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Giuseppe CARUSO

 

Il brigante al servizio del generale Pallavicini

[…] Giuseppe Caruso nacque in Atella, che trovasi in quel di Potenza, nel 1820 e morì nel 1892 quando cioè contava 72 anni. Chi dà uno sguardo alla fotografia di lui si avvede subito trovarsi innanzi ad un individuo anormale. Infatti la sua enorme mandibola, la sporgenza degli zigomi in avanti, l'asimmetria della faccia, la sporgenza delle arcate sopracciliari, l'infossamento degli occhi, l'ampia bocca ecc. sono tutte cose che ci fanno pensare che l'uomo di cui ci occupiamo non doveva, al certo, essere un innocuo agnello. Giuseppe Caruso, che esordì come agricoltore e finì brigadiere delle guardie forestali a cavallo nella tenuta di Monticchio, nel 1861 fu accusalo davere ucciso in Atella, durante una dimostrazione politica, un milite del plotone lucano ed allora per non esporre la sua schiena alla fucilazione pensò darsi alla campagna arruolandosi nella banda Crocco, che, nell'epoca in discorso, seminava strage e terrore per Monticchio e Lagopesole. Giuseppe Caruso, per le sue buone qualità brigantesche, ben presto si attirò la simpatia del suo capo Carmine Donatelli Crocco, che lo elevò al grado di sottocapo; ma un bel giorno Zi-Beppe così era chiamato il Caruso, in luogo di eseguire gli ordini di Crocco, si staccò dalla comitiva e andò a costituirsi al generale Fontana, che trovavasi in Rionero. Per i suoi precedenti la giustizia di Potenza regalava al Caruso sette anni di lavori forzati. Mentre si trovava in carcere, per ottenere la libertà, si offerse di voler fare la spia alla banda di Crocco. Questo suo desiderio lo fece esprimere al Pallavicini, il quale; a sua volta, fece venire innanzi a sé l'ex bandito per prendere gli opportuni accordi. Zi-Beppe così disse al generale: "La banda Crocco continua a desolare colle sue gesta i paesi del circondano, e non sarà facile poterla distruggere; poiché il capo è assai destro e scaltro, e, quello che più vale, conoscitore dei più minuti nascondigli di queste numerose boscaglie. Io, che fui già colla banda Crocco, ed ebbi ad abbandonarla per grave contesa, corsi ora, nel carcere, pericolo di morte per opera della stessa sua mano, onde voglio vendicarmi di questo infame attentato. Domando a Lei, quale capo delle truppe della zona, di venire utilizzato alla caccia dei briganti. Libero di me, io vorrei non dico esser soldato ma mettermi a guida delle truppe per dirigerle nelle guerriglie contro i briganti, avere talvolta a mia disposizione pochi e valorosi soldati per scovare il Crocco e i suoi compagni nei loro ricettacoli, negli antri più nascosti delle selve e con una persecuzione costante, spietata ucciderli ad uno ad uno o costringerli ad una resa forzata". Zi-Beppe iniziò la sua nuova carriera con una brillante operazione. Egli guidò la truppa al bosco di Zampaglione su quel di Calitri ed ivi, nel Casone, sorpresero la banda Crocco. Nel conflitto rimasero uccisi quattro briganti, altri sette furono feriti, e caddero nelle loro mani venti cavalli completamente bardati. Sequestrarono inoltre molte vettovaglie. "Da zampaglione seppi" - dice il Caruso - che il Crocco si era ritirato nel bosco di Buccino e precisamente a Cascina Ripa S. Pietro, per cui mossi risoluto ad attaccarlo nella sua nuova posizione. Avvertito dell'approssimarsi di persone sospette, il Crocco si salvò intemandosi, pel vallone Rosai, nel più fitto della boscaglia di Monticchio, ma non tanto in tempo per la sua banda che lasciò morti nelle nostre mani quattro briganti ed un frate certo padre Serafino da Monte Sant'Angelo, che sotto l'abito di religioso nascondeva un cuore di belva, ed era tra i briganti di Crocco uno dei più brutali". Zi-Beppe, dopo lo splendido risultato ottenuto nel bosco di Monticchio, non se ne stette, come suol dirsi, colle mani in cintola; poiché, dopo alcuni giorni, venuto a conoscenza che Crocco si trovava colla banda acquartierato in una boscaglia vi si recò con alcuni bersaglieri travestiti da briganti. Dopo un faticoso cammino attraverso a mille difficoltà inaudite la banda di Crocco, che aveva lasciato la masseria di Guglielmucci, all'alba, fu sorpresa al di là di Pidrallo. Volle però sfortuna