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PESCO SANNITA

MEMORIALE ORLANDO

da: "La reazione borbonica in provincia di Benevento" di Mario D'Agostino, Fratelli Conte Editori, Napoli 1987

In questo documento inedito, sul cui sfondo rivivono personaggi e vicende della reazione borbonica dell'agosto 1861, viene raccontata la storia della fucilazione di Luigi Orlando, ex capo urbano di Pescolamazza [oggi Pesco Sannita]. La prima parte del manoscritto è la minuta di una lettera del figlio prete don Giandonato, mentre la seconda, scritta in terza persona, è opera di sua sorella Anna Elena.

Anno 1861

Dilettissimo Amico.

Se le sventure non giovassero ad altro, che a farci discernere i veri dai falsi amici, pur gioverebbero a qualche cosa.

Molti in tempo felice mostravan di amarmi, ed or che la fortuna mi ha sommerso in un mar così aspro d'affanni, or mi voltano ingratarnente le spalle, e se m'incontrano abbassan gli occhi. Così è vero quel detto antico di Ovidio! Ma non è poi tanto vero, che tutti propriamente gli amici ci discanoscono quando la fortuna ci getta a fondo, talchè non ve ne resti qualcun sincero. Ed oh! sii tu benedetto, che sei quell'uno, dacchè tu solamente fra cotanto e si doloroso abbandono mi mantenesti salda la fede, né trepidasti, né ti vergognasti di mostrarti amico ad uno colpito dalla sventura.

Tu chiedi un esatto racconto di quel fatto orrendo... Eccotelo esattissimo, e questa mano medesima che assolvette il mio Padre già ligato ad un legno per subirvi una morte così ineffabilmente spietata, questa mano medesima tel descrive.

Ahi! trema l'animo mio e rifugge dalla straziante memoria di quei crudeli momenti... ma pur mescolando parole e lagrime

ti spiegherò innanzi quella scena atroce di sangue dacché tu vuoi meco tutto dividere il dolor mio siccome dividemmo le gioie de giorni lieti.

Nel dì sette Agosto celebrandosi a Pago la festa di S. Donato, gli sbandati di colà si radunarono con alquanti altri de vicini paesi là convenuti o per la solennità o per loro segreto convegno e al grido di: Viva Francesco II levarono il popolo a tumulto.

Tolser le armi di mano alle Guardie nazionali, ruppero e calpestaron lo stemma ed i quadri di Re Vittorio e di Garibaldi collocando in loro luogo quei di Francesco e Maria Sofia; bruciarono la bandiera tricolorata ed inalberaron la bianca, e minacciarono alcuni del paese (stimati avversi all'opinion loro). Le nuove del fatto ben tosto venner diffuse nei circostanti paesi, massime da quelli che, venuti la mattina in Pago alla festa, tornavan la sera alle terre loro; e qualcuno di questi entrando [a] Pesco venia gridando per la piazza: Evviva Francesco II. Altre nuove già si sapevano di men vicini paesi, specialmente di S. Marco; che trecento borbonici erano entrati nell'abitato, rimanendone altri più molti sull'adiacente montagna sicchè i liberali eran fuggiti per gran paura. Gli entrati vi avean proclamato il governo borbonico, avean messo a sacco e ad incendio alquante case e tutto ciò senza che neppure un soldato piemontese si fosse mosso, ad onta, che il sindaco di colà ne avesse fatte ripetute domande al Governatore della Provincia, fin da quando al pericolo poteva apprestarsi rimedio, come pure avean fatto più sindaci del nostro Mandamento; ma tutto invano. Però la nostra guardia nazionale erasi sciolta per timor dei borbonici che, dicevasi, fra pochi giorni sarebber venuti a Pesco; e alcuni Galantuomini si erano ricoverati a Benevento quasi in luogo sicuro.

Laonde a quelle grida della sera nessun si oppose; anzi il popolo cominciò a sentirsi superiore persuadendosi veramente come dicevano i borbonici che al Governo sabaudo mancasse ogni forza da sostenersi. La seguente mattina il sig. Giudice Giuseppe Calandra, cui nessuno avea fatto male o minaccia, esce sulla sua loggia che guarda la piazza e ad una accolta di gente, che vi era comincia a declamare contro i Galantuomini del paese. Dicendo esser tutti carbonari ed oppressori che tiranneggiavano il popolo, lui esser pronto a metter non una ma dieci bandiere per Francesco II. C'è nel territorio del paese un feudo di casa Policastro dato in enfiteusi al Comune, e diviso in quote ai coloni che pagano in grano il loro censo e dal denaro che sen ricava, si paga al Duca. Questo grano avean già portato in casa dell'amministratore del Duca istesso ed era tuttavia nei sacchi nel suo cortile. Però il Giudice dicea seguitando non esser vero, che il danaro del grano si mandava al Duca ma che se lo dividean tra loro quei ladri dei Galantuomini; che li uccidessero tutti quanti ed anche i guardiani del feudo che avean mano a questa ruberia. Uno di questi guardiani che, stando in casa sua vicina a quella del giudice, udì tali cose sul conto suo non si tenne che non rispondesse e tra essi due fu un contrasto.

