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IN MEMORIA DI GIUSEPPE MONTORI

di: Vittorio Savorini- Tip. del "Corriere Abruzzese" - Teramo 1899 - Bib. Prov. "Melchiorre Delfico" Teramo

da: http://www.itccomi.it/Storia/Presidi/Montori%20Giuseppe/Biografia.htm

Giuseppe Montori nato a Colonnella l'11 ottobre 1819 - Primo Preside dell'ITC "V. Comi" di Teramo

Signori,

Invitato a tenervi questo discorso sulla vita e sulle opere di Giuseppe Montori, io non vi nascondo d'aver provato una certa trepidazione, perché, mentre vorrei rappresentarvelo veramente quale egli fu nella sua vita di studioso e di patriota, v'hanno poi alcune circostanze che sfuggono al mio giudizio e son quelle massimamente che riguardano, dirò così, l'atmosfera morale nella quale egli visse prima del 1860. Bisognerebbe che io fossi vissuto fra quelle istituzioni e fra quegli uomini, avessi partecipato alle loro speranze, alle loro ansie, alle loro lotte, avessi insomma respirata l'aria di quei tempi, e allora ogni parola mia avrebbe davvero un valore storico e voi vedreste sorger da esse netta e bella, proprio come fu, la figura di Giuseppe Montori, che tanta parte ebbe nella vita di questa vostra città negli ultimi e più dolorosi giorni della tirannide borbonica e nel primo ventennio della libertà. Ma oggi, non ostante che quei tempi siano da noi discosti un mezzo secolo appena, pure per la rapidità vertiginosa con che gli eventi si sono incalzati e per quella anche più vertiginosa con cui le idee si sono mutate, ce ne sentiamo così lontani, che solo a stento possiamo intenderli. Dove sono andati, o signori, la fede nella libertà, gli entusiasmi per la indipendenza e la grandezza della nazione, la santa poesia della patria che infiammavano tutta l'anima dei nostri padri ? Chi comprende pili, in questi tempi di scetticismo politico, un uomo come Giuseppe Montori, forte così che aveva sfidate le galere del Borbone e che poi, al solo veder sventolare la nostra bandiera, si sentiva commosso fino alle lagrime e al primo battaglione dei soldati nostri venuto a Teramo rivolgeva un indirizzo che era tutto un inno d'amore e di gloria? Purtroppo non lo comprendiamo più! Giuseppe Montori nacque in Colonnella l'11 ottobre 1819 da Nicola e da Vincenza Guerrieri di Ascoli Piceno. La famiglia Montori era originaria della Nocella di Campli e il dott. Nicola, che fu uomo probo assai e medico molto stimato, per la professione s'era trasferito co' suoi a Colonnella. Carbonaro dal '20, egli fu uno de' pochi che tenessero vivo il fuoco della libertà in Abruzzo nei primi lustri del nostro secolo. La sua casa fu una scuola di patriottismo nella quale i suoi figli si educarono a quei sentimenti librali che dovevano poi dare in appresso i frutti che vediamo. Giuseppe era il maggiore e fece i suoi primi studi nel Seminario di Ripatransone, il quale, per i tempi che correvano, era una scuola che aveva buon nome e molti giovani vi traevano dalla nostra Provincia. Passò quindi al Liceo di Teramo, nel quale insegnavano uomini colti e spiriti larghi come Angelo Giovine e Luigi Paris, l'avo del vostro Sindaco. Il Liceo di Teramo, come quello di tutti i capoluoghi delle Provincie del Reame di Napoli, era allora anche una specie di piccola Università. Questa poi era una innovazione introdotta dal Borbone dopo il '20 per impedire che da tutte le parti del Reame traessero a Napoli tanti giovani e quivi si affratellassero e s'intendessero. Egli voleva che i suoi popoli divenissero stranieri anzi nemici gli uni agli altri e temeva "Popoli avversi affratellati insieme". A Teramo, dunque, cominciò Giuseppe Montori i suoi studi di Giurisprudenza. Correvano allora gli anni 1838 e 1839. Tempi tristi! o signori, nei quali era primo ministro del Regno un rinnegato sbirro feroce come Francesco Saverio del Carretto ed era re Ferdinando II°, despota insidioso e schiavo, moralmente, del confessore Cocle e dei Gesuiti. Ebbene, proprio allora Giuseppe Montoni col fratello Luigi e con Nicola Urbani si abbandonava alle prime confidenti speranze, ai primi magnanimi sogni di libertà. Questi suoi sentimenti li manifestava di preferenza in versi. Il linguaggio della poesia è il linguaggio della gioventù. Ma dai versi del Montori oltre a quel certo sapore classico e romantico tanto particolare di que' tempi, spira anche un foscoliano disprezzo di tutte le ingiustizie, di tutte le bassezze, di tutte le turpitudini di quegli anni difficili. Sotto, dirò così, squarci di eloquenza civile e morale messi in rima. II verso, spesso agile e spontaneo, qualche volta duro e stentato, è sempre concettoso e forte. Non erano, del resto, poesie fatte per il pubblico, ma per la sorella Colomba, per i fratelli, per gli amici. E non ne scrisse solo quand'era studente nella Semi-Università di Teramo: anche più tardi, nei tristi giorni dell'esiglio, compose canti pieni di sconforto, vere elegie, dedicate alla sorella. Gli ultimi versi portano, nel manoscritto, la data del 1859: dopo non ne scrisse più perché la grande, la vera poesia della sua vita, la redenzione d'Italia, era diventata una realtà. Tra i suoi lavori letterari meritano anche di essere notati alcuni studi Danteschi, che io credo scrivesse più tardi, forse in carcere. Nelle sue carte ho trovato un commento tanto sobrio quanto chiaro ai primi venti canti del Purgatorio ed un parallelo fatto coi versi stessi di Dante tra le colpe e le pene dell'inferno. Ecco