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MONTEFUSCO

LO SPIELBERG DELL'IRPINIA - IL CARCERE DI MONTEFUSCO [prima del settembre 1860]

LO SPIELBERG DELL'IRPINIA - IL CARCERE DI MONTEFUSCO [dopo del settembre 1860]

I MOTI REAZIONARI DEL 1860

IL PATRIOTA MICHELE PIRONTI

IL PATRIOTA NICOLA NISCO

IL PATRIOTA SIGISMONDO CASTROMEDIANO

QUANDO MONTEFUSCO ERA CAPOLUOGO DELL'IRPINIA

 

Montefusco: nei primi anni del 900

Montefusco: il carcere - doppia grata di ferro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LO SPIELBERG DELL' IRPINIA

Il carcere di Montefusco

di Palmerino Savoia - ristampa anastatica a cura dell'Amministrazione Comunale di Montefusco (AV) - 1992

 

Montefusco: monumento e ingresso carceri borboniche

Nell'ultimo decennio del Regno Borbonico di Napoli, che si doveva concludere con la leggendaria impresa garibaldina dei Mille, tra le classi intellettuali si era andato sempre più accentuando quel movimento liberale che guardava con simpatia alla politica del Cavour, il quale faceva balenare ogni giorno di più dinanzi alle coscienze degli Italiani un grande sogno: l'unità politica della nostra Penisola.

Anche nel Regno di Napoli l'attrattiva di tale sogno affascinava gli spiriti più eletti, benché lasciasse, dobbiamo riconoscerlo, completamente indifferenti le plebi meridionali. Davanti ai nuovi fermenti il re Ferdinando II, fidando ciecamente nella sua curiosa teoria "dell'acqua santa" (stato pontificio) e "dell'acqua salata" (1) (il mare) - "acque" che avrebbero dovuto costituire due potenti baluardi per la sicurezza del suo trono - anziché imboccare la strada di un illuminato riformismo, accentuò il suo assolutismo ed il suo isolamento politico, e intraprese un'azione di spietata ed ottusa repressione. Mai come in quegli anni le prigioni del Regno rigurgitarono di patrioti arrestati dalla polizia anche per un minimo sospetto di essere liberali o filocavouriani. A cominciare dal 1852, negli ambienti liberaleggianti del Regno al timore di venire arrestati dalla polizia se ne aggiunse un altro: quello -sventura nella sventura - di finire a Montefusco. E', infatti, degli ultimi mesi del 1851 il Decreto Reale di Ferdinando II che istituiva a Montefusco un nuovo bagno penale di prima classe destinato esclusivamente ai rei di Stato. L'ergastolo montefuscano divenne presto tristemente famoso e fu addirittura soprannominato lo Spielberg dell'Irpinia, perché rappresentò per i patrioti del Regno di Napoli quello che fu la prigione austriaca, immortalata da Silvio Pellico, per i patrioti del Lombardo Veneto ed assurse, con quella e con altre, a simbolo del tributo di sofferenze che gli Italiani dovettero pagare alla storia per avere una patria unita. I locali del nuovo penitenziario esistevano già ed erano assai noti. Fin dal secolo XIV Montefusco, l'alpestre cittadina posta a cavallo fra le due province di Avellino e di Benevento, era stata sede della Regia Udienza della provincia del Principato Ultra. Le Regie Udienze erano essenzialmente dei tribunali provinciali e come tali dovevano avere, quale necessaria appendice, un carcere giudiziario. Quello della Regia Udienza di Montefusco aveva già fama di essere uno dei più duri e penosi del Regno. Allogato nei sotterranei dell'antico castello, trasformato dagli Aragonesi in palazzo del tribunale, esso consisteva di due vaste corsie sovrapposte, di forma rettangolare. Quella inferiore era la più malsana perché umida e buia. Eppure una prammatica emanata dal viceré di Napoli verso il 1600, e riportata da Eliseo Danza, prescriveva che i carceri non dovevano essere "tenebrosi vel faetidi aut subterranei cum non ad poenam sed ad custodiam potius inventi sint" (2). Ma il regio carcere di Montefusco dimostrava come fossero applicate quelle bellissime affermazioni di principio; esso era sotterraneo, tenebroso e fetido a tal punto che i presidi, i quali abitavano ai piani superiori del castello, erano costretti d'estate a sloggiare, tanto era il puzzo che promanava dal sottostante carcere. Nessun contadino avrebbe usato quegli androni neppure come stalle del proprio bestiame. Tra le popolazioni della provincia correvano storie spaventose di maltrattamenti e di sevizie ivi subite dai prigionieri. Nei registri dei decessi delle locali parrocchie è frequentissima al margine degli atti di morte l'annotazione "morto nel regio carcere". Alcuni versi popolari, riecheggianti vagamente quelli che Dante immaginò sulla porta dell'Inferno, suonavano così:

Chi trase a Montefusco e po' se n'esce

pò dì che nata vota nterra nasce.

(chi entra a Montefusco e poi ne esce può dire che sulla Terra un'altra volta nasce).

 

Montefusco: interno carceri borboniche

 

Quando nel 1806, durante l'occupazione napoleonica, la Regia Udienza di Principato Ultra fu trasferita ad Avellino (e da allora cominciò a chiamarsi Intendenza), i locali del carcere restarono vuoti ed abbandonati. Ma nel 1852 pensò Ferdinando II a bene utilizzarli, come si è visto. Per il re borbonico questo carcere, senza tener conto che gli faceva risparmiare una bella somma di danaro, dato che il costruirne uno nuovo sarebbe costato molto, era la prigione ideale perché sorgeva in un piccolo centro contadino dove il liberalesimo era sovranamente ignorato, in una zona montuosa e impervia dove era più facile assicurare quell'isolamento necessario dei detenuti dal mondo esterno, isolamento che nelle prigioni più vicine a Napoli non sempre era possibile garantire. Ben ricordava re Ferdinando II che alcuni anni prima, e il ricordo gli bruciava come uno schiaffo, lo statista inglese Sir W. Gladstone, dopo aver visitato le prigioni politiche napoletane di Procida e di Nisida, aveva bollato al cospetto dell'Europa intera, nelle famose lettere a Lord Aberdeen, la crudeltà inumana del regime poliziesco borbonico con la storica invettiva "Negazione di Dio! ". La sventura di inaugurare il nuovo bagno penale di prima classe, il 2 febbraio 1852, toccò ad un gruppo di cinquanta prigionieri politici, tra i quali ricorderemo: il barone Nicola Nisco di S. Giorgio del Sannio, il duca Sigismondo Castromediano di Lecce, Carlo Poerio già Ministro di Ferdinando II e il conte Michele Pironti di Montoro, provenienti tutti dal penitenziario di Procida. Il Castromediano ed il Nisco ci hanno lasciato memoria della loro detenzione in tale orribile carcere; sono pagine che non si possono leggere senza una profonda commozione, perché ci pongono innanzi agli occhi le pene di quei nobili spiriti i quali soffrirono senza batter ciglio per tener fede, virilmente e dignitosamente, ai loro ideali di libertà. Arrivarono a Montefusco sul far della sera, dopo aver viaggiato su rozzi carrozzoni militari incatenati a due a due. Soffiava un vento gelido. Perquisiti accuratamente - e per questo furono costretti a denudarsi - vennero spinti nella corsia inferiore del carcere, alla quale, in vista della riapertura, non era stata apportata alcuna modifica per renderla meno penosa a quegli uomini che non erano certo, oltre tutto, dei comuni criminali. Forse si trattò di un sottile accorgimento della tirannide: si volle umiliare in tal modo "i ribelli" per piegarne l'indomito spirito e indurli a chiedere grazia sconfessando le proprie idee. Per alcuni, i più deboli, lo stratagemma riuscì. Quando furono tutti dentro, il comandante del bagno, dal vano di una finestra-spia, con truce cipiglio e gridando come un forsennato, spiegò a quei nobili detenuti il Regolamento del luogo che li ospitava e li atterri con truculente minacce. E che non si trattasse di minacce a vuoto si vide subito dal modo con cui vennero trattati fin dalla prima sera. Erano stanchi e digiuni da oltre ventiquattro ore. Dovettero protestare a gran voce per ottenere qualcosa per rifocillarsi e solo grazie all'interessamento del cappellano potettero ricevere una nauseabonda brodaglia in recipienti dagli orli slabbrati e consunti. Per quanto riguarda il riposo di quella prima notte, fu detto loro che i letti non erano stati approntati e che pertanto dovevano arrangiarsi. Ecco come il Castromediano ci riferisce:

"Rimasti soli con la nostra desolazione non vi era altro cui appigliarsi se non coricarci su quel suolo a ciottoli. Così facemmo. La notte era diaccia e ventosa, la neve fioccava fitta sulle circostanti montagne ed il rovaio impetuoso entrava libero dalle imposte delle finestre, le quali chi sa da quanti anni non erano state curate. Ci coricammo adunque rimanendo vestiti e avvoltati nei mantelli e per non perire intirizziti dal freddo e per crearci un'atmosfera più tiepida, ci accostammo ed abbracciammo siffattamente l'un l'altro da parere una sola massa. Dopo stentatissima ora riapparve l'alba, ci alzammo con le ossa rotte e le membra fredde e indolenzite, sparuti come larve. Dalle fessure delle finestre vedemmo la neve biancheggiare sulle creste dei monti e la vedcemmo accumulata per circa 10 centimetri sul davanzale di esse" (3).

Il trattamento durante gli anni di permanenza nel carcere fu durissimo, certamente più duro ed inumano di quello riservato agli assassini ed ai grassatori, che nel passato si erano avvicendati in quegli stessi locali in attesa di finire sulle forche. Il disagio maggiore, fisico e morale, era dato dalla ristrettezza dello spazio e dalla mancanza di qualunque forma di privacy, che obbligava a far tutto in pubblico. L'atmosfera era ammorbata dalle esalazioni ammoniacali e alle energiche rimostranze dei prigionieri perché si ponesse fine in qualche modo a quello sconcio, il crudele comandante del bagno penale una volta rispose: "l'acido ammoniacale fa bene alla salute!". La vigilanza era continua, implacabile, fastidiosa. Le perquisizioni erano quasi quotidiane e i rozzi carcerieri le eseguivano senza nessun riguardo per il ritegno delle persone e per l'incolumità delle cose; libri, biancheria ed altri oggetti dopo alcune perquisizioni diventavano quasi inservibili. Ai prigionieri che lo desideravano era permesso farsi comprare in paese dei generi commestibili come uova, frutta, pane. Molti, però, pur potendolo, rinunziarono a questa facoltà per due inconvenienti: primo perché i carcerieri si facevano pagare ogni cosa acquistata il doppio e anche il triplo del costo normale, e non restituivano mai l'eventuale resto; secondo perché alcuni di tali generi commestibili, prima di essere consegnati ai detenuti, venivano accuratamente esaminati nel timore che contenessero segreti messaggi e per questo erano tagliuzzati in tal guisa che diventavano immangiabili. Inoltre, qualunque estraneo che dall'esterno di quel luogo di pena dimostrava simpatia e pietà per i poveri detenuti o, anche inconsapevolmente ne alleviava in qualunque modo le sofferenze, diveniva sospetto e dal sospetto alla punizione il passo era breve. Tanto capitò ad una ragazza, a un sacerdote e, incredibile dictu, ad un usignuolo. E' il Castromediano medesimo che ci racconta i tre episodi. Sulla spianata dell'ergastolo, proprio sotto le finestre, passava una stradina di accesso secondario al paese. Per quella saliva ogni giorno, per sbrigare sue incombenze, una ragazza del popolo di nome Carmela, "giovine dai biondi capelli e dagli occhi turchini, svelta quanto una gazza colorita più d'una rosa". Arrivata sotto le inferriate del carcere Carmela alzava gli occhi e salutava con un sorriso i prigionieri aggrappati ai riquadri della inferriata interna. Era un gesto gentile di commiserazione e di evidente umana simpatia; lontanissimo dall'animo della fanciulla ogni sottinteso politico e risorgimentale, il suo sorriso era scevro di qualunque men che casto sentimento. I detenuti ne erano commossi e cominciavano ad aspettarne il passaggio quasi con ansia. Un giorno uno di essi volle regalare alla bionda ragazza, gettandolo dalla finestra, un gruzzolo di monete, ma disgraziatamente fu scorto dalle sentinelle che diedero subito l'allarme. Carmela fu arrestata e non si vide più (4).

