACILE DEL PREVISTO

GARIBALDI? VOLEVA CACCIARE CAVOUR

I MILLE? BENEDETTI DAL CONTE DI CAVOUR

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIUSEPPE GARIBALDI E I MILLE

Nato a Nizza il 4 luglio 1807 da una famiglia di marinai, Giuseppe Garibaldi si era imbarcato giovanissimo per lunghi viaggi nel Mediterraneo, nel Levante e nel Mar Nero, giungendo fino al grado di capitano. Era rimasto tuttavia estraneo all'attività politica fino al 1833, quando a bordo del brigantino Clorinda si imbarcò a Marsiglia con un gruppo di sansimoniani, che lo convertirono alle dottrine cristiano-socialiste dell'utopista francese Claude-Henri de Saint-Simon. A Marsiglia Garibaldi ebbe modo di entrare in contatto con gli ambienti mazziniani e di aderire alla Giovine Italia. Nel dicembre 1833 si arruolò nella Marina sarda con il preciso intento di svolgervi propaganda rivoluzionaria e di organizzare a Genova un ammutinamento collegato alla progettata spedizione in Savoia. Ma a causa probabilmente di delazioni che avevano messo sull'avviso le autorità militari, il giorno stabilito per l'insurrezione genovese, il 4 febbraio 1834, Garibaldi fu il solo a presentarsi all'appuntamento e fu obbligato, per sfuggire all'arresto, a mettersi in salvo travestito da contadino. Condannato a morte in contumacia dal tribunale militare di Genova, Garibaldi si rifugiò in Sudamerica dove combatté per la Repubblica del Rio Grande contro l'Impero del Brasile e per l'indipendenza dell'Uruguay contro il dittatore argentino Juan Manuel de Rosas. Preceduto dalla fama di eccezionale uomo d'armi, Garibaldi rientrò in Italia soltanto nel 1848 per mettersi al servizio del Regno di Sardegna nella prima guerra d'indipendenza. Per molti anni, sin da quando nelle imprese compiute in Sudamerica si era conquistato l'aureola di "eroe dei due mondi", il condottiero nizzardo aveva acceso gli entusiasmi popolari alimentando la leggenda del generale invincibile, pronto ad accorrere ovunque vi fossero da difendere la libertà e l'indipendenza dei popoli. Di fede repubblicana, ma avvicinatosi a Vittorio Emanuele II intorno al 1856, Garibaldi aveva giocato un ruolo decisivo nel biennio che aveva portato all'unità d'Italia sotto la guida della monarchia dei Savoia. Nel 1859 aveva guidato i Cacciatori delle Alpi in una vittoriosa campagna contro gli austriaci fermata soltanto dall'armistizio di Villafranca, e nel 1860 aveva guidato mille volontari nella leggendaria spedizione in Sicilia. Dopo l'unità Garibaldi, ormai entrato nella mitologia popolare europea, si era ripetutamente scontrato con il governo italiano. Nel 1862 era stato ferito e arrestato dalle truppe regie in Aspromonte, mentre preparava una spedizione su Roma; nel 1866 era stato fermato da un ordine del re, mentre guidava i suoi volontari alla liberazione del Trentino; nel 1867 era stato fermato dall'esercito francese a Mentana, mentre marciava nuovamente su Roma contro la volontà del governo italiano. Negli ultimi anni della sua vita Garibaldi aveva accentuato il suo repubblicanesimo e il suo anticlericalismo e si era progressivamente avvicinato alle idee socialiste, diventando il leader della sinistra radicale. Ripetutamente eletto deputato, aveva tuttavia partecipato raramente alla vita parlamentare, insofferente dei compromessi della politica, indignato dalla corruzione del mondo parlamentare, deluso dalla litigiosità e dalla debolezza dei governi della sinistra, fino alle clamorose dimissioni del 1880 (il 27 settembre 1880 con una lettera indignata al giornale romano "La Capitale",rassegnò le dimissioni da deputato e si ritirò definitivamente a Caprera). La sua scomparsa, il 2 giugno 1882, l'anno del "trasformismo", della Triplice Alleanza e della prima impresa africana, segnava simbolicamente la fine di un'epoca, quella eroica del risorgimento.