che un bersagliere, nello scivolare, fece partire un colpo di fucile inavvedutamente. A quella detonazione la banda, senza pensarci due volte, s'internò nella macchia. "Con i miei soldati - scrive il Caruso - presi posizione lungo un sentiero dominante ed aprii il fuoco contro i fuggenti; ad un dato punto mi fu dato scorgere Crocco, col suo berretto da comandante in capo, galoppare in coda alla piccola colonna. Sicuro di non fallire puntai la mia carabina e feci partire il colpo. Il Generale colpito in pieno viso, malgrado la distanza di 200 metri, ruzzolò al suolo, mentre il cavallo continuò la sua corsa vertiginosa. Coll'animo trepidante e colla gioia nel cuore, in men che si dica, percorsi quei 200 metri ben lieto di portare in trofeo al Pallavicini il corpo del mio fiero nemico. Ma, ohimè! il Crocco, forse presago di sventura, aveva pensato di far portare il suo berretto dal servo fidato, e così si era miracolosamente salvato da morte sicura". Questo fatto influì tristemente sull'animo di Crocco, che, spaventato di così frequenti pericolosi incontri in luoghi a tutti ignoti, tranne che a lui ed ai suoi, ebbe paura, lamentandosi colla banda con voce concitata, sospettando che tra gli stessi briganti si nascondesse qualche traditore. Da Pidrallo, dopo una velocissima fuga durata parecchie ore, egli s'internò nelle boscaglie poste a nord del lago levantino, occupando le creste dei monti, ove dall'alto poteva dominare tutto all'intorno l'aperta campagna. Né di ciò contento, sempre timoroso d'incappare nelle pattuglie da me guidate, raddoppiò le misure di sicurezza, allontanò qualche gregario della fedeltà del quale dubitava e quasi ad imitazione dei bandi del regio Governo promise un regalo di parecchie centinaia di ducati a quelli tra i suoi seguaci o manutengoli che gli avessero presentato me vivo o morto... "Il Crocco, perseguitato da una caccia insistente ed accanita, perdette la solita audacia, egli, generalmente baldanzoso o temerario, di Carmine Donatelli Crocco fronte a me, che rappresentavo un ex suo sottocapo, divenuto più tardi rivale per questione di mestiere ed ora suo nemico acerrimo e suo persecutore, ebbe paura". Un giorno, a mezzo di denaro, seppe il Caruso da una spia di Crocco, creduta da costui incorruttibile, che il famoso brigante si trovava nel Castello di Lagopesole in attesa del risultato di un tentato riscatto verso un signore di Pietragalla. Coll'autorizzazione del generale Pallavicini, il Castello fu circondato e i briganti, che si trovavano a bivacco, furono attaccati alla baionetta. Dei briganti alcuni fuggirono verso il Bradano, dove andarono a finire nelle mani dei soldati, altri, che cercarono salire il torrente Salice, furono pure presi, e parecchi altri furono uccisi. Crocco, per una grotta, si salvò. "Scampato così miracolosamente egli errò per il fitto dei boschi, reggendo quale leone ferito e giurò in cuor suo - dice il Caruso - di bere il mio sangue. Chiamati a raccolta gli antichi e fidati suoi capi venne decretata la mia morte, il Coppa promise per suo conto di ubriacarsi del sangue mio; Teodoro, più onesto ma non meno feroce, voleva riservata a sé la mia testa per farne un presente ai miei di casa, il Tortora, fra tanta barbarie, si contentava della mia lingua, ed il Volonino, più effeminato e buon gustaio, voleva qualche altra parte del mio corpo... E così uniti studiarono in mille guise vari progetti per avermi nelle loro mani, e già pensavano a vendere la pelle dell'orso, senza contare che l'orso, a sua volta, mostrava le zanne". Il Crocco, non trovando più pace per le continue persecuzioni, cercò imitare lo spagnuolo Borjés col penetrare negli Stati Pontificii e dopo disastrose marce riuscì a giungere salvo in Roma senonché la fama sua di brigante feroce e brutale era nota alla Curia Romana, per cui Pio IX ebbe timore che il Crocco continuasse nel territorio papale le sue gesta brigantesche e credette utile chiuderlo in carcere. La Basilicata, colla scomparsa del Crocco, non poté ritenersi risanata dal brigantaggio; poiché Tortora, Sciacca, Teodoro, Volonino, Totaro, Coppa, Franco, Ciardullo, Tranchella, Masini e Coppolone seguitarono a seminare strage e terrore per quelle contrade. Non parlo del feroce e brutale