Tutto questo fu udito non solo dal vicinato e dalla gente che prima era in piazza, ma da altra ancora che alle grida era accorsa. Nessuno di mia famiglia ebbe parte in questo fatto, né per allora il sapemmo, né quella mattina vedemmo il Giudice. Or bada bene. Dopo quel che ho narrato, ci mandò in casa nostra a chieder la sella per mezzo del Carceriere Saverio de Nigris, facendoci dire che volea recarsi a Benevento. Gliela mandammo, ma poco dopo la rimandò perché, ci fece dire, non avea trovato cavalcatura, e andrebbe a piedi. Così fece, e pervenuto a Benevento, tutto affannato e polveroso dal cammino, si recò dal sig.r Governatore, e mentendo l'aspetto di chi a fatica è scampato da gran pericolo, dice esser lui allora arrivato da Pesco, cacciatone dall'ex-capourbano D. Luigi Orlando. Che questi la mattina era andato da lui nella sua stanza, gli avea intimato o di mettere il servizio sotto il governo di Francesco, o di uscir dal paese; che gli avea detto il governo di Re Vittorio esser già caduto, e tante altre simiglianti parole. Che avea inalberata la bandiera borbonica, e si era messo a capo dei reazionarii, che da molto tempo si manteneva al soldo di sei carlini al giorno. Queste infami calunnie egli scrisse nella sua deposizione, segnando così la più iniqua sentenza di morte. (Ahi! giustizia di Dio!... Il povero mio padre nemmen lo avea veduto partire. E quest'uomo era un giudice!...). Tali falsità furon credute, forse perché mio padre pochi giorni innanzi avea presentato al Governatore rinuncia alla carica di sindaco, conferitagli allora, ma la rinunciava per motivi individuali tutti, non affatto politici, pronto com'era, e come diceva la rinuncia ad accettarne qualunque altra che meglio a lui si addicesse. Or questo aver rinunciato poté farsi interpretare a male e poté servire di fondamento a render credibili quelle accuse.

Alquanto dopo uscito il Giudice dal paese tornò a Pesco un soldato sbandato di colà stesso, il quale da qualche mese erasi messo in giro per conferir, come dicevasi, coi borbonici sulla montagna di S. Marco ed altrove; e da qualche paesano era stato veduto ora a Benevento ora a Napoli sotto diverso vestire. Venne questi in casa nostra, e chiesto di mio zio Arciprete gli disse imperiosamente che il domano sarebbe giunto là da Casalduno il General Bosco con più migliaia di soldati; e che avea ordinato che lui venuto si dovesse cantare l'inno Ambrosiano per Francesco secondo; non si opponesse altrimenti sarebber guai; che il Re Vittorio aveva richiamato in Piemonte le truppe sue per lasciare a Francesco libera la tornata nel Regno. Eran bugie, ma chi non vi avrebbe aggiustato fede nelle circostanze che ti ho narrato più innanzi, o almeno chi non avrebbe temuto di tanti borbonici che aveano impunemente occupato S. Marco?

Soggiunse colui che più tardi arriverebbe la colonna di Pago, che si accogliessero di buon grado e si mettessero alle finestre bandiere bianche. Uscito poi di casa nostra si recò in tutte le case de' Galantuomini e di alcuni altri proprietari a ripetere le medesime cose. Disse che ritornava al Generale, e partì. Prontamente cominciò a diffondersi nel paese che sarebbero venuti i borbonici di Pago, poi che erano già per entrare nell'abitato.