I MILLE

Non si è mai potuto stabilire con precisione il numero dei volontari al seguito di Garibaldi al momento dello sbarco a Marsala. L'elenco ufficiale, compilato nel 1878, comprendeva 1088 uomini e una donna, Rosalia Montmasson, la moglie di Francesco Crispi, ma sembra che il numero effettivo fosse leggermente superiore. Per la maggior parte le "camicie rosse" erano lombardi (434, fra i quali un nutrito gruppo di 180 bergamaschi); le altre regioni più rappresentate erano il Veneto (194), la Liguria (156, quasi tutti genovesi), la Toscana (78, in grande maggioranza livornesi), la Sicilia (45, in maggioranza palermitani). Pochi erano i piemontesi, sia per la scarsa tradizione insurrezionale del Piemonte sia perché molti dei possibili volontari erano già stati assorbiti nell'Esercito regolare del Regno di Sardegna. Dal punto di vista sociale i Mille (termine che entrò in uso assai più tardi) riflettevano la composizione delle forze della sinistra: per metà erano professionisti e intellettuali, per l'altra metà artigiani e operai delle città. Era totalmente assente la componente contadina, che pure rappresentava la grande maggioranza della popolazione italiana. La maggior parte dei garibaldini aveva alle spalle una lunga esperienza di militanza cospirativa: alcuni erano veterani della guerra del 1848 e della difesa di Roma e di Venezia, molti avevano combattuto con i Cacciatori delle Alpi nella II guerra d'indipendenza. Alla fine della campagna l'esercito garibaldino arrivò a contare quasi 50.000 uomini. Molti volontari, circa 20.000, che non avevano fatto in tempo ad arrivare a Genova al principio di maggio, raggiunsero Garibaldi in successive spedizioni, organizzate prevalentemente dal Partito d'azione mazziniano, tra maggio e settembre. Altri 25-30.000 erano meridionali che si posero al seguito di Garibaldi durante la marcia da Marsala a Teano. Molto scarso fu invece l'effetto della leva obbligatoria proclamata in Sicilia il 14 maggio; che segnò uno dei più gravi fallimenti di Garibaldi dittatore.

da:"DIARIO D'ITALIA" due secoli di storia giorno per giorno, Il Giornale, 1994

 

 

 

 

 

 GARIBALDI PROMETTE

14 maggio 1860: Garibaldi assume la dittatura in Sicilia.

17 maggio 1860: abolisce l'imposta sul macinato e la soppressione dei dazi.

2 giugno 1860: da Palermo decreta la divisione delle terre.

Ecco il decreto (ma durerà poco, sarà anzi una delle cause della rivolta contadina per essere, subito dopo, inosservato e cancellato).

GIUSEPPE GARIBALDI

Comandante in Capo le forze nazionali in Sicilia

DECRETA

art. 1 - Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto apparterrà al suo erede.

art. 2 - La quota di cui è parola all'articolo precedente sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le terre di un comune siano tanto estese da sorpassare il bisogno della popolazione, i militi o i loro eredi otterranno una quota doppia a quella degli altri condividenti.

art. 3 Qualora i comuni non abbiano demanio proprio vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della Corona.

art. 4 - Il Segretario di Stato sarà incaricato della esecuzione del presente decreto.

 

da "Piemontisi, Briganti e Maccaroni", Guida Editore, 1975

 

 

 

 

 

 

 

 