L'episodio dell'abate Ciampi lo riportiamo con le parole stesse del Castromediano, perché contengono una descrizione interessante riguardante usi e abitudini della Montefusco di quell'epoca. "Correva la festa del Corpus Domini e la Processione, in gran pompa, lunga e folta di devoti, attraversava anch'essa la spianata. Era una processione caratteristica e originale, proprio di un popolo di montagna rozzo e immaginoso. Confraternite, croci-gonfalone di vario colore, aste lunghe parate di fiori, di nastri e di spighe: suoni di pive e di cennamelle, scoppi di mortaretti, rullo di tamburi, un festoso e imponente vestire di Sacerdoti, un ricco Baldacchino, un ricco Ostensorio e in ultimo un uomo sepolto in un ampio e pesante mantello, a guisa di piviale, fittamente tessuto di paglia e di spighe di grano secco... Venivano dietro nella processione le Bande Musicali, i militari in parata, le Autorità del luogo, fra cui il nostro Comandante ed il nostro Ispettore di Polizia; poi maschi e femmine in gran numero, popolani e contadini specialmente, in abito di festa. Giunto a noi il Santissinio, quell'Arciprete che lo sosteneva, l'Abate Pasquale Ciampi, si fermò e con l'Ostensorio solennemente ci benedisse... Quella Benedizione riuscì di pretesto per vendicarsi. "I nemici del Re non devono essere benedetti da Dio", gridavano sbuffando, e così fu che confinarono il bravo abate in un paesello della Basilicata ove stette tre anni" (5).

Infine l'episodio dell'usignuolo. Al di là della spianata vi era un pezzo di terreno ricco di alberi. Nel fogliame di uno d'essi veniva spesso a rifugiarsi un usignuolo il cui canto alleviava i poveri prigionieri distraendoli dai tristissimi pensieri che continuamente li assillavano. Ma una rozza sentinella, non si sa se per fare sfoggio della propria bravura di tiratore o se per togliere ai detenuti anche quel semplice piacere, con una fucilata uccise l'innocente bestiola. Dopo alcuni mesi, poiché la permanenza continua nell'umida e malsana corsia inferiore aveva cominciato a far sentire i suoi effetti perniciosi sul fisico dei prigionieri, questi furono trasferiti in quella superiore. Ma la salute di molti ne fu irrimediabilmente compromessa. Ci racconta il Nisco: "al Poerio sopravvenne affanno pettorale, al Castromediano bronchite ricorrente, al Pironti spinite, a Staglianò artrite, a Schiavone la perdita di un occhio, a diciassette rilassamento dell'anello inguinale; De Gennaro smarrì la ragione; furono emottoici Tuzzo, Serafino, Sticco: finirono per etisia Antonio Ferraro, Alfonso Zeuli e Vincenzo Cavallo; morirono di colera Mellucci, Cimmino, Pannunzio, Gatto e Torquato" (6).