poi perché egli, quando più in là esercitò l'avvocatura, sapeva sempre trovare nelle sue difese penali così opportuna e facile la citazione dantesca. Quando ebbe compiti gli studi nel Liceo-Università di Teramo si recò a Napoli a perfezionarsi nel diritto, vi conseguì nel 1842 la laurea in Giurisprudenza, e, subiti gli esami per il libero esercizio della professione, fu iscritto nell'albo dei patrocinatori del foro napolitano. Allora frequentò lo studio dell'avv. Ruggiero de' Ruggieri e di Pasquale Stanislao Mancini e fece sotto la guida di così grandi maestri i suoi primi passi nel difficile cammino della pratica legale. E quanto fosse stimato fin d'allora, benchè giovanissimo, lo dica la famigliarità che egli ebbe con uomini che si chiamavano Silvio Spaventa, Carlo De Cesare, Angelo Camillo De Meis, Michele Billi il martire della libertà che ebbe in Calabria il cuore squarciato dal piombo del Borbone. "Ma la maggiore intimità l'ebbe con Silvio Spaventa. Da una lettera che Giuseppe Montori scrisse al grande Abruzzese il 7 marzo 1861, e in cui rievocava i tempi della loro gioventù, si rileva che nel '41 e nel '42 essi facevano quasi vita comune, che si vedevano ogni giorno al Caffè dell'Ercolano dove parlavano dei loro studi, dei loro ideali, e delle miserie della patria. Allora Silvio Spaventa avea fondato un giornale: "Il Corriere Italiano". Il titolo spiega lo scopo, uno scopo che il Montori chiama sublime, ed era proprio tale; ma spiega ancora la breve vita di quella pubblicazione. Ai tempi di Dal Carretto il nome solo d'Italiano era già delitto. E bene, lo Spaventa nei convegni del Caffè dell'Ercolano leggeva all'amico i suoi articoli prima di darli alle stampe Quanta fiducia, quanta stima aveva dunque di lui! Credo che sia di questi tempi una memoria, che il Montori scrisse sulla pena di morte. In essa egli mostra di conoscere molto bene le opere del Montesquieu, del Beccaria, del Filangeri del Romagnosi. Trae occasione da una lezione del Carmignani, e (cosa curiosa in quei tempi pei quali all'individualismo più assoluto erano unicamente ispirate le scienze sociali) viene a una conclusione opposta a quella dell'immortale criminalista; sostiene insomma che la pena di morte può essere irresistibilmente necessaria. Per lui il diritto di punire procede non da principi teologici, non dal bisogno di vendetta, non da quello della intimidazione, ma dalla difesa e dalla necessità dell'ordine universale. E, se tale è la genesi del diritto di punire egli viene logicamente, ma per una via diversa, alla conclusione stessa cui sono giunti i moderni studiosi di antropologia criminale. Peccato che questa memoria non fosse mai finita e che però il pensiero dell'autore rimanesse quasi allo stato di semplice enunciazione. Nell'anno 1847 quando già a Napoli si era acquistata fama di egregio, ma soprattutto di onesto patrocinatore, fece ritorno a Teramo. Qui egli diventò subito l'anima e la mente dei liberali. Era egli infatti che teneva desto il sacro fuoco della patria, che faceva conoscere agli amici i libri del D'Azeglio, del Balbo, del Gioberti, del Durando; che, servendosi de' contrabbandieri, a lui fidatissimi. teneva vive insieme coi fratelli Raffaele e Luigi le relazioni tra i liberali di Teramo e quelli d'Ascoli. In quel tempo aveva fatto un viaggio negli Abruzzi un vecchio gendarme borbonico, certo Malpica, forse spedito a tastar terreno dallo stesso re Ferdinando che voleva venirvi alla sua volta. Le popolazioni non s'ingannarono sulla natura di quel viaggio e il vecchio gendarme, specialmente a Solmona, fu in pubblico ingiuriato come spia. Ed egli si vendicò pubblicando un libello pieno di contumelie contro gli Abruzzesi. I liberali d'Abruzzo risposero con la penna di Giuseppe Montori e fu risposta per le rime. Però questa pubblicazione, che allora destò gran rumore, finì interamente distrutta, perchè l'Intendente di Teramo, che era il Valla, ebbe a dire che se fosse riuscito a scuoprirne l'autore, l'avrebbe mandato in galera e ordinò minute perquisizioni per punire perfino quelli che ne tenevano copia. Intanto anche a Teramo il Montori si era acquistato nome di dotto e onesto avvocato, sicché era ricercato da ogni parte della provincia e il suo studio era diventato uno dei più floridi della città. I suoi concittadini poi cominciavano già ad apprezzarne il valore e gli conferivano quelle poche cariche che allora erano concesse: lo troviamo infatti fin da questi tempi presidente della Società economica. A strapparlo da questa vita operosa e a lanciarlo nel mare magno della politica e delle sventure ecco la rivoluzione del I 1848. Da quest'anno fino al 1860 la vita di Giuseppe Montori fu un continuo soffrire. Anch'egli, come tanti e tanti altri, fu vittima della slealtà di Ferdinando II, il quale prima diede la Costituzione, poi la giurò, poi la soppresse, poi inferocì contro tutti quelli che, fidando sulla sua parola e sulla santità del giuramento, avevano creduto di dover prender sul serio quelli costituzione e conformare ad essa la loro vita pubblica. Nell'Italia meridionale la rivoluzione del 1848, come quella del '20 era opera di una piccola parte del popolo, la più colta e la più ricca. Le plebi della città e della campagna v'erano state quasi affatto estranee, anzi la vedevano di mal occhio. Per questo, e per la discordia de' capi, chè ognuno voleva le cose a modo suo e chi era neoguelfo e chi mazziniano, succedevano