 GIUSEPPE GARIBALDI

Padre della patria

Giuseppe Garibaldi ci è stato presentato come l'eroe dagli occhi azzurri, biondo, alto, coraggioso, romantico, idealista; colui il quale metteva a repentaglio la propria vita per la libertà altrui. Non esiste città d'Italia che non gli abbia dedicato una piazza o una strada. Garibaldi non era alto, era biondiccio e pieno di reumatismi, camminava quasi curvo e dovevano alzarlo in due sul suo cavallo. Portava i capelli lunghi, si dice nel sud, perché violentando una ragazza questa gli staccò un orecchio. Questo signore non era un eroe; oggi lo si chiamerebbe delinquente, terrorista, mercenario. Era alto 1,65, aveva le gambe arcuate e curava molto la sua persona. Fra il 1825 ed il 1832 fu quasi sempre imbarcato intraprendendo viaggi nel Mediterraneo. Nel 1833, durante un viaggio a Taganrog ebbe modo di conoscere dei rivoluzionari che lo affascinarono all'idea della fratellanza umana ed universale e all'abolizione delle classi, idee che si rifacevano al Saint Simon. Cominciò, pertanto, a pensare all'idea dell'unificazione italiana da realizzare con l'abbattimento di tutte le monarchie allora dominanti e la fondazione di una repubblica. Accrebbe codesta convinzione quando incontrò Giuseppe Mazzini nei sobborghi di Marsiglia e, affascinato dalle idee del genovese, si iscrisse alla setta segreta "Giovine Italia". Nel dicembre del 1833 si arruolò nella marina piemontese per sobillare e per praticare la propaganda della setta tra i marinai savoiardi. Nel 1834 tentò un'insurrezione a Genova contro il Piemonte; scoperto riuscì a fuggire in Francia. Processato in contumacia a Genova, fu condannato a morte per alto tradimento dal governo piemontese. Nel 1835 fuggì in Brasile, considerato una specie d'Eldorado dagli emigranti piemontesi che in patria non trovavano lavoro, ed erano tantissimi; da lì e dalle altre province del nord, ogni anno un milione di emigranti raggiungevano le terre Sudamericane. Fra i 28 e 40 anni Garibaldi visse come un corsaro ed imitò i grandi pirati del passato assaltando navi, saccheggiando e, come dice Denis Mack Smith a pag. 14 (1) "...si abituò a vedere nei grandi proprietari delle pampas un tipo ideale di persona delle pampas". Al diavolo la lotta di classe! il danaro era più importante - diciamo noi. A Rio de Janeiro si iscrisse alla sezione locale della Giovine Italia. Nel 1836 chiese a Mazzini se poteva cominciare la lotta di liberazione affondando navi piemontesi ed austriache che stazionavano a Rio. Il rappresentante piemontese nella capitale brasiliana rapportò al governo sabaudo che nelle case di quei rivoluzionari sventolava la bandiera tricolore, simbolo di rivoluzione e sovversivismo. Nel maggio del 1837, con i soldi della carboneria, Garibaldi mise in mare una barca di 20 tonnellate per predare navi brasiliane; non a caso fu battezzata Mazzini. Quest'uomo, condannato a morte per alto tradimento e poi pirata e corsaro nel fiume Rio Grande, è il nostro eroe nazionale; anzi, non lo è più! Ora è eroe della nazione Nord. In Uruguay si batteva per assicurare il monopolio commerciale all'Impero Britannico contrastando l'egemonia cattolico-ispanica. Nel 1844, a Montevideo iniziò la sua vera carriera di massone dopo l'iniziazione avuta con l'iscrizione alla Giovine Italia del Mazzini. In Italia i pennivendoli di regime continuano ad osannare le imprese banditesche del pirata nizzardo offendendo la storia e la dignità delle nazioni Sudamericane. L'indignazione della gente è racchiusa in un articolo di un giornale, il Pais che vende 300.000 copie giornaliere e che così si è espresso il 27-7-1995 a pag. 6: "... Garibaldi. Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota (ndr, Giuseppe Garibaldi) non ha lottato per la libertà di queste nazioni come (Scalfaro) afferma. Piuttosto il contrario". La carriera massonica di Garibaldi culminò col 33°gr. ricevuto a Torino nel 1862, la suprema carica di Gran Hierofante del Rito Egiziano del Menphis-Misraim nel 1881. Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi dal 4° al 33° e a condurre il rito fu mandato Francesco Crispi accompagnato da altri cinque fra massoni. Il mito di Garibaldi finisce quando si apprende che la spedizione dei Mille fu finanziata dalla massoneria inglese con una somma spaventosa di piastre turche equivalenti a milioni di dollari in moneta attuale (2). Con tale montagna di denaro poté corrompere generali, alti funzionari e ministri borbonici, tra i quali non pochi erano massoni. Come poteva vincere Francesco II, se il suo primo ministro, Don Liborio Romano era massone d'alto grado? (3). Appena arrivato a Palermo, Garibaldi saccheggiò il Banco di Sicilia di ben cinque milioni di ducati come fece saccheggiare tutte le chiese e tutto ciò che trovava sulla sua strada. In una lettera Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del pirata nizzardo (4): ".. Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene - siatene certo - questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il denaro dell'erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s'è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa". Ma erano mille i garibaldini? Certamente. Ma ogni giorno sbarcavano sulla costa siciliana migliaia di soldati piemontesi congedati dall'esercito sabaudo per l'occasione dall'altro massone Cavour ed arruolati in quello del generale nizzardo. Una spedizione ben congegnata, raffinata, scientifica, appoggiata dalla flotta inglese ed assistita da valenti esperti internazionali. La massoneria siciliana, da anni, stava preparando la sollevazione e mise a disposizione di Garibaldi tutto l'apparato mafioso della Trinacria. A Bronte (5) fece fucilare per mano di Nino Bixio i contadini che avevano osato "usurpare" le terre concesse agli inglesi dai Borbone. Ecco chi era il vero Garibaldi! Amico e servo dei figli d'Albione, assassino e criminale di guerra per aver fatto fucilare cittadini italiani a Bronte. Il socialismo, l'uguaglianza, la libertà potevano anche andare a farsi benedire di fronte allo sporco danaro e al suo servilismo massonico. Suo fine non era dare libertà alle genti del Sud ma togliere loro anche la vita. Scopo della sua missione fu quello di distruggere la chiesa cattolica e sostituirla con quella massonica guidata da Londra. Garibaldi, questo avventuriero, definiva Pio IX "...un metro cubo di letame" (6) in quanto lo riteneva - acerrimo nemico dell'Italia e dell'unità"(7). Considerava il papa "...la più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli"(8), inoltre affermò che: "...Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue file" (9). Era chiaro l'obiettivo della massoneria: colpire il potere della chiesa e con esso scardinare le monarchie cattoliche per asservirle ad uno stato laico per potere finalmente mettere le mani sui nuovi mercati, sulle loro immense ricchezze umane, sulle loro ricche industrie, sui loro demani pubblici, sui beni ecclesiastici, sulle riserve auree del Regno delle Due Sicilie, sulle banche. Con la breccia di Porta Pia finì il potere temporale dei papi con grande esultanza dei fra massoni. Roma divenne così capitale d'Italia e della massoneria, come aveva stabilito Albert Pike, designando come suo successore Adriano Lemmi, massimo esponente del Rito Palladico.