Il 28 maggio 1855 un gruppo di trenta detenuti, e fra essi Nisco, Castromediano, Poerio e Pironti, da Montefusco furono trasferiti al carcere di Montesarchio (il Pironti, immobilizzato ormai dall'artrite contratta in quel bagno penale, fu trasportato su di una barella). Il loro calvario ebbe termine il 13 gennaio 1859 quando, per Decreto Reale la pena dell'ergastolo venne loro commutata in quella dell'esilio perpetuo, che però tale non fu poiché gli eventi presero piega diversa da quella prevista da Ferdinando II. Infatti, i sessantasei proscritti provenienti dai vari ergastoli, imbarcati su una corvetta reale, raggiunsero il porto di Cadice dove trasbordarono su una nave americana che avrebbe dovuto condurli negli Stati Uniti. Ma giunti in alto mare costrinsero il comandante della nave a deviare la rotta e a sbarcarli nel più vicino porto inglese. Nel mese di marzo erano a Torino e dopo gli avvenimenti del 1860 poterono riunirsi alle loro famiglie e riprendere le loro attività nella patria libera ed unificata. Il nostro carcere dopo la proclamazione del Regno d'Italia venne utilizzato come succursale di quello di Avellino. Vi si ospitò però un numero limitato di detenuti (cinquanta), provenienti dalle carceri di Avellino, di Napoli, di S. Maria a Vico e della Basilicata, e non si raggiunse mai più il pieno di duecentocinquanta, come nelle epoche precedenti. Finché il 1 aprile 1877 esso fu soppresso e nell'edificio (ma solo nella corsia superiore) fu sistemato il carcere mandamentale in dipendenza della locale Pretura. Soppressa quest'ultima nel 1923, il carcere fu chiuso del tutto. Oggi lo storico ergastolo, dichiarato monumento nazionale (7), si presenta con lo stesso sinistro aspetto che aveva nel 1860 quando ne uscirono gli ultimi patrioti; le massicce inferriate ricoperte di ruggine, le pesanti imposte di legno che mal riparavano dai venti gelidi i poveri reclusi, le porte ferrate che si chiudevano come pietre tombali sulle loro speranze e sui loro ideali, in un angolo la pesante catena e l'anello di un vergognoso "puntale": tutto e immutato, come allora. L'unica novità è costituita dalle numerose lapidi marmoree che ricordano ai posteri, esaltandolo, il martirio di quanti penarono in quegli oscuri androni. Entrandovi si ha la netta impressione di varcare la soglia di un luogo sacro e ci si inchina riverenti. Nell'anno 1961, celebrandosi il primo centenario dell'Unità d'Italia, furono numerosi i visitatori che si portarono fin qui. Le commemorazioni culminarono e si conclusero il giorno 27 marzo. La civica amministrazione del comune di Montefusco volle, nella circostanza, onorare degnamente la memoria di coloro che all'unificazione della Patria, penando in quel bagno di orrori, diedero contributo nobilissimo col loro sacrificio. In quel giorno infatti fu inaugurato un monumento ai reclusi nello Spielberg dell'Irpinia del lontano decennio 1850-1860. Eretto in un angolo della Piazza, nei pressi dell'ingresso superiore dell'ergastolo, esso simboleggia la vittoria ed il trionfo del sacrificio e della libertà sulle catene del dispotismo e della tirannide.

 

NOTE

(1) E' nota la battuta di Ferdinando II: "nui stammo sicuri, cunfinammo cn' l'acqua santa e cn' l'acqua salata". Quanto fosse priva di vero acume politico quella sua convinzione si vide nel 1860, quando proprio dall'acqua e "salata" (Garibaldi) e dall'acqua "santa" (Vittorio Emanuele II) venne la rovina del suo regno.

(2) DANZA, De Pugna Doctorum, II, 62.

(3) CASTROMEDIANO, Memorie, vol. I, pag. 30.

(4) CASTROMEDIANO, op. cit., vol. II, pag. 3.

(5) Dopo questi due episodi la strada che passava sotto le finestre del carcere fu chiusa al transito e tale rimase fino al 1860, con grande disagio della popolazione.

(6) Nisco, Storia del Reame di Napoli, libro II, pag. 316.

(7) Gazzetta Ufficiale del 17 febbraio 1928.

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