grandi disordini, massime nelle città di provincia. E le plebi, dove approvavano il moto politico, non volevano saper di sagrifici, ma vociavano nelle piazze e mettevan fuori le più strane pretensioni: dove non lo approvavano, avveniva anche di peggio, perchè minacciavano di metter mano alle armi e ai saccheggi in difesa del trono. A Teramo la rivoluzione era giunta improvvisa come una bufera e vi aveva scatenate le più violenti passioni. Pochi i buoni che predicavano il rispetto della legge e fra questi il Alontori. L'Intendente, certo De Thomasis, par che fosse un uomo senza energia. Certo è che il Giovedì Santo di quell'anno si sparse per la città la voce di una invasione di montanari armati. Grande il panico. Si raccoglie il decurionato: vi intervengono tutti i padri di famiglia, si discute a lungo, si delibera poco. Crescono i timori. Nella chiesa dello Spirito Santo prima, poi in casa dell'avv. Ginaldi, poi nel teatro si tengono delle riunioni. A tutte queste riunioni non è ben certo se, insieme col De Marinis, col Tripoti, col Cesi, col Ginaldi, col Forti, col Deifico e con altri partecipasse anche il Montori: posso dirvi soltanto che fu nominato segretario del Comitato di cui facevano parte Carlo Ginaldi, Troiano Delfico, Antonio Tripoti, Berardo Bonolis, Michelangelo Forti, Valerio Forti. Nè meno è ben chiaro quale fosse il vero scopo di quel comitato. Le carte del lungo processo che ne seguì e nel quale fu travolto il fiore della cittadinanza teramana, furono trafugate dal nostro archivio provinciale e non si sa da chi. Contro il Montori; fu adunque spiccato un ordine di arresto, ma egli, avvisato in tempo, potè colla fina sottrarsi all'arresto preventivo. Così stette sette mesi nascosto per le campagne, sopportando ogni sorta di disagi. Però la Gran Corte Criminale, non essendosi provata la sua presenza nell'adunanza tenuta in teatro, non potè trovar argomenti buoni a condannarlo e con decreto dell'aprile 1850 dovè revocare il mandato d'arresto e chiudere il processo. Ma la Polizia, di cui era divenuto capo in Napoli quello sbirro del Peccheneda, livida di rabbia, ché vedeva sfuggirsi la preda. scrisse il nome di Giuseppe Montori nella lista degli attendibili. Questa poi era la peggiore disgrazia che potesse toccare a un cittadino. L'attendibile, cioè il pericoloso politico, era un uomo fuor della legge ed esposto senza difesa all'arbitrio di tutti i birri del Regno. La persecuzione della Polizia cominciò contro Luigi e Raffaele Montori, anch'essi mal visti dal governo, perchè noti per i loro sentimenti liberali. Luigi era già stato arrestato e Raffaele era fuggiasco. Il 25 giugno 1850 Giuseppe Montori, essendo venuto a Teramo per provvedere alla difesa de suoi cari, fu invitato a presentarsi dal Commissario di Polizia e quivi senz'alcuna formalità fu arrestato e condotto nelle carceri centrali. Ma che cosa era dunque successo di nuovo? Nulla. Era un attendibile e la polizia voleva la sua vendetta. Così nonostante l'assoluzione della Gran Corte Criminale, il processo fu riaperto avanti il Giudice regio e dopo 4 mesi il Montori fu condannato a sette mesi di carcere che divennero poi undici, perchè, e vedete giustizia! non si tenne nessun conto di quello sofferto prima della sentenza. Ma il peggio venne dopo scontata la pena. Era finalmente arrivato il giorno della liberazione; il misero detenuto anelava di correre nelle braccia del vecchio padre gravemente malato, dei fratelli, della sorella. Ma no! Quando proprio egli sta per uscire da quel luogo di dolore, ecco uno sbirro che gli intima : "tornare in carcere o andare in esiglio subito a Chieti". Rispose il Montori: "Concedetemi almeno il tempo che io possa restituire le loro carte ai miei clienti, i cui affari io non potrò più tutelare!" Fu inutile: dovè andare subito a Chieti, senza neanche riveder la famiglia. Cose da briganti era tale la enormità del fatto che lo stesso ufficio centrale di Polizia non trovò modo di approvarlo, e dopo due mesi Giuseppe Montori fu restituito alla sua famiglia. Ebbe allora quattro anni di tregua. Nell'agosto del 1855, nuovo ordine di arresto, nuova fuga, nuove ansie: Perchè? per nulla. Tra un attendibile e la Polizia lo sapeva liberale e sospettava di lui e certo a ragione. Bastava, per renderlo sospetto, la difesa che egli aveva scritto per sè nel 1850. Essa per quanto spoglia di invettive e di recriminazioni, era una vera e propria dichiarazione dei diritti dell'uomo, una condanna di tutto il sistema poliziesco di quel tempo. Ma, per quella volta almeno, le brame della Polizia non furono soddisfatte. Venne da Napoli l'ordine che lo lasciassero in pace. Altri 3 anni di tregua. Egli poi ne profittò per scrivere una importantissima memoria sull'arginazione del Tronto, che spesso usciva dal letto con gran danno dei paesi circostanti. Vi trattò la questione dal lato tecnico, dal lato economico, dal lato legale: espose ai due governi del Papa e del Borbone le opere che erano da farsi. Questa memoria fu poi letta alla Società Economica che la encòmio e vi richiamò su l'attenzione del governo. Per allora, non ottenne nulla; ma oggi le opere consigliate (da Giuseppe Montori sono quasi interamente compiute). Alla fine del 1857 si addensò sul suo capo una nuova tempesta e veniva dal di là del Tronto. In Ascoli vi era un certo Francesco Augusto Selva che era tra i liberali, anzi tra i carbonari e pare tenesse in mano le fila di