 

(1) DENIS MACK SMITH: Garibaldi, una grande vita in breve, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993.

(2) Intervento di Giulio di Vita, pp. 379-80-81 atti di convegno "La liberazione d'italia nell'opera della massoneria" svoltasi a Torino il 24-25 settembre 1988, Edizioni Bastogi, Foggia, 1990.

(3) Bollettino del Grande Oriente del 1867, II, pag. 190.

(4) DENIS MACK SMITH - Garibaldi, una grande vita in breve, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993, pag. 285.

(5) L'eccidio di Bronte così come è raccontato dal garibaldino Cesare Abba nel libro

(6) G. GARIBALDI - Scritti politici e militari, Ricordi e pensieri inediti, Voghera, Roma, 1907, a cura di Domenico Ciampoli, pp. 523-525.

(7) G. GARIBALDI - Scritti e discorsi politici e militari, Ed. Cappelli 1935, vol. II, pag. 397.

(8) Ivi, Vol. III, Ed. Cappelli, Bologna, 1937, pag. 334.

(9) opera citata, pag. 664.

da: "I SAVOIA e il massacro del Sud" di Antonio Ciano, Grandmelò, Roma, 1996.

 

 

 

 

 

 

 

 

Garibaldi:

né scienza militare né coraggio guerriero

Circa la invasione delle Due Sicilie si dissero e si stamparono e si continuano a stampare cose iperboliche sul merito militare di Garibaldi, e si è voluto innalzare costui al di sopra di Turenna, di Federico II, di Napoleone I. Senza spirito partigiano vediamo quali furono le battaglie vinte dal duce rivoluzionario, e qual merito militare dimostrò da Marsala al Volturno. Per maggior comodo de' miei benevoli lettori compendierò in poche pagine la Iliade garibaldesca, ricavandola dai fatti autentici, e che oggi sarebbe impudenza mettere in dubbio. Garibaldi partì dal continente confortato dagli aiuti morali e materiali del governo sardo. Egli sbarcò a Marsala, quando già sapeva che la guarnigione era stata mandata a Girgenti per ordine del Comando generale di Palermo: quella guarnigione di un battaglione di carabinieri a piedi, comandati dal colonnello Francesco Donati, sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco, e due giorni prima fu mandata altrove. Due legni inglesi fecero la spia contro i regi, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra napoletani che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino a che non fosse stato effettuato quello sbarco. Uno di quei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo; il quale, come rilevasi dalla Difesa Nazionale di Tommaso Cava, a pag. 101, volle poi tenuto al fonte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui, memore dei servizi ricevuti da quello in Marsala, accettò, con piacere di farsi compare col primo che tradì Francesco II. Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare. Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi ministro del Regno d'Italia! Nello sbarco di Marsala, tanto celebrato da' rivoluzionari, nulla trovo di straordinario, e neppure potrebbe dirsi audace. Garibaldi in Catalafimi fu sbaragliato coi suoi Mille soltanto da quattro compagnie dell'8° cacciatori, comandate dal maggiore Sforza. Ma Landi, che, come ho detto, aveva accomodati gli affari suoi, quando vide il compare Garibaldi a mal partito per la disobbedienza di forza, fuggì verso Palermo col resto della grossa brigata di 3000 uomini, lasciando le quattro compagnie senza munizioni, e senza avvertirle della sua fuga. Sin'oggi i garibaldini hanno strombazzato che vinsero a Calatafimi, mentre furono battuti da sole quattro compagnie che non oltrepassavano cinquecento uomini, e costoro si impossessarono pure della tanto celebrata bandiera di Montevideo! Garibaldi appena assalito al Parco fuggì in disordine assieme a suoi; e vedendosi abbandonato dalle squadre siciliane, voleva occultarsi su' monti per aspettare il tempo e l'occasione d'imbarcarsi pel continente. I suoi ammiratori dicono che quella fu una gran manovra per ingannare i regi, ma si sa, e lo pubblicarono gli stessi garibaldini, che il loro duce era scoraggiato, ed avea abbandonato il progetto d'impossessarsi di Palermo. Crispi e Tùrr cominciarono a persuaderlo della necessità di entrare audacemente in Palermo, e il Comitato rivoluzionario di quella città finì di convincerlo, con fargli conoscere che avea delle pratiche con qualche duce regio, e che costui gli avrebbe lasciate libere le porte di S. Antonino e di Termini per entrare comodamente. Difatti la sera precedente, ad onta che il generale Lanza sapesse che Garibaldi doveva entrare la mattina seguente in Palermo da quelle due porte, non solo richiamò attorno a sé al Palazzo reale la brigata Colonna, che campeggiava fuori le porte di Termini, e di S. Antonino, ma sguarnì di truppa le medesime porte; alla prima lasciò 59 soldati del 9° di linea, alla seconda 260 reclute del 2° cacciatori, che ancora non sapevano maneggiare il fucile. Non trovo nulla di straordinario che Garibaldi confortato dalle buone disposizioni di Lanza a suo riguardo, sia entrato da quelle due porte con quattromila uomini tra garibaldini e squadre siciliane. Il generalissimo Lanza invece di combattere validamente l'invasore, avendo a sua disposizione ventiduemila uomini, prima lo lasciò fortificare con ripari e barricate, poi mandò drappelli di soldati per combatterlo; e quando costoro arrecavano danni agli invasori, era pronto a richiamarli indietro. Lanza per rendere un maggior servizio alla rivoluzione, bombardò Palermo senza necessità e senza scopo militare, indi pregò Garibaldi per un armistizio, che finì poi con l'abbandono di Palermo e dell'Isola.

Garibaldi gridava: tradimento!

