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 BRIGANTAGGIO CON LE RAGIONI SUE E DEL POPOLO

di Gino G. Guarino

da: "Brigante in terra nostra" a cura: Associazione Progetto Domani - Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio Calvi (BN) - Stampa Borrelli, San Giorgio del Sannio (BN), 2000

 

Nel 1864 il Giornate Illustrato di Torino (n.5 dal 2 all'8 luglio) si chiede da dove trae origine il brigantaggio, quali le cause che lo predisposero, lo prepararono, lo mantengono, lo alimentano; se è un fatto individuale, una piaga sociale, un avanzo del medioevo; se trae vigore e radici da Roma papale o è il suolo stesso; se è un fatto speciale del napoletano e del presente o è un fatto che si ripete sempre nei momenti di crisi e di trasformazioni. "Se ha cause morali che lo fomentano, non giova opporgli altre cause morali? Se la povertà, le miserrime condizioni sociali dei campagnoli ne sono gli stimoli principali, se l'ignoranza, la depravazione, non converrà forse opporre altre forze morali, come l'educazione, la provvidenza sociale, il lavoro, l'amore?" Fino al 1864 la nuova Camera dei deputati dedica più di cento sedute alla discussione sul brigantaggio, ma "il mostro del brigantaggio non è domo". Ricorrono "fatti spaventevoli per bestiali atrocità" e si avvicendano "atti di coraggio eroico". Il Giornale fa valutazioni ed esempi, narra storie e vicende, ritiene svariatissime le cause che destano e alimentano il brigantaggio, mentre ravvisa l'opportunità di molti interventi per farsi che la civiltà possa prendere "il passo sull'ignoranza e la barbarie antica." La cronaca settimanale ricorda che "tutti i giorni partono per la Sardegna dei condannati al domicilio coatto in forza della legge Pica"; è piena di riferimenti, cita aggressioni, uccisioni, rapimenti, agguati. Oltre questi dati comuni, più interessanti sono gli arresti del sindaco di Baselice, barone Petruccelli e del locale capitano della Guardia Nazionale perché manutengoli della banda Caruso; la condanna di un arciprete quale complice dei briganti da parte della Corte di Assise di Lecce; l'arresto di una monaca ventiquattrenne a Terranova di Pollino perché tiene corrispondenza con i briganti; l'arresto di un capitano della G. N. a Pertosa di Sala come falsificatore di monete; le trattative di venti capi briganti per arrendersi al gen. Pallavicino; l'arresto di nove contadini a Cerreto Sannita, manutengoli dei briganti; l'assassinio a Nola di un brigante della banda Gravina da parte del brigante Lauro che si presenta al prefetto per il perdono; la condanna a 15 anni di lavori forzati di un arcidiacono e di un canonico a Rapolla (PZ) perché colpevoli di attentato, saccheggio e istigazione alla rivolta; la beffa del brigante Marciano di Muro Lucano che per otto anni fa il mestiere di industriante a S. Angelo de' Lombardi prima di essere scoperto. Gli esempi riportati da tutte le cronache sul brigantaggio preunitario e postunitario potrebbero continuare all'infinito; ma ci interessa principalmente approfondire le ragioni del brigantaggio meridionale, soprattutto quello antecedente l'unità d'Italia. Ripercorriamo velocemente alcuni avvenimenti. Il Codice Civile di Napoleone entra in vigore nel 1804. Dopo la violenta repressione dei repubblicani nel 1799, Ferdinando IV è costretto a riparare in Sicilia nel 1805, pressato dall'armata francese. Nel 1808 è ordinata la generale soppressione dei monasteri con le loro pertinenze; nel 1810 segue la soppressione di tutti gli ordini religiosi e l'acquisizione al demanio di ogni loro proprietà. Giuseppe Bonaparte, re di Napoli per soli due anni (1807-1808), parte deciso alla trasformazione del regno, convinto di doverci restare per molto; in mezzo a mille nemici, adotta provvedimenti miranti alla pace e alla giustizia, ma non sa di dover fare i conti con quei vecchi giacobini del '99 che cercano la vendetta, con i briganti riforniti da Ferdinando IV e con gli inglesi che fanno arrivare sulle coste del regno tutto ciò che può essere destabilizzante. Il Cartaginese è uno dei giornali antinapoleonici, stampato a Malta e diretto da quel Vittorio Barzoni perseguitato da Napoleone in tutta l'Europa per aver smascherato con i suoi scritti, in particolare col volumetto del 1797 I Romani in Grecia, la finta libertà propagandata dai francesi. Tantissirne copie di questo giornale vengono abbandonate nottetempo su tutte le coste del regno per sobillare la popolazione. I pescatori preferiscono abbandonare le reti per raccogliere i giornali e venderli alla polizia a uno o due ducati la copia. E' da dire che, in quel periodo, la paga giornaliera di un operaio è di circa 20 grani, vale a dire 2 carlini o un quinto del ducato; perciò una copia del giornale frutta 10 giornate lavorative! Certo è che i francesi non calano in Italia per portare soltanto la buona novella della rivoluzione; al loro passaggio si registrano cose turpi. Nel 1798 i membri dell'Ufficio generale dell'Armata a Roma sono costretti ad emettere un appello ai cittadini romani con l'invito a dichiarare quanto è stato consegnato in danaro, mobili, effetti, gioie e cavalli a coloro che chiedono tali contribuzioni per l'Armata. Essi sperano così di convincere i romani che "i ladronecci" non sono operati per ordine dell'Armata, che intendono vendicare il delitto commesso da "un pugno di ladri", concludendo con queste parole: "Voi somministrerete soltanto ciò che vi si dornanderà legalmente, e contro ricevute buone e valevoli fatte da chi n'è autorizzato. Vogliamo darvi la Libertà, ma non vogliamo che siate spogliati." La storia è ben diversa e si sa