un'associazione liberale in rapporto con quelle del Piemonte: e della Lombardia. La Polizia papale, scoperta la cosa, fece arresti e perquisizioni, processi e condanne. Una di quelle perquisizioni tornò a grave danno di Giuseppe e di Raffaele Montori e fu quella fatta nella casa di certo Nicola Tamburrini. Quest'uomo, buono di cuore, liberale sincero, aveva fondata una società cosidetta scientifica e letteraria: vi facevano parte molti giovani d'Ascoli e di Teramo. In apparenza lo scopo era la letteratura, ma nel fondo vi era la politica. I liberali dello Stato della Chiesa davano la mano ai liberali del Regno di Napoli. A questa società apparteneva anche Raffaele Montori: i soci poi si nascondevano sotto un pseudonimo, e il Montori si chiamava Tancredi, Nel processo di Ascoli un traditore, che rimase sempre ignoto, rivelò tutto. La Polizia papale avvisò quella del Borbone e, questa, manco a dirlo, ordinò subito l'arresto di Raffaele, di Giuseppe Montori e di altri: di Raffaele perchè socio della società scientifica e letteraria; di Giuseppe, perchè una lettera del Selva (21 gennaio 1855) e sequestrata al Tamburrini diceva proprio così: Mio caro Nicolino, "Ho sentito fino all'anima la morte di Carlo Poerio: un delitto di più che il Borbone dovrà saldare nel dies irae. Quanto mi tarda questa santissima vendetta. Io ardo d'ira in maniera che se fossi a Napoli e potessi avvicinare questo infamissimo essere, mi farei fucilare, ma, per Dio! lo ammazzerei senza misericordia. Ritorna mille e cordialissimi saluti per parte nostra all'ottimo e chiarissimo avvocato Montori. Io t'invidio i momenti che passi presso quest'uomo insigne e raro. Dagli mille baci per me e digli che mi conservi un posto nel suo cuore e se non lo merito per altro, lo sia per la uguaglianza (lei nostri santi principii). Poi veniva la chiusa. Dunque Giuseppe Montori era in rapporti frequenti con il Tamburrini? dunque era anche in relazione con il Selva? L'ho detto: erano i liberali di Teramo che davan la mano a quei d'Ascoli; era uno di quei mille e mille fritti per cui allora si andava preparando l'unificazione d'Italia Così la notte del 31 dicembre 1857, giudici e gendarmi invadono d'improvviso la casa dei Montori in Colonnella: vogliono arrestare Giuseppe e Raffaele; ma questi avvisati in tempo, avevano già preso il largo. Giuseppe riuscì poi a sottrarsi ad ogni ricerca, ma Raffaele per la poca accortezza di un contadino si lasciò agguantare in una casa di campagna, la sera del 24 marzo. Il processo andò, come al solito, per le lunghe. Splendida la difesa che Giuseppe, da ignota residenza, scrisse per il fratello. Alla fine la sentenza fu data nel settembre del 1859 e fu di assoluzione per tutti. E si capisce tanta clemenza. Nella Lombardia s'era già combattuta la seconda guerra d'indipendenza, l'esercito Franco - Piemontese avea già vinto a Montebello, Palestro, Magenta, Solferino, S.Martino; nell'Italia centrale, principi fuggiti e troni abbattuti, i popoli preparavano le annessioni; il grido fatidico di " Italia e Vittorio Emanuele " passava come un soffio animatore sul regno del Borbone. Potevano dunque i giudici di Terarno essere ancora severi ? I Montori avevano cospirato per la libertà: era chiaro; ma i perseguitati di oggi potevano essere i padroni di domani. E allora? allora si usò la più larga clemenza. Intanto questo fu l'ultimo processo politico che ebbero a patire i Montori. Conseguita la libertà e la unità della patria, Raffaele tornò alla direzione dei suoi interessi privati e Giuseppe consacrò tutto sè stesso, ingegno e cuore, al bene del paese. Nessuno dei due poi vantò i sagrifici durati per la patria; non chiesero compensi: il loro nome non figurò nella lista dei danneggiati politici: avevano fatto il loro dovere e non ambivano altro. Gli avvenimenti che seguirono sono noti. Dopo le annessioni dell'Italia centrale, Garibaldi volò da Quarto a Marsala da Calatafni a Palermo, da Palermo a Napoli. Di qui era già fuggito Francesco II, noti vinto dagli uomini, ma travolta dal fatale destino di tutte le tirannidi imputridite. Nelle provincie del Regno l'ansia e l'agitazione erano grandi, come tutte le volte che cade un governo e l'altro non è ancora stabilito. Anche a Teramo i propositi erano diversi e le passioni politiche tenevano agitati gli animi. Giuseppe Montori, che aveva già fato entrare di nascosto in quel di Teramo Savino Tripoti venuto dal Piemonte ad animar la rivoluzione, costituì con altri un Comitato d'ordine per impedire le inconsulte agitazioni della piazza. E non appena parve che queste prevalessero si mise da banda, ma ricomparve subito quando si trattò di proclamare la caduta dei borboni. E l'8 settembre 1860 il giorno dopo l'ingresso di Garibaldi in Napoli, scrisse il proclama con cui si annunziava ai cittadini il grande avvenimento. Diceva " Dio protegge l'Italia! I lunghi dolori di questo misero popolo si convertono in un gaudio ineffabile. L'immortale Garibaldi, non da umana forza, ma dal braccio di Dio condotto, entrava ieri in Napoli, tra l'entusiasmo universale. Salutiamo l'eroe, il Salvatore, l'inviato di Dio. In nome di Vittorio Emanuele egli è dittatore delle due Sicilie. Stretti e concordi sotto la bandiera unificatrice del Gran Re cui piacque nomarsi R Primo soldato dell'indipendenza italiana", mostriamoci degni di lui e dell'Italia. Sia gioia tra noi, ma insieme ordine e calma. Che i nostri liberatori abbiano a