Il 30 maggio la sola brigata Mechel sbaragliò tutti i rivoluzionarii fortificati in Palermo. Garibaldi era perduto, e gridava: Tradimento? sono stato tradito! Ricorse al generale Lanza per salvarsi da' soldati di Mechel, e quel Generalissimo trattenne il braccio di costui che già stava per stritolare Garibaldi e tutti i suoi. Dopo questi fatti, Lanza senza far bruciare una cartuccia da' ventiseimila soldati, che avea sotto i suoi ordini, e che fremevano di battersi, abbandonò Palermo e la Sicilia a Garibaldi. L'entrata di Garibaldi in Palermo si celebra dai rivoluzionari come una gran vittoria militare, è una impudenza mentire con tanta sfrontatezza: lo credano i gonzi e coloro che non sanno o non vogliono sapere i veri fatti di quella tragicomedia. Il Dittatore della Sicilia vinse in Milazzo, cioè con ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese in camicia rossa, oltre delle squadre siciliane, dopo otto ore di combattimento, fece ritirare nel castello mille soldati napoletani. Che Garibaldi avesse in Milazzo ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese, lo disse egli medesimo al comandante del vapore francese il Protis; che Bosco avesse opposto solo mille uomini, si rileva dal documento che riportai . . . . . .) da osservarsi poi che Garibaldi, oltre alla superiorità del numero, aveva una flottiglia che bersagliava i regi in Milazzo, e l'appoggio morale in Messina di Clary ed in Napoli de' ministri liberali. E da osservarsi ancora che il merito del fatto d'armi di Milazzo è tutto dovuto a Medici e a Cosenz; sin dal principio della pugna Garibaldi lasciò il campo di battaglia e se ne andò sul Veloce. Nulla dunque si rileva di straordinario per parte di Garibaldi circa il fatto d'armi di Milazzo, ma trovo straordinario solamente che mille soldati napoletani lottarono 8 ore contro tutta la rivoluzione cosmopolita; e dopo di avere uccisi ottocento garibaldini e feriti novecento, in bell'ordine, si ritirarono nel castello, a seconda le istruzioni di Clary date a Bosco. Garibaldi assalendo i regi in Milazzo era certo del fatto suo, dappoiché se da Napoli fossero arrivati altri tre o quattro battaglioni, la rivoluzione sarebbe stata distrutta, anziché acquistar forza morale e materiale. Sino a Milazzo non trovo dunque alcun fatto che dimostra essere Garibaldi un generale di qualche merito, ma tutto il suo operare si riduce ad una tragicomedia. In Calabria, il Dittatore non sostenne alcun fatto d'armi importante; il suo passaggio sul continente calabro fu agevolato e protetto dalla squadra sarda, e da quella napoletana, e lo dimostra la 2a parte del Diario di Persano. Il fatto d'armi di Reggio o sia scaramuccia, fa poco onore a Garibaldi, il quale fece assalire quattro compagnie mentre dormivano, sicure di non essere molestate, ignorando il tradimento del proprio generale Gallotti; e il prode colonnello Dusmet, perché si oppose all'irrompente piena de' nemici, che si riversavano nella piazza del Duomo per opprimere i suoi soldati dormienti, fu assassinato assieme al figlio...! Dopo la scaramuccia della piazza del Duomo, i garibaldini ne sostennero un'altra finta contro il Castello di Reggio; sicuri che il generale Gallotti glielo avrebbe ceduto quando essi l'avessero desiderato; avendo loro lasciato in ostaggio la sua famiglia. Sul lido Reggino e sopra que' vicini monti Garibaldi sostenne insignificanti scontri, avendo comprato o sedotto il generale Briganti, comandante una brigata, e paralizzato il colonnello Ruiz, il quale, comandando pure un'altra brigata di cacciatori, dimostrò una condotta inqualificabile, cioè fece di tutto per fare sbandare i suoi dipendenti anziché condurli contro il nemico, come essi desideravano. Quando Garibaldi, mercé la condotta di Briganti e di Ruiz, ebbe libero il passo sul Piale, corse con tutte le sue forze per opprimere la piccola brigata di Melendez, quando essa non se lo aspettava. Difatti il generale Melendez, sicuro che Briganti e Ruiz avrebbero combattuto Garibaldi, giudicava opportuna la sua posizione per accorrere al bisogno ed appoggiare l'altre due brigate. Quando meno lo pensava si vede circondato da' numerosi nemici, i quali gli intimano di rendersi, facendogli conoscere, che le brigate di Briganti e di Ruiz già si erano sbandate, e che Vial non poteva soccorrerlo. Melendez dopo di aver tentato tutti i mezzi di salvare la sua brigata, fu costretto rendersi per la defezione de' suoi colleghi, e per l'inazione del comandante in capo Vial.