aiutante del Crocco, Ninco-Nanco, il quale fu ucciso dalla truppa presso Avigliano; ma mi occupo di un'altra jena, il Tortora, il quale, al dire del Caruso, voleva sempre a sé il diritto di suppliziare i soldati caduti prigionieri, e vantava con orgoglio di averne, di sua mano, sgozzati più di cento durante la sua carriera brigantesca, non escluso qualche ufficiale, come ad esempio il Bollani del 7 fanteria. Il Tortora, temendo di cadere nelle mani della giustizia, poiché le autorità militari avevano fatto seguire numerosissimi arresti di persone sospette di manutengolismo, dopo lungo tergiversare, si arrese al generale Pallavicini a patto di aver salva la vita. Fu condannato ai lavori forzati a vita. L'esempio del Tortora fu imitato da Vincenzo Di Giovanni soprannominato Totaro, il quale, previo patto di non essere fucilato, si presentò al suddetto generale con Romolino Michele di anni 29 da Sanfele, con Berardino Marrarmo di anni 21 di Atella, con Faustino Giovanni di anni 22 da Sanfele, con Lorenzo Massaro di anni 27 e con Carmine Cajaccio. Meno il Marralino, che fu condannato a 15 anni di lavori forzati, gli altri furono condannati a vita. La banda Totaro infestò il Melfese per più di quattro anni. Teatro delle sue nefandezze fu quasi sempre il territorio di Sanfele. Il Del Zio dice sul riguardo che chi per poco scorre il processo e la sentenza del tribunale di guerra del 30 giugno 1863 avrà da abbrividire per tanta efferatezza e tanti delitti. L'ex brigante Caruso dice del Totaro che un giorno, avendo incontrato in un bosco un soldato dell'11° fanteria, se ne impadronì e, dopo averlo legato ad un albero, incominciò a punzecchiarlo a colpi di stocco e di coltello, poscia gli recise le orecchie, gli strappò gli occhi, e, dopo averlo evirato, lo ridusse a pezzi. Del Zio riferisce che un giorno i componenti la banda del Totaro sequestrarono un contadino Sanfelese, piuttosto largo di censo. Lo ligano su di una catasta di legna e vi appiccano il fuoco. Agli sforzi che quel disgraziato fa cercando di sottrarsi, i banditi lo ricacciano fra le fiamme a colpi di coltello; e in breve tempo morì sul rogo!... Ad un altro il Totaro di persona gli mozza il capo e, secondo risulta dallo stesso processo, lo conficca sopra un palo e, come se fosse stato un trofeo, lo porta seco per inviarlo a Sanfele. Sequestra un giorno una fanciulla sua concittadina e la trascina al bosco. Dopo due mesi fa sapere alla madre di venirsela a prendere. Corre questa sventurata per riavere la sua creatura, di lontano la chiama, se le accosta... ma la fanciulla è spenta, un colpo di fucile le aveva fatto saltare le cervella. Totaro è sordo alle preghiere della madre per dare la sepoltura alla figlia; ed egli, quella iena, tu piangi, le grida, valla a raggiungere. Ed una fucilata le passa il cuore, cadendo ai piedi della figlia, mentre un riso beffardo sfiorava le labbra del bandito. Totaro era principalmente implacabile contro i concittadini suoi. Un giorno sorprende un vecchio, il quale aveva nella banda un nipote; questi gli punta il fucile nel petto e lo uccide. Altra volta, per vendicarsi di un suo concittadino, sequestra il figlio e gl'impone mutarsi in bandito ed a prova gli dà ordine di uccidere la prima persona che incontra. Il povero ragazzo tutto tremante s'imbatte infatti con un infelice contadino e Totaro gli ordina di esplodergli addosso il fucile: non lo coglie e la minacciata vittima fugge. Allora Totaro la insegue, la raggiunse e la uccide con un colpo di fucile. Ritorna sul posto, ed al ragazzo che piangeva gli grida: "Per non farti più piangere vallo a raggiungere". E gli passa con una fucilata il cuore. Un altro giorno sequestra cinque Sanfelesi e li mena nel bosco. Due hanno la fortuna di fuggire e mettersi in sicuro, gli altri invece hanno le membra lacerate a brandelli e sono ridotti deformi cadaveri. Un altro, che, dopo aver ricevuto intima di arrendersi, cerca fuggire, viene accerchiato ed il Totaro, sempre con quel sorriso beffardo che lo distingueva, dice ai suoi: "Ognuno lo colpisca per conto proprio", e tra grida e strazi raccapriccianti di percosse, di punture, di carne strappata lo finiscono. "Ad uno di Bella - scrive il Del Zio - Totaro richiede ingente ricatto. E