lodarsi del nostro patriottismo. Guai a chi ne meritasse lo sdegno!" II severo monito con cui si chiude il manifesto era diretto a quella fazione esaltata che colle sue esorbitanze pareva volesse compromettere il pacifico svolgersi della rivoluzione. Il giorno appresso, a nome del municipio e del popolo scrive ed invia a Garibaldi un indirizzo pieno d'entusiasmo patriotico e che finiva: " W Vittorio Emanuele Re d'>Italia". Le quali parole, in quel momento, avevano un valore che andava ben più in là di un semplice grido patriotico. Infatti, attorno al Garibaldi si agitava allora il fiore dei Mazziniani che guidati dal Bertani volevano spingere il Dittatore a proclamare nella bassa Italia la costituente e la repubblica. Dall'altra parte il Ministero composto di uomini prudenti come il Pisanelli, lo Scialoia, il Conforti voleva l'unità con Vittorio Emanuele. Di queste due tendenze del governo dittatoriale l'eco si ripercuoteva in tutte le provincie, e anche a Teramo. Il Conforti infatti vi aveva mandato a tenervi l'ordine come commissario governativo certo Pasquale de Virgiliis, uomo di studi, di animo mite, impari, forse, al suo ufficio. Per contro il Bertani aveva inviato al governo della città, perchè facesse propaganda mazziniana, Clemente de Caesaris di Penne, uomo d'azione ardito e pronto. I due commissari eran di fronte l'uno all'altro; stavano per succedere degli scandali dolorosi, ma il Montori s'interpose e con la sua autorità riuscì a persuadere il de Caesaris a ritirarsi. E questo fu certo un grande servizio che egli rese al suo paese in quei momenti tanto difficili che lo stesso governo di Torino, per fronteggiare la rivoluzione, che minacciava di spezzare in sul nascere la unità d'Italia, decretava la spedizione nelle Marche e nell'Umbria. In 18 giorni la campagna era finita, e vinta la battaglia di Castelfidardo e presa Ancona, V. Emanuele si apprestava a entrare negli Abruzzi. Ed è sempre per la penna di G. Montori che il popolo di Teramo gli rivolge un nobile e caloroso indirizzo. In uno di questi patriottici proclami al popolo Re Vittorio è per la prima volta, almeno che io sappia, chiamato Padre della Patria. Furono ugualmente opera del Montori gli altri proclami patriottici firmati dal Sindaco Irelli e che il nostro municipio diresse allora ai cittadini, non escluso quello con cui si convocavano i comizi per il plebiscito; e fu sopratutto merito del Montori se in que' tempi di agitazione potè in Teramo, senza disordini e senza intemperanze, costituirsi il nuovo ordine di cose. I pericoli poi erano sempre grandi e imminenti: Gaeta e Civitella resistevano ancora; l'esercito borbonico sbandato s'era dato al brigantaggio; i fautori del caduto governo tenevano agitate le plebi della Campagna e della città, mettendo in giro le voci più strane gli uomini nuovi venuti al governo, o eran di qui, e si mostravano inesperti; o eran venuti dal Piemonte e non conoscevano i bisogni e l'indole delle popolazioni: in ambo i casi, incertezze ed errori. A Teramo poi la resistenza della vicina Civitella alimentava le speranze dei borbonici, incoraggiava il brigantaggio, sfiduciava i buoni. V'erano sommosse a Nereto, a Controguerra, a Corropoli, a S. Omero, a S. Egidio. a Cellino, a Cermignano. Rifulge qui l'opera di Giuseppe Montori in servizio dell'ordine: redige proclami per tener alto il morale della popolazione scrive una lettera a Francesco De Blasiis, allora direttore del dicastero dell'Interno, per spronare il governo a mandar rinforzi di truppe e farla finita con Civitella; con altri cittadini organizza la guardia nazionale contro il brigantaggio, invoca ed ottiene per Teramo una guarnigione di truppe regolari. E quando l'undecimo battaglione cacciatori entra nella città, egli dirige ai soldati calde parole di amore e di fratellanza. Cadute Gaeta e Civitella, chiudevasi il periodo drammatico e militare della unificazione d'Italia e sin dal 18 febbraio 1861 s'era già inaugurato in Torino il primo parlamento italiano. Il Montori non aveva voluto farne parte, perchè, come egli stesso scrisse allo Spaventa, non poteva abbandonare la famiglia. Godeva allora di tanta autorità che a lui, alla sua parola si ricorreva come a un tribunale d'onore. Raffaele D'Ortensio, un bel nome di questo Abruzzo, denigrato per le stampe a lui pubblicamente se ne appella; ed egli pubblicamente difende e scagiona il venerando amico con una lettera del 10 gennaio 1861. In essa, rivolgendosi ai denigratori, esclama: "Se la sventura, rendendoci concordi ci fece riputare civili e al viver libero adatti, deh se Iddio v'illumini, smettete dal mal vezzo delle ingiurie, o liberali fratelli ! Pensate che non può esistere libertà senza rispetto e tolleranza delle altrui opinioni". In queste parole si rispecchia il carattere vero di G. Montori, che fu sopratutto uomo d'ordine religioso senza bacchettoneria, liberale non per sè, ma per tutti, rispettoso della legge, tollerante e mite. Così mite, che anche quando riunisce in un fascicolo tutti i documenti della carcere, dell'esiglio, delle persecuzioni patite, l'animo suo non impreca, non si ribella, ma scrive su quelle carte il celebre detto di Grozio: "Legum idcirco servi sumus, ut liberi esse: possímus". Così rispettoso della legge, che anche quando rivolge al popolo i suoi più ardenti proclami e lo invita a solennizzare le feste della patria, raccomanda sempre la dignità, il rispetto della legge e l'ordine. Un