Mediocre generale

Fin qui non trovo nessuna azione militare di Garibaldi che non lo dimostri un mediocre Generale; esso disarmava e sottometteva tre brigate non con le armi e col valore, ma coi mezzi morali... neppure coordinati da lui, ma da Cavour, da Persano e dal Ministero liberale di Napoli. Garibaldi nella provincia di Reggio non trovando più soldati, non già da combattere, ma da far vendere e tradire da' propri generali, marcia alla volta di Napoli. Sul suo cammino raggiunge un corpo di esercito comandato dal generale Ghio; il quale avrebbe potuto batterlo e sbaragliarlo, invece, senza colpo ferire, gli consegna quel corpo di esercito di 13 in 14 mila uomini, e si mette agli ordini del Dittatore!... Caldarelli, in Cosenza, senza neppur vedere i garibaldini, fa con un messo una capitolazione e marcia con la sua brigata di avanguardia e di conserva col nemico. Il campo di Salerno fu tolto per le male arti degli antichi nemici del Re e per la dabbenaggine degli amici; e così Garibaldi giunge a Napoli, senza aver bisogno delle sue masse. In tutta questa campagna militare del Dittatore non trovo né scienza militare, né coraggio guerriero, ma un poco di audacia ben riuscita coi soli mezzi morali che generarono viltà, infamie e tradimenti. Trovo però che Garibaldi, ad onta che fosse in possesso del ricco Reame delle Due Sicilie, avendo acquistata forza morale e materiale, fece cattivissima prova militare nella guerra combattuta al Volturno. In effetti quando il 1° ottobre fu attaccato in campale battaglia mal diretta, e peggio eseguita, salvo il valore di speciali individui, egli si ridusse a domandar soccorso all'esercito piemontese; non giudicando sufficienti i battaglioni sardi che aveva a sua disposizione. Tutto quello che ho detto fin qui, dal generale Cialdini fu rinfacciato in pubblico Parlamento allo eroe de' due mondi; ed essendo questi fatti inappuntabili, volerli negare o travisare sarebbe partigianismo ed impudenza. Conchiudo con ripetere quello che dissi ragionando de' fatti di Calabria, cioè che Garibaldi sarà un grand'uomo, però i fatti dimostrano che nell'invasione del Reame di Napoli nulla operò di straordinario militarmente; e tutto quello che egli fece l'avrebbe fatto un uomo qualunque, dotato di talenti men che straordinarii, se avesse avuto gli stessi mezzi. So che questo mio giudizio non andrà a sangue agli ammiratori ciechi di Garibaldi; ma oggi gli uomini di senno non giudicano più sulle notizie a sensation del 1860, al contrario, valutano gli uomini di quel tempo con la realtà de' fatti compiuti. Valga ciò che avvene ad Aspromonte, ove l'invincibile eroe fu vinto e fatto prigioniero da un sol battaglione di soldati piemontesi, mentre egli aveva sotto i suoi ordini quegli stessi volontarii, co' quali si vuol far credere che avesse sbaragliato e vinto l'esercito napoletano.

(Giuseppe Buttà: Viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Napoii 1875).