Ed ecco alquante bandiere bianche portate da donne e da ragazzi la più parte sventolare sotto la casa del Giudice, ove mette capo la strada che porta a Pago, e con gli evviva a Francesco si avviarono a quella volta ad incontrare i borbonici che venivano. I quali vennero veramente accompagnati da quei pescolani colle bandiere, e trovarono raccolta altra gente, e quegli evviva furono ripetuti ad altissime grida. Allora raccomandato un lenzuolo ad una pertica, ne fecer bandiera, e ne legarono il piede ai rami di un olmo, che è sulla piazza. Andarono nel quartiere delle Guardie Nazionali, ne tolsero i quadri e lo stemma sabaudo, ma non li ruppero, e vi misero invece quel di Francesco. Poi diedero ordine, che si mettessero alle finestre bandiere bianche come avea detto quel venuto prima. Io fui avveduto di far metter fuori la bandiera dal nostro balcone dopo che tutti gl'altri della contrada la avesser messe, così tutti il fecero, facendolo i servi in quelle case ove i padroni non erano. Di questi venuti alcuni erano armati di archibugio altri di scuri, o di mazze, e cominciarono a chiamare gli sbandati del paese, ed anche a costringerli che si unissero a loro, sebbene alquanti paesani vi si unissero di propria voglia. Facevano un girar per le case, un chieder armi in tuono imperioso, e minaccievole e tutti dovetter darli almeno in parte. Noi pure di sei che ne avevamo ne demmo tre. Dopo quasi disarmato il paese partì quella banda e noi ritirammo dal nostro balcone la bandiera come fecero anche gl'altri, ma quella sull'albero vi rimase. Rimanemmo in grande trepidazione e mio padre andò a casa del Capitano della Guardia Nazionale, a domandare se avesse nuova di qualche provvedimento pigliato dal Governo per reprimere quei rivoltosi. Ne ebbe che nulla e fu detto che non conveniva opporsi per nessun modo, affine di non gettarsi in evidenti pericoli, tanto più che sapevasi in S. Marco due giorni innanzi essersi messe ad incendio più case, ed alcuni aver a stento scampata la vita, senza che alcuna truppa accorresse a sedar quei tumulti. Verso le ore ventidue del giorno istesso venne novellamente quello sbandato, che la mattina aveva detto di tornare dal suo Generale, e dopo essere stato dal Capitano si recò a casa nostra, e disse al mio Zio, che Bosco, non avendo potuto venire quel giorno, verrebbe senza fallo nel mattino del dì seguente, ed allora si canterebbe il Te Deum. Dopo visitò altre case, non altrimenti che aveva fatto nella sua prima venuta, e partì dal Paese non so per dove. Intanto eran tornati dei viaticali da Benevento, e ad un di questi che venne a casa, domandammo se là ci stesse Truppa, e ci fu riposto che no. Più tardi ne venne un altro, tornato da Benevento, e narrò a mio padre ed a me in gran segreto, che il Giudice pervenuto la mattina in quella Città avea detto essere stato espulso di Paese dall'antico Capo-Urbano. Noi poca, o niuna fede demmo a queste parole; anzi io stesso osservai, che facilmente il Giudice avea potuto parlare del guardiano per la cagione che ho già narrato, e che chi udiva avea potuto frantendere Capo-Urbano, e così ritenemmo che la somiglianza di quelle due parole nel suono fosse stata la ragion dell'equivoco in colui, che le riferiva. Chi avrebbe avuto per possibile quella tremenda verità?

Intanto io volli scrivere in Benevento al Signor Del Conte Consigliere Provinciale, e Sindaco di Pesco, dicendogli della notizia avuta intorno alle voci diffuse sul conto di mio Padre; che io riteneva quelle voci essere alterate da equivoco, forse di chi le aveva recate a noi; che in ogni modo non erano credibili i fatti addossatici, ancorché veramente vi fosse stato alcun tanto iniquo da contaminarsi l'anima per accuse così mendaci; che egli ci conosceva, e poteva giudicare se fossimo capaci di trascorrere a quegli abusi; però, egli che poteva avesse detto in favor nostro qualche parola. Questo la sera degli otto, e la notte passò tranquilla.