uomo come questo parea fatto a posta per rendere al nuovo governo i più preziosi servizi. Lo comprese Silvio Spaventa che, durante la luogotenenza del principe Eugenio di Savoia era segretario generale del dicastero dell'Interno e Polizia. Sapeva bene lo Spaventa che per far rispettate le nuove istituzioni, che continuavano le vecchie, erano necessarie persone tanto più stimate quanto più gli uffici che queste dovevan coprire erano stati odiosi e sprezzati sotto il passato governo. Ora, quale istituto, durante gli ultimi tempi, era venuto in maggior obbrobrio della Polizia? E come meglio risollevarlo a dignità se non preponendovi le persone più riputate per santità di principii e di costumi, e per altezza d'ingegno? Breve: Silvio Spaventa offre (decreto 1 6 aprile 1861) al Montori l'ufficio di Delegato provinciale di polizia per la Provincia di Teramo. E Montori, che aveva declinata la candidatura al Parlamento, accetta per il bene del paese e scrive all'amico una nobilissima lettera e dirige al popolo un manifesto che è tutto un inno alla legge e alla libertà. Quivi, premessa la notizia dell'incarico ricevuto, dice: " Nessuno per associazione d'idee vorrà confondere il mio nuovo ufficio con quello della passata Polizia. Imperocchè questa era eminentemente immorale, ingiustamente vessatrice, seminatrice di diffidenze e di rancori, invaditrice ingorda di tutti i poteri, arbitrario strumento di un partito ostile al popolo. Al contrario l'istituzione della Pubblica Sicurezza stendendo una mano soccorrevole a tutte le classi che sono più esposte alla corruzione, ha una missione essenzialmente moralizzatrice; benefica per indole è chiamata a sovvenire a pubblici e privati infortuni, a comporre pubblici e privati dissidii; e quando veglia al mantenimento dell'ordine pubblico, governata, com'è, dalla legge essa non turba i sonni tranquilli del pacifico cittadino". A questi principii ispirandosi nel delicatissimo ufficio, egli accrebbe l'amore e la venerazione che per lui già grandi avevano i suoi concittadini. Ed è a lui perciò che il 2 giugno del 1861 venne affidata la prima solenne pubblica commemorazione dello Statuto; ed è per sentir la sua parola che si strinse attorno a lui la popolazione muta, addolorata per la terribile improvvisa notizia della morte del conte di Cavour. L'elogio che egli disse allora del grande Statista, che I'Italia aveva perduto, commosse tutti fino alle lagrime; e Raffaele D'Ortensio nella "Gazzetta dell'Umbria" (7 sett. 1861) ne fece una recensione che onorò chi la scrisse quanto colui per il quale era scritta. Proprio quando era Delegato provinciale i suoi concittadini accumulavano sopra di lui le pubbliche cariche e, quantunque ciò fosse incompatibile col suo ufficio, lo eleggevano consigliere provinciale in due mandamenti. Il governo poi contento dell'opera sua intelligentissima, specialmente contro il brigantaggio, volle affidargli una più importante delegazione e lo trasferì all'Aquila. Ma egli, che non aveva voluto porre la sua candidatura a deputato per non allontanarsi da Teramo, rinunciò all'ufficio. Diresse allora (giugno, 1862), un altro manifesto ai suoi concittadini che fu come l'epilogo di tutta l'opera sua di Delegato provinciale. In esso era detto: "Quando il governo del Re mi chiamava all’ufficio di Delegato Provinciale di P.S. io feci a Voi una promessa e fu quella di star saldo in quel sentimento di legalità che fu sempre la norma della mia vita ..... quella promessa io mantenni, non un solo ha pianto per me, non un solo può imprecare al mio nome. Ove la legge mi chiamava, al rigore, ho fatto senza passione e imparzialmente il mio dovere ....... Oneste parole di un uomo onesto! In questo stesso anno 1862 pubblicò una memoria in 16 capitoli sulle Provincie meridionali d'Italia, dove e per il brigantaggio non ancora estirpato e per la mancanza di industrie e di viabilità le condizioni eran sempre infelici. Il Montori in questa memoria mette arditamente il dito sulla piaga. II peggiore dei mali che affliggono, dice, è il brigantaggio; ma non è il solo: vi ha anche disagio morale ed economico, malcontento generale, sfiducia nell'avvenire. Di chi la colpa ? "Fu Garibaldi e i suoi ministri? furono i ministri del Farini, del Principe Eugenio, del Conte Ponza di S. Martino, del generale Cialdini? Tutti avran potuto commettere qualche errore, anzi tutti ne avranno commessi, nè forse in piccol numero ma certo nessuno di essi ha creato questa condizione di cose, ha generato questo malessere". Bisogna, seguita egli, bisogna risalire più indietro, al governo dei Borboni. E qui con rapida sintesi mette in evidenza i mali di quel regime: soggezione completa del popolo mantenuta con l'arbitrio e con le persecuzioni, guerra ad ogni progresso, compressione di ogni vitalità economica. I Borboni credevano che la felicità dei popoli stesse tutta nel pagar poche tasse" Credimi, Valìa, diceva Ferdinando II all'Intendente di Teramo nel 1847, che quello è il miglior governo dove si paga meno". Intanto la demoralizzazione e l'arbitrio scendendo dall'alto avevano inquinato tutto il regno e i buoni erano inviati nelle carceri o in esiglio. Orbene (riassumo sempre la memoria del Montori) il malessere del passato si trascina nel presente, perchè mali come quelli noti potevano scomparire in un momento, anzi l'ultimo dei Barboni li ha inaspriti fomentando il brigantaggio. E su questo argomento del