da "Piemontisi, Briganti e Maccaroni", Guida Editore, 1975

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Garibaldi

 La storia espressa in forma epica del riscatto nazionale venne a costituire il mito risorgimentale. Ma parlare di mito, di leggenda, di eroi, non significa di per sé trascurare completamente il contesto reale, il riferimento a fatti storicamente avvenuti; significa, il più delle volte, dilatare gli elementi già esistenti, cosi da farli assurgere a simbolo della vittoriosa lotta del "bene contro il male", in questo caso della libertà ed indipendenza nazionale contro la tirannia e l'oppressione straniera. Se accettiamo questa impostazione, non vi è dubbio che Giuseppe Garibaldi (1807-1882) fu colui che più di ogni altro suggerì l'immagine dell'eroe, bello, sincero ed invincibile, così da contribuire in modo singolare a rendere mito e leggenda il travagliato percorso risorgimentale. Di lui scrive lo storico inglese Mack Smith: "All'apice della gloria, Giuseppe Garibaldi era forse il personaggio più celebre d'Italia. Il suo nome era molto più famoso di quello di Cavour e di Mazzini, e molta più gente avrebbe udito parlare di lui che non di Verdi o di Manzoni. All'estero, Garibaldi simboleggiava l'Italia risorgimentale di quei drammatici anni e l'intrepida audacia che tanto contribuì alla formazione della nazione italiana". Nato a Nizza nel 1807, iniziò giovanissimo a navigare con il padre, raggiungendo in breve il grado di capitano. Entrato nella Giovine Italia, per suggerimento di Mazzini si arruolò nella marina militare del Regno di Sardegna, con l'intento di cospirare dall'interno, in vista dell'insurrezione che venne tentata nel 1834. Fallita questa azione e condannato a morte in contumacia dal governo piemontese, si recò nell'America Latina, partecipando attivamente all'insurrezione brasiliana del Rio Grande e alla difesa della Repubblica di Montevideo contro l'esercito del dittatore argentino Rosas. Fu certo questo il contesto che gli permise di maturare quell'esperienza militare che lo rese generale brillante ed efficiente; la tecnica di guerriglia da lui elaborata, infatti, si fondava sostanzialmente sull'imprevedibilità dell'azione, resa possibile dai rapidi spostamenti, sovente notturni, dal coraggio nel colpire gli obiettivi più diversi e impensati, dall'obbedienza e dalla fiducia che nei suoi confronti nutrivano i sottoposti. Ritornato in Italia nel 1848, partecipò in modo significativo ed in alcuni casi determinante alla formazione dell'unità nazionale: durante la prima guerra d'indipendenza, dopo che il re Carlo Alberto aveva rifiutato i suoi servigi (per la vicinanza ideologica con Mazzini), comandò, quando la situazione era ormai irreparabilmente compromessa, una legione di volontari in Lombardia; abbandonato il Nord del paese sempre nel 1848, si recò a Roma, dove difese in modo eroico la Repubblica Romana; sconfitto, cercò di raggiungere Venezia, che ancora resisteva agli Austriaci, ma il progetto si rivelò ben presto irrealizzabile, cosi da costringerlo ad allontanarsi nuovamente dall'Italia. Nel 1859, d'intesa con Cavour, nella seconda guerra d'indipendenza, diresse un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi: dal primo ministro piemontese, tuttavia, si allontanò ben presto protestando anche vigorosamente, allorquando questi, nell'intento di coinvolgere Napoleone III, ma tradendo il principio di nazionalità, cedette alla Francia la Contea di Nizza. Nel 1860, in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele II, condusse la fortunata spedizione dei Mille, che permise l'acquisizione alla corona sabauda dell'Italia meridionale. Tale impresa, condotta in polemica con Cavour, sia al suo esordio, sia con la decisione di risalire la penisola e di conquistare tutto il Regno dei Borboni, senza procedere all'immediata annessione della Sicilia, lo fece assurgeré definitivamente ad eroe nazionale, simbolo popolare della volontà di libertà ed indipendenza. Per nulla soddisfatto della conclusione della guerra di liberazione, che non aveva coinvolto lo Stato Pontificio, dal 1861 in poi Garibaldi si adoperò in ogni modo, nell'intento di portare a termine l'opera di unificazione dell'Italia, con quella politica del "fatto compiuto" che cosi grandi risultati aveva prodotto. Agendo sempre ai limiti della legalità, si trovò ora appoggiato dal governo italiano, ora gravemente ostacolato per motivi diplomatici e di prudenza politica, fino a trovarsi contro l'esercito regolare: furono questi gli episodi di Sarnico, Aspromonte e Mentana. Infine, e l'episodio è degno di nota, dopo aver combattuto i Francesi in Italia, si unì a loro nel 1870 contro la Prussia e a differenza di Mazzini giudicò positivamente la Comune di Parigi. Queste, dunque, le più significative imprese di Garibaldi. Per quanto riguarda invece le sue convinzioni politiche, bisogna far riferimento ad una generale visione repubblicana, democratica, anticlericale, intessuta di convinzioni socialiste di stampo umanitario. Lontano da ogni dogmatismo, seppe porsi in modo positivo e costruttivo nei confronti dei diversi contesti nei quali agi. Soprattutto nel caso italiano, dette prova di notevole tempismo, acume tattico ed elasticità, anteponendo ad esempio la questione unitaria alla pregiudiziale repubblicana. A causa delle diverse, almeno apparentemente, contraddizioni e alla spregiudicatezza delle sue azioni, sovente condotte in modo decisamente rischioso e compromettente, la critica storica, certo concorde nella definizione di geniale e grande condottiero, si è spesso interrogata sull'effettiva cultura politica di Garibaldi, proponendo in alcuni casi un immagine negativa. Senza scendere comunque nel vivo della polemica - nata negli anni successivi alla spedizione dei Mille e almeno inizialmente strumentale all'avallo della politica governativa che era spesso drammaticamente in contrasto con le sue iniziative - riportiamo quale conclusione l'interessante opinione di Rosario Villari, che specificatamente si è occupato del problema: "La sua capacità di elaborazione politica era migliore di quanto si malignasse. Per di più Garibaldi fu, pur con qualche contraddizione, un forte fautore della democrazia e bisogna riconoscergli d'essere stato assai più realista di molti democratici risorgimentali".

da "Nuove Prospettive Storiche" II Vol. - Editrice La Scuola, 1997

HOME PRINCIPALE