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EPISODI DI BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO NEL TENIMENTO DI ROCCAMANDOLFI

di: Giuliano R. Palumbo

 

L'inizio ufficiale della rivolta armata contadina nel Comune di Roccamandolfi, per quanto è conservato nei documenti consultati e in alcune pubblicazioni d'epoca e non, risale all'ottobre del 1860. Nel corso di quel mese infatti, in concomitanza della storica Battaglia di Pettoranello d'Isernia, combattutta il 17 ottobre, i contadini di Roccamandolfi, inquadrati in una formazione di ribelli, parteciparono attivamente allo scontro armato. Una parte di essa infatti, occupando una collina a ridosso dell'abitato di Cantalupo, sostenne un nutrito scambio di fucileria e diversi assalti di un reparto di Camice Rosse Garibaldine. L'altra parte invece, catturò oltre venti volontari appartenenti ad una Compagnia della Legione del Matese, i quali avevano cercato dopo la disfatta, una via di scampo attraverso il tenimento di Roccamandolfi, nell'inutile tentativo di attraversare il matese da quel lato. Per ripristinare l'ordine pubblico seriamente compromesso ed anche per domare l'euforica "baldanza di quei facinorosi", da Isernia venne inviato un reparto misto di fanteria piemontese e di volontari garibaldini. Gli abitanti di Roccamandolfi, almeno la parte più reazionaria e la frangia più intransigente borbonica, non si fece trovare impreparata. Riferiva l'avvocato Vincenzo Berlingieri, testimone adolescente di quei tragici avvenimenti e anche autore di una colta pubblicazione, che "... i reazionari ne furono avvisati per tempo e si trincerarono nel diruto castello, dove vinti si dispersero per la campagna, più ostinati di prima ...". La proclamazione di una amnistia generale con la quale si concedeva il perdono giudiziario a tutti i rivoltosi nascosti sulla montagna del Matese, cercò di ristabilire l'ordine e la quiete pubblica e salvaguardare la vita e le sostanze degli altri cittadini che aveva aderito ala nuovo Stato Unitario. Ma il fuoco della rivolta covava sotto le ceneri di una nuova violenta reazione e la sicurezza pubblica, così faticosamente raggiunta, sembrava esplodere e compromessa da un momento all'altro. Il rientro dei ribelli nascosti sulle montagne, l'arrivo dei primi soldati sbandati borbonici portatori di proclami reazionari borbonici, il ritorno in Roccamndolfi dei soldati capitolati delle fortezze conquistate dai piemontesi, la mancata concessione dell'indulto, i primi arresti, le continue vessazioni a cui erano sottoposti gli ex soldati borbonici, provocarono una dura reazione e d un giusto risentimento a quanto promesso e non mantenuto. Principali autori che spinsero e fomentarono alla rivolta armata contadina in Roccamandolfi furono infatti alcuni ex soldati sbandati borbonici, rientrati nel loro paese natale e che costituirono il primo nucleo reazionario in grado di scuotere l'Autorità e amministrativa ancora in fase di consolidamento. Questo inquietante ed iniziale periodo che la storia e gli storiografi inquadrarono poi come l'insorgere del fenomeno del Brigantaggio postunitario nelle Province Meridionali del Regno d'Italia.

La costituzione delle prime bande reazionarie nel territorio di Roccamandolfi risale al giugno del 1861, quando il giorno 3 alcuni ribelli, nascosti nella contrada boscosa "Guado della Melfa", sul Matese, uccisero a colpi d'arma da fuoco il Guardiaboschi comunale. Identica sorte toccò, alcuni giorni dopo, ad un suo fratello. L'unica colpa per entrambi, fu quella di avere aderito al Governo sabauda. Il 16 giugno, tre naturali del luogo, proclamatisi "Generali", Samuele Cimino, Domenicangelo Cecchino e un certo Ricciardone, unitamente ad una numerosa comitiva di reazionari e manutengoli, proveniente dal versante beneventano del Massiccio, invase il paese di Roccamandolfi. I ribelli effettuarono diverse grassazioni violenti con l'incendio di carte e documenti contenute nell'archivio comunale. Aggredirono poi le abitazioni delle famiglie D'Andrea, Baccaro e Ricci, rubando armi e munizioni e depredandole di oggetti e viveri. Rivolsero poi la loro azione nella casa dell'Arciprete Don Felice Innamorato, nella quale rubarono sessanta ducati, due fucili, una pistola e varie munizioni. Cercarono ancora di penetrare in altre due abitazioni, ma furono respinti per la pronta ed eroica resistenza opposta dai proprietari. Sul fare dell'alba, si ritirarono sulle alture che circondano il paese, trasportando tutto il materiale derubato. Il 13 agosto 1861 piombarono nuovamente su Roccamandolfi, di ritorno dalla scorreria su Cantalupo. I ribelli "... per vendetta e vecchi rancori ...", produssero incendi in diverse abitazioni, depredarono le armi della Guardia Nazionale, fuggita ai primi spari, e sul Colle Santo, fucilarono otto individui, tra cui alcuni preti e un vecchio agrimensore. Rivolsero quindi la loro azione delittuosa incendiando la Cancelleria Comunale e quanto era rimasto dell'archivio. Dopo tali tristissimi avvenimenti la banda di ribelli portò la sua azione devastatrice sopra gli altri paesi che circondano il Matese dal lato settentrionale. Di ritorno da una di queste scorrerie brigantesche, i due Capobanda Cicchine e Cimino, affrontatisi per una questione di gioco o forse di supremazia nel comando, si sfidarono a duello. Ebbe la peggio il Cimino, ferito mortalmente da un colpo di pistola. Dopo alcuni giorni, sorte non diversa toccò al Cecchino. Per curarsi una ferita all'avambraccio destro prodotta nel corso del duello, il Capobanda Cecchino si era nascosto in una grotta coperta di rami e frasca sita nella Contrada Macchitelle tra Roccamandolfi e Castelpetroso. La sua presenza non passò inosservata da parte di un contadino che lavorava nei dintorni. Questi avvertì immediatamente la milizia civica di Roccamandolfi. Il mattino del 5 settembre 1861, come racconta l'Avvocato Berlingieri "... venti guardie circondarono con circospezione e silenzio la caverna, vi penetrarono e agguantarono per i capelli il generale. Lo trascinarono fuori e senza produrgli un graffio, fu condotto in paese ...". Appena divulgata la notizia della sua cattura, da Bojano fu mandata una compagnia di fanteria di linea, incaricata di eseguire la condanna a morte del Cecchino nella Piazza Colle Santo. Riferisce ancora il Berlingieri: "... Cecchino ligato fu sistuato di spalle al plotone destinato a far fuoco ... e sei palle colpirono l'occipide del malfattore ... la testa era ridotta quasi in frantumi ... il cervello restò attaccato al luogo medesimo dove era caduto ... Si volle far scempio del cadavere, che venne custodito da quattro soldati. Verso sera, chiuso in una cassa, venne sotterrato fuori le mura del caposanto ..." Con la scomparsa dei due capi, i rivoltosi persero lo smalto insurrezionale e i gregari della banda cercarono di rientrare nelle loro abitazioni o di allontanarsi dai luoghi presi in esame, trasferendosi in Capitanata, al seguito dei pastori in Transumanza. Lungo questo itinerario, venne sorpreso dalla truppa Ricciardone, mentre nell'inverso del 1862, tradito da un delatore, fu ucciso il brigante Innamorato.

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