delle infinite spoliazioni subite dagli italiani e dagli altri popoli, come naturale conseguenza di ogni guerra o di ogni occupazione. Qualche anno dopo Giuseppe Bonaparte, troppo morbido come re di Napoli, viene promosso re di Spagna e a Napoli arriva Gioacchino Murat, più deciso del cognato e più autonomo nei confronti dell'imperatore cognato. I suoi tentativi di costruirsi un regno, mai digeriti da Napoleone, cozzano pure con gli interessi della nobiltà e dei latifondisti, degli ex conventuali e della Chiesa stessa, con la miseria e le superstizioni del popolo che rifiuta come sacrilegio i cimiteri, con la stessa sopravvivenza dei briganti che sostengono il Borbone di Sicilia e, indirettamente, con le mire degli inglesi. Perciò gli amici consigliano spesso a Murat di essere più francese e meno napoletano. Nel 1812 Ferdinando IV, da tenace conservatore diventa per opportunità uno dei più reazionari d'Europa, annulla le imposte, fa la pace con la nobiltà siciliana che l'anno prima s'era rivoltata per una serie di misure fiscali, concede la Costituzione. I baroni soggetti a Murat ravvivano le speranze di riprendersi le terre passate al demanio e al popolo e, se devono essere apparentemente accondiscendenti, sono pronti a ridiventare borbonici; osteggiano l'imposizione delle leggi sulla feudalità e trovano il modo di farle pagare ai sottoposti, dimostrando che nel regno contano e condizionano anche i pensieri del popolo ignorante. Secondo le disposizioni sull'istruzione del popolo, avviate da Giuseppe Napoleone, gli ex frati e preti sono costretti, insieme ai parroci, a rastrellare i ragazzi nelle campagne per obbligarli ad apprendere l'indispensabile sapere; ma l'esperimento naufraga miseramente, controllato dal celato "consiglio" dei potenti. Murat intraprende infinite opere per migliorare il "suo" regno tra la generale avversione o indifferenza. Solo alcuni intellettuali napoletani comprendono "lo spirito murattiano" e collaborano con l'entourage reale per attuare le riforme. La più importante è proprio la distribuzione delle terre ecclesiastiche e feudali al popolo o l'ampliamento delle terre demaniali a favore dei comuni. Ma il popolo, per avere le terre, non sa di dover fare i conti con la complessità delle leggi, con i costi esosi degli avvocati che si apprestano a diventare i veri neo ricchi, con le minacce dei baroni che tentano di obbligare la gente alla restituzione nelle forme più strane, ivi compresi pagamenti immaginari di affitti, pedaggi, uso di acque e via dicendo. Nel 1814 è soppresso il codice napoleonico e Pio VII reintegra lo Stato Pontificio. A giugno del 1815 Ferdinando IV rientra a Napoli e dichiara abrogata la Costituzione concessa ai siciliani; prende il nome di Ferdinando I re delle Due Sicilie e governa con fermezza fino al 1825, seguito dal figlio Francesco I fino al 1830, seguito dal figlio Ferdinando II e, infine, dal figlio Francesco II che è costretto a riparare a Roma nel 1860. Proprio Ferdinando IV, un anno dopo il rientro a Napoli, si preoccupa di emanare un editto "Contro bande di malfattori guidate da Vito Colagiuri, Carlo Cironte, Paolo Negro soprannominato Pecora ed altri che turbano la tranquillità di alcune provincie del Regno. Premi a coloro che uccideranno o consegneranno vivi i banditi." Il 28 febbraio 1817 l'intendente Maresciallo di campo Colaianni ordina, in base al Real Decreto del 2 febbraio, la formazione di colonne mobili contro i perturbatori del buon ordine e per curare "l'esterminio de malviventi". Il colonnello Cesare Mari è nominato Commissario generale per la tranquillità del Regno "nelle Provincie di Capitanata, di Basilicata, di Molise, ed ovunque la persecuzione delle principali Bande de' Forusciti esigerà la sua presenza". Ormai banditi e briganti hanno assolto alla loro funzione, hanno facilitato al Borbone il recupero del Regno; ora non devono più dare fastidio. Il popolo sta a guardare questo andirivieni di re, vive la quotidiana realtà del povero pane da conquistare, spera sempre in qualche miglioramento, si adegua alle circostanze. Che sia la faccia di un re borbonico, di un re francese, di un generale illustre, di un re sabaudo, di un barone o di un brigante, sa solo che poco cambia il suo stato di miseria. La suddivisione delle terre, insieme con alcune idee della rivoluzione portate dai napoleonici, cominciano intanto a far breccia nella mente popolare. Ripercorrendo il periodo murattiano, ricorderemo che a Benevento il governatore Louis de Beer, uomo di fiducia del principe Talleyrand, teme nel 1813 che il Principato possa essere annesso al Regno di Napoli, in vista di un governo distaccato dal controllo di Napoleone. Murat è popolare, si batte per il suo regno, ha l'adesione degli ufficiali, è in buone trattative con inglesi e austriaci, può contare sull'appoggio della massoneria; ma la fedeltà a Napoleone prevale e sfiorisce il sogno del regno murattiano autonomo. Benevento è occupata nel 1814 da truppe napoletane e il nuovo governo della città deve fronteggiare grossi contrasti tra fautori e oppositori dei due regimi, tra gli immancabili papisti e realisti borbonici, nonostante alcune felici scelte di pubblico interesse, come l'abolizione di alcune tasse, l'assistenza ai più bisognosi, la difesa delle nuove proprietà agricole. Lo spirito antifrancese si manifesta, tuttavia, tra i nobili perché le migliorie apportate sono a spese dei ricchi e a favore dei meno abbienti che poca voce possono offrire. Ciò avviene nonostante l'acquistata tranquillità pubblica, le strade più pulite e sicure dalle "bande di malfattori che funestavano le