come risulta dal processo, avendo quel disgraziato risposto di non aver denaro, il Totaro grida ai suoi: 'Dacche è povero, succhiamogli il sangue'. E si avventarono: l'infelice cade, boccheggia, e, senza pietà, lo trafiggono di 28 pugnalate ed indi ognuno con la lingua ne pulisce la lama". A proposito del Totaro, il Caruso racconta il seguente episodio: "Eravamo, se non erro, nel settembre del 1862, addetti entrambi alla banda di Crocco, allora potentissima, ed occupavamo la chiesa di S. Michele alle falde del Vulture. Due soldati di fanteria, non ricordo con esattezza il reggimento, ma parmi fossero del 62°, sperdutisi nella boscaglia, erano stati condotti dinanzi al nostro Generale. Il Crocco li interrogò ripetutamente per aver notizie della forza della truppa di Melfi; ma, non ricavandone niente, ordinò che fossero condotti sulla via buona, e schizzando l'occhio fece comprendere che dovevano essere fucilati. Tale doloroso incarico fu affidato a me, quale sotto capo, coadiuvato dal Totaro e dal Finno. Mentre camminavamo per la boscaglia pensando alla sorte di quei disgraziati, mi sentivo venir meno la forza di ucciderli, per cui cominciai a scrutare il pensiero dei due miei compagni. Il Finno conveniva con me che essi erano due poveri figli di mamma, costretti dalla legge a fare il loro servizio e che disubbidendo agli ordini superiori sarebbero magari stati fucilati, quindi non era a loro da attribuirsi alcuna colpa, ma a chi li comandava. All'opposto il Totaro, quasi deridendo la nostra pietà, voleva per sé l'onore di seviziare quei due poveri militi, ed insisteva perché si facesse presto ad eseguire gli ordini di Crocco. Mentre così si ragionava, una sentinella in ritirata ci raggiunse, avvertendoci che per le vie di Foggiano era in vista una compagnia di soldati. Ordinai imperiosamente al Totaro di correre ad avvertirne Crocco, mentre io col Finno avrei risoluta la questione dei due nostri prigionieri. Malvolentieri e a denti stretti si allontanò il Totaro, mentre noi avanzammo ancora pel bosco. Quando fummo certi che non potevamo esser visti, liberammo dai lacci i prigionieri, che, poveretti, più morti che vivi si raccomandavano a tutti i santi del Paradiso e poscia, dopo di averli avvertiti di essere più guardinghi per l'avvenire, additammo loro la via di Foggiano invitandoli ad allontanarsi per quella direzione. Come se avessero le ali ai piedi, quei due poveretti si allontanarono timorosi di essere colpiti alle spalle; ma quando già lontani si volsero indietro e ci videro colle armi ai piedi ci mandarono colle mani i baci in atto di ringraziamento e di saluto. Sparammo in aria due colpi per cadauno e poscia di corsa rientrammo nella chiesa, informando Crocco che vendetta era stata compiuta". Vincenzo di Giovanni, alias Totaro era di mezzana statura, forte e robusto. Mostrava, come la maggior parte dei delinquenti sanguinarii, colorito pallido, orecchie ad ansa, fronte sfuggente, sguardo torvo, che diveniva addirittura feroce quando aggrottava le sopracciglia. Una folta e ruvida capellatura copriva il capo di questo essere pericoloso alla società. Il Totaro aveva i canini talmente sviluppati, che un giorno ricorse ad uno dei suoi dipendenti per farseli limare. La barba l'aveva ispida e sprovvisto di peli mostrava il mento. Caiaccio Carmine, che non si mostrava secondo al Totaro nel commettere delitti, aveva caratteri mongoloidi, cioè prognatismo, obliquità degli occhi, scarsezza di peli, folta capellatura e profatnia. Faustino Giovanni aveva le orecchie a punta con lobulo fuso e plagioprosopia. Massaro Pietro era prognato. Al dire di Zi-Beppe, "l'uomo più brutale che sia vissuto sulla terra fu il brigante Coppa, che, per le sue nefandezze, fu dai briganti elevato al grado di Maggiore". Questo mostro era nativo di San Fele; un bastardo cresciuto nell'ignoranza e nel vizio, che fattosi bandito, per non essere soldato, commise più atti di barbarie che abitanti annoveri il suo popolato paese nativo. Fratricida per bisogno di sangue, scannò di sua mano buon numero di briganti, solo per il fatto di non aver obbedito ciecamente agli ordini suoi, o per avere espresso il desiderio di presentarsi alle autorità militari. Il Coppa era solito bere il sangue delle