brigantaggio ha delle pagine di vera eloquenza in ispecie là ove indica Roma come quartier generale di quella guerra sleale ed immorale. "Chiavone, dice egli, aveva nella sua banda soldati di tutte le nazioni, Francesi, Svizzeri, Tedeschi, Napoletani, avanzi delle truppe di Francesco II, e del Papa riuniti ai tristi soggetti dei paesi vicini." Poi esclama. "Sarà Roma la perenne Coblenza d'Italia? No. Speriamo nel giorno in cui il Re d'Italia prenderà seggio nel Campidoglio". Ma con questo, badate bene, o Signori, egli rimane religioso e cattolico, sogna una prossima conciliazione tra il sacerdozio e la società civile e dice: "All'ombra benefica della divina, religione dei padri nostri, colla educazione del popolo alla moralità ed al lavoro, l'Italia, toccherà l'ultimo fastigio di prosperità ond'è capace". Bella e invidiabile natura di uomo, in cui le verità della scienza e l'amor di Patria non si scompagnano mai dalla fede religiosa che il fanciullo aveva appreso dal labbro materno! Date queste condizioni, seguita il Montori è evidente che pullulino i malcontenti e li classifica prima vengono i fautori dell'abbattuto governo, quelli che già erano in auge e avvezzi a dominare sugli altri, poi il clero por il dissidio tra la nuova Italia e la Curia di Roma, infine gli abitanti del contado diffidenti delle novità e messi su dagli altri. Ragiona a lungo di queste tre specie di malcontenti a cui aggiunge anche i dissidenti politici, cioè i repubblicani "portati dalla rivoluzione che era venuta da Marsala, come l'ordine era venuto da Torino". Parla poi dei rimedii e lamenta che si faccia poco e spesso male. E qui rifulge la integrità del suo carattere. Benchè egli abbia finalmente il governo del suo cuore, benchè egli adori Vittorio Emanuele e l'anima sua trabocchi di gratitudine per il Re, pure non ha ritegno di dire delle crude verità e di accennare alla scottante piaga del Piemontesismo che fu causa di tanti guai e di tanti malintesi. La memoria si chiude con un inno alla legalità, come egli chiama sempre il rispetto della legge. "Ogni atto, dice, che non è conforme alla legalità è un arbitrio, ogni arbitrio un disordine, ogni disordine un male". Appena libero dall'ufficio di Delegato Provinciale fu dalla fiducia dei suoi concittadini chiamato a far parte di tutte le pubbliche amministrazioni. Così dal 1862 al 1887 fu consigliere comunale, fu assessore, fu consigliere provinciale, deputato provinciale, fu membro della congregazione di carità, della società economica, del comizio agrario e di tutte le commissioni insomma che dovevano provvedere ai bisogni ordinari e straordinari della città e della Provincia di Teramo. Lo stesso governo si giovava spesso dell'opera sua chiamandolo nel consiglio scolastico, del quale con decreto reale del 29 gennaio 1867 fu nominato Presidente, nel consiglio d'amministrazione del Convitto Nazionale, nella commissione esaminatrice per gli esami di licenza liceale. Perfino la Banca Nazionale lo volle tra i suoi amministratori. Ed egli poi portava in tutte queste cariche quella rettitudine e quella serenità di giudizio che sono le doti più preziose di un pubblico amministratore. E quando ne' momenti solenni c'era bisogno di una parola autorevole e rispettata si ricorreva a lui, e fu lui che nel vostro massimo tempio, con la voce rotta dai singhiozzi, disse nel 1878 l'elogio funebre di V. Emanuele. Nel 1870 per iniziativa del Comune e del Comizio agrario fu indetta in Teramo una Esposizione regionale. Giuseppe Montori fu allora nominato presidente del comizio agrario, perchè presiedesse quella esposizione, e allora egli fece i programmi, distribuì il lavoro fra le sotto commissioni, ordinò tutto, pronunciò il discorso inaugurale. Mercè l'opera sua quell'esposizione riuscì al di là di ogni previsione. Tutti gli Abruzzi vi parteciparono e ben 30 mila furono i visitatori di essa. In quei giorni, auspice il comitato della Esposizione, si tenne a Teramo un congresso dei Comizi Agrari abruzzesi. Lo presiedè il comm. De Blasiis rappresentante del Ministro d'A.I. e C. Belli i discorsi, grandi le speranze. Parea che Teramo risorgesse a vita novella! Chiusa l'esposizione, che riuscì quanto mai si può dire ordinata e proficua, il Montori ne fece la relazione finale che fu poi pubblicata nel 1888 al tempo della seconda Esposizione: una relazione sobria, chiara, precisa. Tra le geniali iniziative prese allora dal Montori vi fu anche quella di una monografia storico-economico-amministrativa della Provincia di Teramo. La bella idea poi non andò perduta, ma fu, come è noto, attuata pochi anni fa. L'anno 1872, in seguito a proposta di S. Costantini allora sindaco, il Ministero di A.I. e C., d'accordo con la vostra Amministrazione provinciale e col vostro Municipio, istituì a Teramo l'Istituto Tecnico. Giuseppe Montori fu il nostro primo preside, cioè il primo ordinatore della nuova istituzione che oggi è venuta così in fiore. E il 3 novembre 1873, in una modesta, ma solenne cerimonia, circondato da pochi professori, da pochi allievi, alla presenza delle autorità municipali e scolastiche, egli inaugurava con un notevole discorso il novello Istituto, di cui dicea "Oggi esso non comprende ché la sola sezione di Agronomia. Credo che basti, per ora: avremo tempo ad allargarlo, come si allargheranno tra noi le industrie, come crescerà la popolare coltura .... Esso trova opportunità somma di luogo e di tempo .... sicché noi