campagne e mettevano a repentaglio la vita degli abitanti" (cfr. Lettere ai Governatori, A.S.P.B., dicembre 1814 carte 28 e seg.). Lo spirito antifrancese manifestato dal popolo, invece, al tempo della Repubblica Partenopea, con la conseguente caccia ai giacobini e traditori del Re, aveva l'antica ragione di libertà dagli oppressori, da quei nobili che avevano permesso l'intervento straniero nel Regno e che erano i possessori delle terre indivise. Il popolo aveva fatto la sua rivoluzione, aveva cacciato i nemici perché sperava nei sostegno del Re, ma "vedeva restaurare in nome del Re vecchi ordinamenti, vecchi privilegi a difesa di nobili e di galantuomini" e giudicava Ferdinando IV "un pulcinella". Quando Napoleone decreta la fine del Regno e insedia il fratello Giuseppe, il popolo resta indifferente davanti allo stesso straniero combattuto sanguinosamente cinque anni prima. (N. Rodolico, il popolo all'inizio del Risorgimento nell'italia Meridionale, Firenze 1925, pag. 262-63). Per Diderot e D'Alembert il popolo del tempo "è troppo bestia" e non può intendere, perciò, lo spirito di una rivoluzione. Ma la rivoluzione del '99 nel meridione dimostra il contrario; i cafoni e i lazzaroni affinano il loro valore, muoiono con le armi in pugno. Oltre ai tanti caduti in combattimento, sessantamila sono passati a fil di spada dai francesi, scovati nei loro villaggi o nei loro casolari. E gli stessi francesi s'inchinano e li chiamano eroi. I superstiti, visti i tradimenti, le incomprensioni e i continui sconvolgimenti, tentano da soli di imporre le proprie ragioni, ma sono costretti a darsi alla macchia. Questo atteggiamento di protesta non è inteso e viene etichettato con la formula più comoda di brigantaggio, per non parlare di reciproche diffidenze, incompatibilità e disprezzo. Molti storici ritengono vili, disumani e delinquenziali i comportamenti dei briganti, dimenticando che più vili, disumani e delinquenti sono gli abusi, il secolare sfruttamento, l'emarginazione sociale, lo stato di sudditanza e la facilità della eliminazione fisica a cui è stato sottoposto il popolo. La fame e la miseria non gravano più del peso psicologico, ma si sommano. Queste ragioni mantengono sempre latente il brigantaggio, che tale si manifesta "ogni qual volta le condizioni politiche del tempo lo consentissero. Le cause di tali subitanee esplosioni vanno ricercate nelle singole circostanze storiche in cui si sono verificate; ma la cronicità del fenomeno ha radici ben più profonde, tali da non poter essere spiegate, volta per volta, secondo il colore politico di cui la sollevazione si tinse, bensì vanno viste in una luce unitaria e costante. Se le cause predisponenti del brigantaggio furono molte e varie, una sola ha fatto da denominatore comune in tutti i tempi: la miseria."(cfr. G.F. de Tiberiis, Il brigantaggio meridionale e il pensiero di Carlo Capomazza; sta in: Rassegna Storica del Risorgimento, anno LIII fasc. IV, Ottobre -Dicembre 1966, pag. 600). È un male profondo e antico, dice la relazione Massari del 1863 alla Camera dei Deputati, non per identificare la miseria del meridione, ma per riportare alla storia il brigantaggio, che dalla miseria non può prescindere. La relazione del generale Govone alla Commissione Parlamentare postunitaria, incaricata di studiare le cause del brigantaggio, è molto specifica e con infiniti esempi concreti sulle condizioni delle popolazioni al tempo dell'unificazione d'Italia, condizioni comuni alla maggior pane del Sud e, in certi casi, a qualche regione del Centro-Nord. Ricercare le cause del brigantaggio postunitario solo "nella condizione sociale del paese e nel misero stato del proletariato" è troppo restrittivo o potrebbe essere una formula per liquidare la faccenda. Le precisazioni, poste nella relazione Govone, fanno intendere che ben altri sono i motivi del brigantaggio. Entriamo così nel vivo del problema. Il salario ridotto e l'eccessivo carico di lavoro non variano di tanto, rispetto ai decenni precedenti o nel confronto con gli altri stati; anzi, si può dire che, per determinate attività, il salario è più consistente. Ma sono sempre pochi coloro che guadagnano un salario decente con attività artigianali specializzate e molto richieste. Molti sopravvivono con il prodotto della terra, quando questa è sufficiente a coprire il fabbisogno, quando la stagione è clemente, quando non bisogna fare i conti con le bramosie dei nobili proprietari, quando sono disponibili attrezzi accettabili per lavorare, quando si praticano opportune strategie per migliorare la resa. Qualche sollievo è dato dall'allevamento minuto, dal bestiame, con preponderanza per le greggi. In quest'ultimo caso sono da annotare altre condizioni per un effettivo utile: gli animali sono propri o di altri proprietari, pascolano in terreno comune o privato. Gli allevatori sostengono eccessive spese per la transumanza e la cura degli animali, sono vincolati da "diritti proibitivi non concessi, ma usurpati". (F. Longano, Viaggio per lo Contado di Molise nell 'Ottobre 1786, Napoli 1788, pag.88 e seg.). Il Longano anticipa in buona parte le considerazioni del Govone, ma sa vedere meglio i mali che afliggono le popolazioni dei Sud. Agenti, ministri, governatori, appatentati, giunsdizionali: una massa di furbi che vive bene alle spalle degli ignoranti. Il Longano usa termini molto eloquenti: influenza malefica del governo feudale, oppressioni, angherie, usurpazioni, ruberie, impunità, avidità, rapacità, disonestà, intollerabile superbia, vessazioni "che gli avari ed inumani ministri baronali suscitano massime nel corpo dei contadini