sue vittime e di tale suo pervertimento andava superbo, vantandosene coi compagni e chiamando paurosi e vigliacchi coloro che rifuggivano dall'imitarne l'esempio. Durante la sua vita brigantesca Zi-Peppe ebbe più di una volta ad altercarsi col Coppola, e, a dirla schietta, l'ex guarda-bosco della tenuta di Monticchio lo temeva; poiché il Coppola, vigliacco, come tutti i delinquenti nati, era solito colpire a tradimento. Infatti, mentre dormivano, scannò otto dei suoi compagni, i quali si erano lasciali scappar di bocca che erano intenzionati di presentarsi al generale Della Chiesa. "Quando cadevano nelle sue mani dei poveri militi - seguita il Caruso - non ci era atroce supplizio che ci non escogitasse per torturare le sue vittime. Assai scaltro e destro, ardito sub all'audacia, sempre brutale e terribile anche nello scherzo, questo mostro ebbe la fortuna di sfuggire al piombo della forza pubblica, e nella sua lunga carriera arrecò più male al suo paese, che non un anno di peste o di altro terribile contagio. A me, che gli movevo guerra incessante, mandò a dire che mi avrebbe teso tale tranello da farmivi certamente cadere e di avere inventato, per me, un nuovo sistema di tortura. Malvisto e tollerato a stento dai suoi, egli imperò nella banda del Crocco finché ebbe a compagni un Ninco-Nanco, un Totaro e un Tortora a lui somiglianti in ferocia; ma, questi caduti, la banda, che egli dirigeva, stanca delle sue prepotenze, compì di sua mano vendetta, perché, mentre ei dormiva, bravamente venne scannato. Erano caduti sotto i colpi della forza armata il Palmieri, il Malacarne, il Maziariello combattendo in aperta campagna. Lo Schiavone era stato fucilato a Melfi ad esempio delle popolazioni, altri si erano spontaneamente presentati, dimodochè posso affermare, senza tema di essere contraddetto, che allo spirare dell'anno 1864, od al massimo al principio del l865, il Melfese era stato liberato da numerosi briganti, che, per diversi anni, avevano ivi sinistramente signoreggiato. Il merito principale di codesta utilissima depurazione è devoluto, in gran parte, all'intelligente e zelante opera del generale Pallavicini e all'instancabile operosità delle truppe poste ai suoi ordini. Indirettamente, ed in guisa minima, contribuii anch'io al buon risultato dell'ardua impresa, e se ciò sostengo ora, dopo tanti anni, è perché n'ebbi la convinzione materiale e costante benevolenza che il buon Generale serbò e serba sempre per me". Da quanto sopra è stato esposto, intorno al degenerato Giuseppe Caruso, appare chiaro che era un megalomane che, se si offrì per dar la caccia ai suoi ex colleghi, non lo fece, come voleva far credere, per liberare il paese dal brigantaggio, mettendo in mezzo financo la fiaba che l'odio contro il Crocco si era in lui acceso, perché aveva saputo che detto capo-brigante gli voleva far pervenire nel carcere i cibi avvelenati, "e così disfarsi di un testimone che molte cose sapeva sul suo conto". Giuseppe Caruso, e questo lo dice il Bourelly nel suo "Brigantaggio nelle zone di Melfi e di Lacedonia", fu uno dei più feroci e sanguinari briganti che componevano la banda Crocco, della quale, in più circostanze, prese il comando. In lui non ci era che sete di sangue; e giammai vi fu un sentimento di pietà, né risparmiava alcun mezzo, anche il più crudele ed inumano, purché otteneva il suo intento. Interrogato un giorno perché uccidesse tanti contadini, che non gli avevano fatto alcun male, con cinismo ributtante rispose: "perché ero certo che la truppa, trovando un morto, si fermava, ed io intanto avvantaggiavo su d'essa mezz'ora di cammino". Eppure questa belva, da vero gesuita, scrisse nella sua autobiografia di aver avuto compassione dei poveri figli di mamma!! Giuseppe Caruso, che era un abilissimo tiratore, voleva uccidere Crocco a solo scopo di ricevere il prezzo della taglia, che ascendeva a lire ventimila. Ed io, che ho avuto la pazienza di leggere buona parte delle domande inviate alla Commissione pei danneggiati del brigantaggio, ho notato che dopo la pubblicazione dell'avviso [taglia] s'iniziò un'accanita caccia contro i briganti. I manutengoli divennero carnefici, i timidi si trasformarono in coraggiosi e così il dio denaro ebbe pieno... trionfo!

