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UNO STATO PROSPERO E AUTONOMO MESSO IN GINOCCHIO

da "Il SUD Quotidiano" del 17/1/98

di Gaetano Fiorentino

Nella lettera del 18 luglio 1861, la prima delle due indirizzate al politico britannico Disraeli, Pietro Ulloa tratta delle finanze del Regno delle Due Sicilie e della dissipazione attuata dai conquistatori piemontesi. Ulloa si sofferma anche sul sistema tributario attuato dai Borbone, volto a "non gravare i popoli di nuovi balzelli e ad alleggerire per quanto possibile le antiche imposte". Con la restaurazione furono abolite le nuove tasse imposte dai francesi nel decennio, che comunque fruttavano all’erario 9.951.692 franchi l’anno. Pur con le note vicende del 1820/21 e del 1848/49 e le spese impreviste dovute ai moti di quegli anni, la rendita pubblica era salita dai 64 milioni del 1815 ai 128 milioni degli ultimi anni del Regno, segno inconfutabile della prosperità nazionale. La stessa produzione agricola ed industriale era aumentata, tanto che "tutti i generi di commercio erano divenuti più facili da reperire, potendosi fra l’altro valutare nel 50% l’aumento della produzione di cereali dopo il 1815". Nel periodo 1848/49 il disavanzo, dovuto alla rivoluzione, fu di 62915288 franchi, senza contare le perdite di materiale bellico dello stesso periodo. Tale deficit fu comunque ripianato senza ricorrere a nuove tasse, anche se gli interessi del debito pubblico aumentarono di 5 milioni di franchi. Nello stesso periodo il Piemonte aveva accresciuto il suo debito pubblico di ben 58611470 franchi. Dopo il 1849 la situazione finanziaria migliorò ancora, con un notevole incremento delle entrate, senza variare la pressione fiscale. I titoli di rendita napoletani erano i più ricercati d’Europa, altamente apprezzati sulle piazze finanziarie del continente. L’equilibrio delle finanze era dovuto al costante sviluppo delle forze produttive ed alla considerevole ricchezza del paese. Sappiamo infatti che sempre più numerosi erano gli investitori stranieri che si trasferivano nel Regno, grazie alle favorevoli condizioni loro offerte dal governo, contribuendo così alla creazione di nuove industrie e nuovi posti di lavoro. La riscossione delle imposte avveniva con regolarità ed equilibrio, "avendosi tutti i riguardi per i contribuenti". All’avvento di Francesco II la situazione finanziaria del paese era ancora relativamente prospera. Le spese militari del 1859 avevano compromesso in parte l’equilibrio, il congedo dei reparti svizzeri dopo la rivolta dell’8 luglio costò quasi 4 milioni di franchi, chiudendo comunque l’esercizio "in perfetto equilibrio". L’invasione garibaldina mandò a rotoli i piani del governo e le previsioni di cassa con gravi spese non previste. La banca Rothschild fu allora incaricata di "vendere i vaglia di rendita", che le venivano rimessi secondo le necessità, al 5%. "La rendita napoletana era stata al 115, quando quella del Piemonte non arrivava all’85, e nelle occasioni in cui il governo napoletano aveva avuto il bisogno di ricorrere ai prestiti, gli si erano offerti al prezzo di 90, mentre il Piemonte non li otteneva che all’80". Pur con le difficoltà del momento, il corso della borsa si manteneva tra 108 e 113, al 4,5%, e la Banca Rothschild non prendeva che i 7/8 sulle operazioni di vendita. Il 6 settembre 1860, quasi tutte le risorse disponibili erano ancora intatte, per un valore di 29.749.256 franchi, pertanto Garibaldi trovò il tesoro di stato integro e perfettamente in grado di provvedere ai bisogni del paese e della guerra. Quasi subito però i conquistatori si lagnarono per la mancanza di fondi, imputabile "ad un prodigio di dilapidazione e corruzione; si cominciò con l’impadronirsi delle residenze reali, svuotandole di ogni oggetto senza redigere alcun inventario". Si mormorava che Silvio Spaventa, direttore di polizia di Garibaldi, avesse fatto fondere 600 paia di preziosissimi candelieri d’argento per appropriarsi del metallo. Sparirono in breve migliaia di dipinti di valore, orologi preziosi, rari oggetti di pregio, e saccheggiata la stupenda armeria Reale, da dove sparì anche la famosa e preziosa spada che Francesco I Re di Francia impugnava a Pavia nella battaglia contro le truppe di Carlo V. "Si assegnarono 6.000 franchi al giorno per le spese della tavola del dittatore, che invero viveva con moltissima sobrietà. Ma i suoi vice, i segretari, gli aiutanti di campo erano abbagliati dalla possibilità di arraffare ogni ben di Dio". "Per decreto dittatoriale ci si impadronì dei fondi pubblici appartenenti alla famiglia Reale, sotto pretesto che ritornavano allo stato, fondi che la legge fondamentale del diritto pubblico considerava sacri". "La rivoluzione perfino, che nulla rispetta, li aveva sempre e dappertutto rispettati". Questi fondi appartenevano personalmente al Re, come dote di sua madre (una Savoia!), e formavano anche la dote delle principesse reali, il tutto valutabile ad oltre 40 milioni di franchi, "ma non se ne confessarono che 24, adducendo la menzogna di dover essere distribuiti ai patrioti che avevano sofferto per causa della libertà". Al tempo stesso si sequestrarono i maggioraschi dei Principi, i beni dell’Ordine Costantiniano e della Chiesa, "sempre in nome della libertà". Bisogni ed avidità aumentavano di giorno in giorno, perciò si soppressero i fondi dei ministeri, si alzò l’interesse della Cassa di sconto dal 5 al 6% anche per i vaglia di rendita e per il deposito di preziosi alla Banca, mentre per il caos venutosi a creare a causa della guerra e guerriglia nelle Province le imposte fondiarie e quelle di registro non poterono essere riscosse. "Molti milioni di rendita si vendettero così clandestinamente, ma non valsero a riempire la voragine, anzi, un mese dopo l’arrivo del dittatore, non si sapeva più come far denaro". La rendita pubblica, che sotto i Borbone era giunta anche a toccare 118, precipitò a 65, segno tangibile della mancanza di fiducia negli avventurieri sbarcati a Marsala. Garibaldi incaricò allora una commissione di raccogliere sussidi per Roma e Venezia, in previsione di un proseguimento della guerra contro lo Stato Pontificio e l’Austria, ma la contribuzione ebbe scarsissimo successo. Un garibaldino raccontò anzi "che le poche somme raccolte vennero portate sopra una nave che, sparita nel giorno appresso", s’ignora dove abbia poi sbarcato il malloppo, e a chi abbia consegnato quel denaro!

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