perpetuamente dalla fatica giornaliera e dalla scarsezza del vitto consumati. Di qui una seconda sorgente di commozioni popolari e di guerre intestine. Di qui l'avvilimento de' popoli, la loro povertà e miseria. Di qui la spopolazione e i lamenti del contado. Non molto distante è la Descrizione del contado del Molise di Giuseppe Maria Galanti, economista e analista delle minime necessità del Regno verso la fine del 1700. La sua opera è minuziosa, fotografica ed è emblematico il riferimento alla povertà del contadino che, per non pagare l'ennesima tassa al forno del padrone che ha riscosso già sulla macinatura, preferisce le "cinericie", focacce cotte sotto la cenere, al posto del sacrosanto pane. Il brigantaggio non è sorto con l'unità d'Italia, che pure l'ha accentuato, ma è preesistente, endemico, secolare. Govone si compiace di ricordare le donnette che, pur dovendo bisticciare con le sentinelle degli spalti, vanno a raccogliere erbe comuni sul castello di Gaeta per racimolare un pasto; altri vanno a rubare covoni di grano mentre il proprietario si mostra rassegnato, al cospetto dei piemontesi, per quei poveracci che altrimenti morirebbero di fame. La fame e la miseria si pongono come motivo scatenante, ma il brigantaggio vuole pareggiare i conti con la prevaricazione e l'oppressione psicologica delle coscienze, perpetuate nei secoli e che fanno male come la fame. Gli sconvolgimenti storici offrono solo l'occasione per raccogliere i nodi al pettine. Tante rivalse, altrimenti dette brigantaggio, ricorrono immancabilmente con il trapasso o il ripristino dei governi, con le guerre di annessione o di successione, con le guerre dette di indipendenza. I tipi di tassazione utilizzati nel Regno di Napoli, cioè a gabella, a catasto, a testatico o gli stessi in forma composta, sono tali da dover vedere quasi esclusivamente il contadino proprietario e il bracciante, come riconosce lo stesso Longano (op. cit., pag.78 e seg.). A gabella il povero paga tre volte più del ricco. A catasto è il proprietario del poco a pagare; non pagano i baroni per i loro beni burgensatici, non pagano i governanti, i capipopolo, i privilegiati, i ricchi e gli ecclesiastici perché temuti, rispettati dai gestori delle tassazioni e da coloro che fanno le rivele. Anzi, quelli che non pagano sono occupati quotidianamente a "saccheggiare le Università". Il testatico potrebbe essere l'unico metodo equo, ma i ricchi hanno sempre qualche via per evadere anche questo tipo di tassazione. Per i bisognosi esistono i monti di pietà, inventati per tacitare le coscienze ma funzionano e assolvono al loro compito finché gli amministratori e gli economi non li saccheggiano. Ancora il Longano (op. cit., pag. 85) ci ricorda che quanto detto è "la prima sorgente delle tante guerre intestine in ogni Università, in cui perpetuamente combattono i gentiluomini, ed i ricchi da una parte, e dall'altra i poveri ed afflitti contadini." Il contadino oppresso, che pur volesse rifarsi di un torto subito, ha da scontrarsi con i tribunali che, oltre a favorire per somigliante natura i nobili e i benestanti, richiedono spese enormi per la loro lentezza e servono per arricchire avvocati e procuratori. Le ingiustizie ingenerano nel popolo minuto diffidenza verso il barone che tutto può e niente offre, verso l'amministrazione e i pubblici funzionari che sanno solo prendere, verso ogni tipo di governante che è lontano, transitorio e amico dei nobili, verso gli ecclesiastici che fanno merce dello stesso nome di Dio e aspirano a equipararsi socialmente con nobili e ricchi. Alla diffidenza si aggiunge l'odio, quando un normale cittadino è costretto a difendersi dalle usurpazioni dei nobili, dalle prevaricazioni di quanti possono permettersele, dalle ingiustizie dello stato e dei suoi amministratori. Poiché ognuno, volente o nolente, deve confrontarsi con queste realtà almeno una volta nella vita, ne consegue che l'odio è in perenne recupero sulla diffidenza; le occasioni per manifestarlo, in epoche di sconvolgimenti, sono tante e nessuno rinuncia a farsele scappare. L'estorsione e l'usura sono spontaneo territorio degli iniqui e il cittadino meridionale subisce da secoli le imposizioni di quanti hanno disponibilità; sono gli stessi che spesso controllano il potere, sanno organizzare le cose in modo che il popolo abbia sempre bisogno di aiuto. Il contadino, già ridotto in miseria dalle tasse e dalle malvagità dei baroni, è costretto dal bisogno a dover chiedere proprio agli odiati nemici. Scatta la trappola mortale e il poveretto diventa schiavo, assoggettato, obbligato a dover concedere tutto, anche la moglie e le figlie, dopo aver perso il poco posseduto. Il servizio di leva è una continua richiesta dello stato. Il ricco sa come liberarsene; molte volte paga o impone e il povero va in guerra al posto suo. In questo è favorito da impiegati corrotti che, giocando con la disorganizzazione dello stato civile e con l'omertà del povero, timoroso delle loro ritorsioni, riescono a farsi pagare da chi non va alla leva e da quelli che partono. Quando c'è stato di necessità da parte dei governi è sempre il meno abbiente che offre tutto ciò che ha; ma quando il governo rimborsa è sempre il signorotto che incassa per primo. (Govone, op. cit., pag. 361 e seg.). Ottenere la servitù di gente così bisognosa è cosa facile e ogni nobile, ricco, comandante o amministratore può abusarne a piene mani. I pochi onesti riescono a dare una parvenza di retribuzione, gli altri impongono e minacciano. "Se quindi oltre alla fame il proletario non trova schermo contro la prepotenza, nulla è a maravigliare