possiamo fin d'ora, fare sull'avvenire di esso i più lieti augurii, le più consolanti previsioni". Queste parole furono profetiche: oggi l'Istituto ha tre sezioni, diciotto professori, ricchi gabinetti e novanta allievi. Ma lo scopo vero del suo discorso era quello di mettere in luce la importanza dei nuovi studì tecnici. Quivi il Montori si rivela economista della scuola classica del Mill. L'Italia, dice, venuta ultima nel concerto europeo, deve risorgere anche nelle industrie e nei commerci. Abbiamo fatto oramai troppo classicismo, ora bisogna avviare i giovani alla produzione della ricchezza. La ricchezza é la base di ogni progresso vero. L'Italia non sogni primati nelle arti e nelle lettere, se prima non provvede alla sua prosperità economica che ha suo principio nell'agricoltura. E noi Teramani, esclama egli, abbiamo in questo le gloriose tradizioni del Quartapelle, dei Delfico, del Ghiotti, del Cornacchia, del Mozzetti, dell'Amary, del Palma, del Rozzi, del De Philippis: ebbene, questa gloriosa eredità dei padri nostri è ora raccolta dall'Istituto. E qui mostra quanto deve avvantaggiarsi la patria agricoltura dal nuovo indirizzo dato agli studi. Alla fine del discorso poi rivolto agli allievi esclama: Voi felici che aprite la vostra carriera nel inondo sotto i benefici influssi della libertà di pensiero .... Voi felici che dalla generazione cui toccò sostenere lotte e martiri per la causa della libertà, ricevete direttamente il prezioso retaggio di una patria libera e indipendente. Ora pertanto educatevi a forti sensi, ispiratevi ai grandi esempi per ben rispondere all'ufficio cui siete chiamati di custodire l'inestimabile deposito, che, nuovo fedecommesso, dovrete alla vostra volta conservare inviolato e trasmettere a quei che dopo voi verranno. Che bel valore avevano, o Signori, queste parole in bocca a un uomo come lui! Per 10 anni egli con affetto di padre e intelletto di maestro resse l'Istituto e v'insegnò legislazione rurale ed economia politica, amato e venerato dai colleghi e dagli allievi. Nel 1881 all'età di 62 anni cominciò a sentire il bisogno di quel riposo che è tanto necessario dopo una vita agitata ed operosa. Una fatale malattia avea poi colpito la diletta compagna della sua vita., la buona signora Luisa De Albentiis. Allora rinunciò prima all'insegnamento poi alla presidenza e si ritirò ai Colli del Tronto. Ritornava alla casa dei suoi padri, in mezzo alle memorie dei primi anni, dove aveva dalla bocca paterna imparato ad amar l'Italia, quando questo amore era un delitto. Vi ritornava non più ricco di quando n'era partito, perché dalla lunga vita spesa tutta per il bene del paese non aveva voluto trarre per sè nessun profitto. Voleva anche dedicarsi tutto alla educazione de' suoi figli, e sentiva il bisogno di stringersi di più a loro, massime allora che la sua famiglia era stata colpita dalla sventura di perdere l'angelo suo tutelare, la buona signora Luisa. Voleva anche riposare. Ma non così presto rinunciarono a lui i cittadini di Teramo. Fu consigliere comunale fino al 1887. Dopo venne a Teramo di rado per vedere i nipotini. Gli anni compivano la loro opera di distruzione. Quando lo vidi l'ultima volta era già un po' curvo della persona, avea il paso lento, e lo sguardo non brillava più. Parlava volentieri con me e quando il discorso cadeva sulla patria egli si animava tutto, parea ringiovanisse e i suoi occhi davano vividi bagliori. Il cuore del vecchio patriota era sempre quello. Amava molto anche Teramo. In una delle sue ultime lettere scritte al genero prof. Marchetti diceva: " Son grato alle ripetute premure che da te mi vengono per farmi rivedere alla mia diletta Teramo, nella quale tanta parte di me ho lasciato". Negli ultimi anni fu molto addolorato per le vicende della patria. Il sogno dei suoi primi anni s'era avverato, ma tanto il presente quanto il futuro destavano in lui serie apprensioni in fatto di religione, di politica, di morale. Sopratutto lo amareggiava che nel conflitto dei materiali interessi si sagrificasse la gloria della patria. Di carattere fu ad un tempo arrendevole e fermo; nell'amore pei suoi amici caldo, sincero e costante; pronto a sagrificarsi per il bene pubblico; nella famiglia marito e padre affettuosissimo; nel suo sistema patriarcale di vita fu sempre affabile coi suoi dipendenti e coi suoi contadini, che nascevano, invecchiavano, morivano al suo servizio. Si spense il giorno 11 del passato Aprile a 80 anni serenamente, come aveva vissuto, circondato dai figli, dai fratelli, dai nipoti. Degno epilogo di una vita intemerata spesa tutta per il bene della patria e della famiglia. E Patria e famiglia furono fino agli ultimi istanti la sua poesia: è ad esse che egli rivolge il primo pensiero nell' ultimo atto solenne della sua vita. Non vi è, o signori, eloquenza che valga queste parole con cui egli comincia il suo testamento "Nel nome santo di Dio, Sento in primo luogo il bisogno di dichiarare che in qualunque tempo mi avverrà di esser visitato dalla morte, chiuderò contento gli occhi alla luce, perchè ho potuto assistere al gran fatto della redenzione della patria. Sono altresì lieto di trasmettere ai miei figli il migliore e più prezioso patrimonio, quale io l'ho ricevuto dai miei maggiori, quello cioè di un nome onorato. Vogliano gelosamente custodirlo ed abbiano come faro della vita l'esempio paterno."

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