da "Storie di briganti" Capone Editore, Lecce 2001 tratto a sua volta da: "Brigantaggio tramontato" di Abele De Blasio, Napoli, 1908

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PROVINCIA DI BASILICATA

COMMISSIONE PROVINCIALE

Per la repressione del Brigantaggio e per la distribuzione del fondo raccolto dalla Sottoscrizione Nazionale.

La Commissione, nella tornata del 14 andante, ha deliberato che saranno concessi i seguenti premi a coloro che assicureranno in un modo qualunque alla giustizia i seguenti Capi-briganti che infestano la Basilicata:

l° Un premio di Lire 20,000:00 pel Capo-banda CARMINE DONATELLO CROCCO.

2° Un premio di Lire 15,000:00 pel Capo banda GIUSEPPE NICOLA SUMMA NINCO-NANCO.

3° Un premio di Lire 12.000:00 pel Capo-banda ANGELANTONIO MASINI.

I suddetti premi saranno pagati in pronti contanti dal Cassiere della Commissione in vista del servizio prestato.

Per gli altri Capo briganti resta fermo il premio di Lire 9,000:00 promesso col manifesto del 19 gennaio 1864.

Potenza 15 Febbraio 1864.

Visto

Il Prefetto VEGLIO

Il Presidente Cav. P. CICCOTTI

Il Segretario G. M. ROSSI

da "Storie di briganti" Capone Editore, Lecce 2001 tratto a sua volta da: "Brigantaggio tramontato" di Abele De Blasio, Napoli, 1908

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