che si rivolti contro la società e le dichiari guerra, per cercare nella propria forza quell'equità che gli è negata." (Govone, op. cit., pag. 362). Durante il periodo bonapartista e murattiano si notano le attività e le opere di pubblico interesse, le disposizioni in difesa della proprietà agricola e contro gli abusi o le frodi. Ma il popolo non riesce a rendersi conto in tempo delle novità, così i nobili possono essere di spirito antifrancese manovrando la diffidenza del popolo verso le novità, liberandosi con sotterfugi e raccomandazioni dei governatori impegnati nelle migliorie che danneggiano i ricchi proprietari. Gli episodi di brigantaggio di questo periodo sono sostenuti dai nobili e dai ricchi che, giocando sulla diffidenza e con la scusa della causa borbonica, riescono a far breccia negli sbandati del vecchio esercito. Questo accade ancorpiù nell'area beneventana, in bilico tra S. Sede, ex Regno di Napoli e governo murattiano (A. Zazo, L'occupazione napoletana e austriaca e i primordi della restaurazione in Benevento - 1814/1816, Napoli 1958). Nel 1815 la gente è insubordinata e, ben sollecitata, pensa solo alla rapina, anche se il contadino può beneficiare di ampie concessioni enfìteutiche nel momento in cui il governo murattiano ha voluto l'acquisizione di molte terre alla comunità. L'abolizione della feudalità rivela la caparbietà dei nobili a non voler mollare le terre usurpate e in tutto il Regno è un fiorire di cause, controversie, reclami, raccomandazioni e sollecitazioni. Le inchieste murattiane, operate nei vari circondari, presentano un quadro molto chiaro dello stato delle popolazioni. Giungono proposte concrete di riorganizzazione dello stato da parte di ottimi statisti (G. Zurlo, Luca De Samuele Cagnazzi, Winspeare, il duca di Montejasi, ecc.). Ma la fine di Murat e l'opprimente restaurazione dei sovrani precedenti elimina ogni speranza. La vecchia nobiltà riacquista forza, le abolizioni volute da Murat e dalla rivoluzione francese prendono forme possibiliste, finché gli stessi sovrani borbonici non si accorgono della necessità di rendere operative le leggi e l'organizzazione programmate dai lungimiranti ministri murattiani. Dopo il 1830 si pubblica a Napoli, per i tipi di Angelo Trani, il Bullettino e Supplimento al. Builettino della Commissione Feudale. Del n. 11 anno 1840 - a continuazione della soluzione dei dubbi sorti nell'esecuzione delle decisioni della Commissione, prima e dopo del Real Decreto 3 Luglio 1810, forniamo qualche annotazione. Le proprietà feudali passate al demanio e le terre ecclesiastiche sono la grande speranza del popolo in tutto il Regno. I baroni e la Chiesa tengono strette con le unghie e coi denti tutte le loro vecchie proprietà dichiarate demaniali. Dappertutto si assiste a forme di protesta, petizioni inviate al Re, procedimenti legali sostenuti per anni. Le liti con la Commissione Feudale diventano argomento di discussione infinita e chiarificazioni continue. Qualche barone tenta di far dichiarare l'incompetenza della Commissione a giudicare su alcuni feudi. Altri trovano più comodo dichiarare di non essere più feudatari delle terre contestate, ma di essere grossi creditori dei comuni interessati e, per riavere le terre in forma legale, dichiarano crediti superiori al valore delle stesse. Nel 1809 il vasto feudo di Valviano, usurpato 200 anni prima dai barone di Cellino (Teramo), entra in contestazione. Il barone gioca la carta del credito contro l'Università comunale e chiede in cambio l'ex feudo. La Commissione dimostra "finti, alterati e illegali" i crediti costruiti sull'usurpazione e respinge le testimonianze addotte da vassalli e amici del barone. Qualche tribunale diventa complice dei vecchi padroni, tanto che Zurlo si preoccupa nel 1810 di "mettere sotto gli occhi del Re... la condotta biasimevole e criminosa del Presidente del Tribunale di prima istanza", competente per il comune di Cerchiara che è in controversia con il duca di Monteleone (Cosenza) per la definizione di vari confini. Un tribunale dà ragione al duca nel 1808, nonostante l'uccisione di alcuni cittadini, coinvolti e testimoni, da parte di presunti briganti. Le proteste giunte alla Commissione e l'intervento di Zurlo, due anni dopo, riportano i confini alla stato reale. In ogni caso il duca riesce a mantenere la proprietà dei mulini e gualchiere (valchiere) dei suoi ex feudi e di altri dichiarando di averli dal 1494, nonostante venisse verificata impossibile questa proprietà. Non c'è da meravigliarsi se qualche feudatario riscuote ancora (Castrovillari 1811) canoni su suoli che sono diventati piazze del paese o case di cittadini. La Commissione deve abolire le decime che qualcuno tenta di esigere su terreni che erano stati dati in affitto ai contadini dalla curia vescovile (Ugento 1810). Spesso il contadino ha sulle terre solo il diritto di pascolo, che spesso gli ex padroni esibiscono strumenti di ricognizione alterati, evitando quelli di primitiva concessione; ciò per continuare a riscuotere i censi sui terreni dichiarati ex feudali (Cirella 1812). Quando non possono vincere contro la Commissione, i grossi proprietari di tutto il Regno, quasi per un comune accordo, richiedono pagamenti per presunte costruzioni di casini e pagliai di fabbrica o per migliorie apportate ai terreni passati alle amministrazioni comunali. L'esempio più evidente è Castelvolturno che nel 1813 deve derimere molte controversie simili, prima di assegnare le terre della bonifica ai contadini. Ma, per vedersi assegnare le terre, il contadino deve dimostrare di saperle lavorare o di essere piccolo possidente. Ogni porzione non è mai inferiore a 4 tomoli o a un moggio e mezzo pro capite; la concessione è condizionata dal giudizio positivo del sindaco e del curato, che indicano l'effettiva composizione del nucleo familiare. Proprio a Castelvolturno viene avviata, sulla spinta del Procuratore Generale Winspeare, che ne è relatore al Consiglio di Stato, la bonifica delle paludi provocate dalle inondazioni del fiume Volturno. Nel 1813 si attua la ripartizione delle terre bonificate nei comuni di Castelvolturno e Mondragone. Le concessioni sono date, di preferenza, ai confinanti che hanno compartecipato, materialmente o secondo le loro quote di utilità e in forma rateizzata, alla costruzione di strade, ponti e canali. Il comune cura le concessioni, distribuisce le altre quote secondo le modalità previste e assegna il rimanente ai poveri, agli orfani e agli handicappati. Per queste ultime due categorie vengono individuati anche i tutori. Le scelte del Winspeare sono da considerare all'avanguardia per il tempo, né sono accettate con entusiasmo da chi vuole, come di solito, mettere le mani su tutto; così iniziano le petizioni, le richieste con motivazioni di pura invenzione, cavilli e azioni legali, abusi, minacce e usurpazioni celate agli assegnatari che il Winspeare riesce ad arginare con l'intervento diretto o tramite i suoi delegati. Le controversie si protraggono anch'esse oltre il regno di Murat. I pascoli di Castelvolturno, prossimi alle bonifiche, sono "caduti nelle mani di maspoderosi industrianti di animali dei paesi convicini sostenuti dal marchese Pescopagano che fa parte della combriccola, ma con altro titolo, fin dal 1810. Fatta la bonifica, ognuno vanta diritti sulle terre di Capua, Castelvolturno e Mondragone. Gli ex feudatari, confinanti con le zone soggette a bonifica (circa 10.000 moggia), pretendono subito gli affitti per gli appoggi e i passaggi sui loro terreni, o concessioni sulle divisioni. Nel 1811 un decreto chiude ogni pretesa e libera molte terre, abusivamente usurpate agli ignari piccoli proprietari, dalle mani degli industrianti del marchese De Andreis e della Mensa di Aversa. Alcuni vogliono dimostrare di possedere considerevoli quantità di parchi, coltivazioni e costruzioni, persi durante le secolari inondazioni. Una verifica sulle proprietà rettifica in media solo un terzo di quanto dichiarato che, in buona parte, è già usato e dato in fitto agli stessi contadini che avevano patito l'usurpazione. Vista la mala parata, qualcuno si affretta a chiedere la restituzione di tutte le tasse fondiarie pagate, altri preferiscono il cavillo legale per perpetuare il collaudato abuso di riscuotere dai contadini, in attesa della definizione. Quando l'architetto Barletta, nel marzo 1813, procede all'attuazione dell'ordinanza sulla bonifica, deve dichiarare di non essere in grado di eseguirla per gli eccessivi problemi creati dai pretendenti. Tra l'altro, non riesce a trovare le pietre adatte e necessarie per delimitare i confini. Solo a maggio può predisporre una mappa e a giugno si pubblica il decreto di bonifica con lo schema degli interventi. Poco più di un anno dopo, la caduta di Murat rimescola ancora le carte. Il Borbone, nel 1840, trova necessario ripubblicare quanto è stato deciso prima della restaurazione. Per comprendere un po' meglio le condizioni di vita del popolo minuto basta riferirsi, in forma sommaria, anche all'opera di Ulisse De Salis Marschlins, Nei Regno di Napoli. Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Trani 1906. Rispolverando forme d'uso simili alla mezzadria, valide ancora qualche decennio fa nelle zone interne del Sud, ricordiamo col Marschlins che il contadino del 1789 non ha, quasi sempre, terre da lavorare e le prende in affitto per quattro anni da chi le ha, pagando metà della rendita; ma paga anche l'imposta sui terreni non suoi se sono ritenuti fertili, altrimenti è pagata dai proprietari. Ma, chi stabilisce la bontà o meno dei terreni? Il proprietario prende tutti i frutti degli alberi e quasi tutto ciò che cresce sopra il terreno; il contadino, che è obbligato a lavorare, concimare e seguire le direttive di coltivazione imposte dal proprietario, ha il vantaggio di poter acquistare il terreno in caso di vendita. Non sappiamo con quali soldi, se le sue rendite sono così risicate. Poiché le piantagioni sono avviate e portate sempre più a miglioria dai fittuari, è assurdo pensare che il proprietario possa vendere loro il terreno avendone ottima resa. Né sente alcun vincolo verso un fittuario che può cambiare ogni 4 anni con la più banale scusa, ben sapendo che la sua parola è legge. Se il proprietario è il barone, costui ha giurisdizione criminale, controlla i processi e ha finanche diritto di condanna a morte. Il primo appello di un accusato o di un ricorrente è al tribunale della signoria, i cui giudici sono nominati dal barone. Un altro appello locale è concesso ancora presso un qualsiasi giudice, che è sempre nominato dal barone. C'è il tribunale della provincia, già molto dispendioso; c'è il Vicariato di Napoli e, infine, il Reale Consiglio di Stato con spese proibitive anche per un possidente. Oltre alle decime e affitti su case e terreni, il padrone controlla forni, mulini, trappeti, alberghi, macellerie, fontane e da tutto ricava tasse direttamente o tramite un gestore che si preoccuperà, a sua volta, di arricchirsi. Il barone fa pagare il pedaggio sulle strade, grande angustia di tutti i viaggiatori stranieri del passato, che le definiscono concordemente "le peggiori del mondo"; fa pagare il passaggio sui ponti, riscuote diritti sui porti e sulla pesca. Ultima riscossione, perché mai ammessa come prima, è il cuneatico o jus primae noctis: il diritto di possedere per primo la sposa che va a nozze. Il barone può accontentarsi di una somma per non esercitare il diritto, ma tiene in debito conto l'avvenenza e la grazia della sposa per accettare o rifiutare il danaro. Come si è detto, i baroni non pagano tasse, ma hanno degli obblighi: meglio sanno servire la Corona, migliori terre si fanno assegnare. Le peggiori proprietà della Corona sono amministrate da nobili decaduti che, pur di guadagnare, sfruttano gli amministrati e depredano chiunque alleandosi con i banditi o organizzando bande di briganti. "Se il barone è di indole crudele e prepotente, o se il suo amministratore è un servo cattivo e infedele, le condizioni dei poveri vassalli e dei comuni istessi, diventano addirittura insopportabili". L'unica soluzione, in questi casi non rari, è di abbandonare la baronia per terre più ospitali (op. cit, pp.127-131). Ma il De Salis, feudatario egli stesso di Marschlins, è "geloso dei privilegi e prerogative del proprio ceto", fa finta di non vedere la realtà dei rapporti tra baroni e vassalli, così come annota Tommaso Pedio nell'introduzione al testo dei Viaggi (p. XLIII). Il De Salis non ammette, tra l'altro, che la S. Sede possegga in pieno Regno il territorio di Benevento, definito covo di contrabbandieri, asilo per criminali di ogni specie. Descrive, comunque, in forma abbastanza fedele, la vita sociale, esemplificando spesso lo stato di povertà della gente. Ci informa che anche la pastorizia non è una vita piacevole per i disagi, per le continue tasse e per i pedaggi salati. Le pecore non sono prevalentemente del pastore, ma dei ricchi e dei nobili che gliele hanno affidate con contratti mai vantaggiosi. Alla Dogana di Foggia è guerra per avere in assegnazione le terre da pascolo, visto che i ricchi proprietari delle Puglie e di Foggia riescono ad accaparrarsi il meglio a prezzi bassissimi per poi rivendere ai pastori forestieri ad alto prezzo. L'inverno da trascorrere in Puglia dura 4-5 mesi e il pastore è costretto a tirarsi dietro tutta la famiglia, compresi i figli più piccoli che vengono impegnati in qualche modo. Se l'inverno è molto rigido, non muoiono solo le pecore, ma anche i più deboli; anche se è meno rigido, il terreno avuto in fitto, pur se sfruttato al massimo, non produce il sostentamento necessario. Nè si può prendere troppo dalle pecore avute in consegna; esse devono star bene perché i proprietari non sentono ragioni. Così si produce uno sfruttamento continuo e incontrollato del Tavoliere che, ridotto a miserevoli condizioni, offre una resa sempre più scarsa (op. cit., pp.146-147). La descrizione del De Salis concorda, in buona parte, con quella del Longano, del Galanti e con le annotazioni del Govone, scritte 80 anni dopo. Ciò dimostra che la rivoluzione francese, gli sconvolgimenti politici del primo '800 e la rivoluzione del '48, "primavera dei popoli", non hanno creato modifiche sostanziali all'evoluzione dell'organizzazione sociale nel Sud. Il popolo, se sente dire degli avvenimenti italiani ed europei, non sa comprendere questi fatti lontani; poche persone sanno leggere e sono quelle che comandano. La fioritura eccezionale della stampa periodica, illustrata, caricaturale, a commento dei movimenti europei e come contributo alla formazione dei differenti stati nazionali, non raggiunge i popoli del Sud; perché chi legge e conosce i cambiamenti si guarda bene dal renderne partecipe la popolazione. La diffusione di massa delle immagini è veicolo degli eventi politici, della propaganda rivoluzionaria, delle attualità, delle utopie, delle simbologie, ma il popolo minuto riesce a visualizzarne solo una millesima parte. L'unico rivoluzionario è il brigante, pur nella sua veste di disertore, sbandato, perseguitato; egli è profittatore principalmente delle novità, perché costretto a spostarsi e a conoscere quanto avviene intorno a sé; tenta di utilizzare gli eventi a proprio vantaggio, legge o si fa leggere quanto gli capita tra le mani, ha continui contatti con "gente di rango", ha i manutengoli informatori, ha sovvenzioni e indicazioni da personaggi speciali. Govone ci ricorda (op. cit., pp. 362 e seg.) che il brigantaggio non nasce con le rivoluzioni politiche del momento, né per l'attaccamento a una dinastia, ma è preparato "dalle lunghe sofferenze materiali e morali del proletariato"; perciò le bande dei briganti sono formate essenzialmente da gente proletaria. Evasi, assassini e perturbatori vi si aggregano per opportunità, per sopravvivenza e offrono a qualche storico di parte l'occasione per demonizzare il brigantaggio come espressione di gente vile, malvagia per naturale tendenza lombrosiana, abbrutita dall'abituale rapina. Qualche possidente capita tra loro per caso: ha bisogno di vendetta, vuole liberarsi di un persecutore, tenta di recuperare quanto gli è stato estorto "legalmente". I nobili e ricchi non vi capitano mai, perché hanno i soldi per pagarsi i capricci e i servizi speciali di qualche brigante; perché sono essi la cacciagione preferita dei briganti. Quando una banda riesce a prendere un villaggio, i primi a farne le spese sono i comandanti militari per ragioni strategiche, i sindaci o amministratori dispotici per gli abusi commessi con la loro autorità, i giudici per qualche condanna o per giudizi manovrati, i possidenti considerati nemici sfruttatori. A proposito di giustizia, lo stesso Govone racconta l'episodio delle due donne, arrestate dai carabinieri dietro regolare mandato di cattura emesso dal giudice perché "si rifiutavano di entrare al suo servizio". Siamo oltre il 1860, perciò è facile immaginare cosa potesse accadere in precedenza. Dopo tanti esempi di soprusi, Govone pensa a una ulteriore ragione del popolo: la vendetta sociale. Il brigantaggio mira effettivamente alla rivoluzione sociale per ottenere vendetta su chi ha precedentemente abusato della propria posizione sociale per dominare e dissanguare il popolo. Il brigantaggio postunitario ha la stessa spinta sociale, ma va a cozzare, in ogni paese, con gli interessi delle nuove famiglie che vogliono trarre vantaggio dal cambiamento, compiere le loro vendette e subentrare nei posti di comando; si ritrova in rotta, perciò, sia con queste che con le famiglie dominanti in precedenza, per le ragioni dette finora. Il Govone cita un passo del Machiavelli: "E l'ordine della cosa è che subito che un forastiero potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa non potenti gli aderiscono, mossi da un'invidia che hanno contro chi è stato potente sopra di loro' . Il popolo e il brigante non sanno percorrere questa strada, mancano di sufficiente cattiveria per inserirsi nel disegno del ricambio sociale. Nel momento in cui il disegno è giunto a compimento per chi è stato più furbo, il popolo rimane nell'errore e sta a guardare, mentre il brigantaggio diventa la piaga da sanare. Purtroppo il conto viene chiuso con un bagno di sangue che, vedi il ricorrere degli eventi storici, è sangue di quelli che meritano giustizia. Govone si rivolge alla Commissione Parlamentare e chiede, infine, di far "palese come i tribunali non sieno una guarentigia per la morale pubblica ed una tutta del povero contro il ricco", dopo aver enumerato con esempi la cattiva amministrazione politica, comunale e giudiziaria. "Come cammina l'amministrazione della giustizia nelle provincie napoletane, essa riesce talora più causa d'immoralità e di confusione fra le nozioni dell'onesto e del disonesto e di oppressione, anziché una salutare repressione al male operare ed una tutela." Un duro colpo infligge all'impotenza dell'amministrazione civile (op. cit., pag. 375) e consiglia di "riedificare la macchina governativa.. senza badare a destra o a sinistra...". L'argomento è molto scottante e tragicamente attuale. Dopo 135 anni le parole di Govone potrebbero essere ancora valide, non solo per il Meridione, ma quasi per l'intera Italia. Dopo gli stessi anni giova ricordare, per opportuna memoria, che tutta la documentazione sul brigantaggio postunitario giace nell'archivio dello Stato Maggiore dell'Esercito a Roma, preclusa alla quasi totalità degli italiani, nonostante esplicite richieste e interrogazioni parlamentari, l'ultima delle quali è nata sulla spinta di un'associazione culturale sannita verso la fine degli anni 80. In queste note si è inteso dare un cenno agli abusi commessi dalla nobiltà e dai potenti dell'Italia Meridionale nei confronti del popolo. Ciò per chiarire, qualora non fossero state tenute in debito conto le annotazioni dei tanti trattatisti, che il brigantaggio meridionale non fu un movimento di gente ignorante che pensava solo alla rapina e alla grassazione in determinate epoche della nostra storia. Le motivazioni furono, è vero, meno politiche di quanto si vuoi dire, ma furono condizionate dalla politica altalenante dei tempi. Le vere ragioni e le cause più remote del brigantaggio sono da ricercare nelle condizioni disumane di vita a cui fu costretto il popolo; non per fatti esterni, ma per il modo in cui fu obbligato a vivere da coloro che comandarono e governarono. La politica, le guerre e le rivoluzioni furono solo l'occasione per manifestare apertamente l'astio covato nei secoli, per i soprusi operati da chi pensò solo al proprio comodo, al proprio potere e ad accumulare ricchezze a scapito degli ignoranti, volutamente lasciati nell'ignoranza. Nel nostro breve discorso è stato adottato il verbo al presente non per un'azione più immediata, piuttosto perché la vita odierna, pur nelle sue diversità di tempi ed evoluzioni, non sembra avere grosse differenze con il passato. Vivere nel Sud oggi non è tanto dissimile dal modo in cui viveva il popolino prima dell'unità d'Italia. C'è un'aggravante rispetto ad allora: oggi il popolo non ha fame quasi mai, non è più ignorante perché ha studiato, studia e comprende meglio gli abusi a cui deve sottostare. Le leggi dello Stato italiano sono le più farraginose del mondo, dopo che Roma ha dato al mondo la base di tutte le leggi esistenti. Le attuali favoriscono più il delinquente che l'onesto cittadino e non hanno la capacità di scardinare le organizzazioni criminali che, per i loro fini, sanno manovrare le leggi, i legislatori e lo Stato stesso. I galantuomini del passato non sono tanto dissimili dai "galantuomini" di oggi. Se si visita, poi, qualche paese del Sud, non è raro ritrovare il signorotto che tiranneggia, usureggia e maneggia per consolidare sempre più il proprio potere e le proprie ricchezze, danneggiando il povero contribuente e lo Stato, due involontari consenzienti ma per opposte ragioni. Se manca il signorotto, c'è il guappo o il mafioso di turno, ma le metodologie non cambiano. Il popolo continua a sopportare in silenzio, né può sperare nella giustizia che, a volte, perseguita chi tenta, con poche prove, di denunciare l'illegalità. Certo è che il brigantaggio, oggi, sarebbe anacronistico, ma potrebbe interessare uno studio sulle forme di protesta che il cittadino mette in atto per difendersi o per richiedere diritti e che, regolarmente, gli si rivoltano contro.

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