La mattina de' nove ben per tempo i villani che avean trasportato il grano del Censo nel Cortile del Palazzo Comunale andarono a ritorlo, e il riportarono in casa loro secondo le insinuazioni del Giudice. Più tardi tornò la banda di quei di Pago, e dopo le solite grida, accortisi che nel giorno innanzi non tutte le armi si erano date, fece bandire che in capo a due ore, tutte si consegnassero, pena la fucilazione a chi nol facesse. Ricominciarono a girar per le case, e minacciando, e strepitando comandavano che si dessero le armi, talché al Capitano che ne avea dato poche, ritenendo presso sé quelle di munizione assediaron la casa, e minacciaron la morte, sicché infine fu costretto a cedere. Venuti a casa nostra per avere gli altri fucili (e dovemmo darli) un che era capo alla banda disse che il Generale verrebbe nel dì seguente, e che essi di là ad un ora moverebbero per mettersi sotto al comando di lui, che sarebbe meglio conveniente cantarsi l'Inno Ambrosiano prima della venuta del Generale cioè nel Vespero di quel medesimo giorno Nove. Io, pur dubitando cominciai a dirgli esser meglio aspettare quella venuta adducendogli per motivo che pochissimi avrebbero potuto venire a quel canto, che la gente era quasi tutta in campagna al lavoro, e nemmeno essi come dicevano vi si sarebber trovati. Durò a persuadersi, ma infine si persuase. Partirono al dopo pranzo non so per dove, e allor mio Padre visitò nuovamente il Capitano.

Verso le ore ventuno venne la Banda dei Fragnetani, tra' quali alcuni anche di Pesco e tutti erano una trentina, o in quel torno. Ripeterono i loro Evviva, poi verso l'annottare, fatto bandire che tutti mettesser lumi alle finestre, partirono, rimanendone circa un dieci forse tutti di Pesco in quel quartier della Guardia, ai quali poi si aggiunsero altri paesani, ed a sera inoltrata perlustrarono il Paese, che era illuminato giusta il bando. Io già avea ricevuto riscontro dal Signor Del Conte, e mi avea scritto esser purtroppo vero, che mio Padre era stato accusato di aver discacciato il Giudice dal Paese, e altre cose ancora essere state addossate alla nostra famiglia, le quali egli non credea punto. Stessi però tranquillo, ché pria di darsi qualunque disposizione, dovrebbe mettersi in luce la verità. Fummo attoniti dalla straordinaria malignità del calunniatore, qualunque egli fosse, ma fummo tranquilli per noi, dacché è proprio dell'innocente il non temere di cosa alcuna. E di qual colpa potea rimorderci la coscienza, se nessuno di noi mise piè fuori di casa in quei giorni, salvo che il mio povero Genitore, eppure ciò fece (come ho notato) quando la piazza era sgombra, affine di non comparir tra la folla; se in fine di cose politiche non ci siam brigati giammai per nessun verso? Eravamo fuor d'ogni timore, e spesso ne' domestici colloqui ne godevamo con noi medesimi, poiché, dicevamo non avendo pigliato alcuna parte negli attuali rivolgimenti, nè dovevam temere alcun male da quelli che rappresentavano il partito Borbonico, nè dall'Esercito Piemontese, che potrebbe sopravvenire. Però mio padre invitato nel dì otto da un galantuomo di là a recarsi a Benevento con la famiglia, siccome questi faceva, non volle, pensando che così mostrando timore sarebbesi mostrato reo innanzi ai Borbonici, e avrebbe potuto averne danno, laddove egli non paventava nè dall'una parte, nè dall'altra.

Può argomentarsi da tutto questo quale fosse l'innocenza nostra. Ma v'era un uomo, vitupero della razza umana, di cui non può mai essere apparso nel mondo il più perfido, e il più crudele, e questi avea già macchinato orribilmente la nostra rovina. Questi era Giuseppe Calandra, nome di delitto, e di vergogna. Eran circa sei mesi che egli era venuto a Pesco da Giudice, preceduto da mala fama. Dopo alquanti giorni dal suo arrivo colà giunsero a quelle Autorità Comunali, ed anche a mio Zio Arciprete due lettere anonime da Accadia, ove colui era stato prima e in esse narravasi di lui che avea messo a tumulto il Paese, e fatto uccidere due distinte Persone; poi dicevasi di quel mostro il peggio che si può dir di un demonio. Noi non vi demmo tutta la fede, ma pur sospettando alcun poco, adoperavamo di non rendercelo avverso, temendo qualche calunnia, che nell'arte di calunniare dicevan le lettere esser maestro. Trattavamo con lui da buoni amici, massime mio Padre, il quale quasi ogni sera unito ad altri galantuomini si trattenea nel picchetto degli Uffiziali a giuocare con lui.

Gli avea dato impronto ducati dodici, che in parte non avea restituito. Sui primi giorni di Agosto chiese a mio Padre altra somma e questi rispose non poter per allora rendergli un tal servigio.

Fu forse un pretesto, poiché conoscevasi pel Paese a molte persone esser uso il Giudice a truffar denaro. Nessuna inimicizia tra lui, ed alcuno di mia famiglia, nessun diverbio, nessuna ragione di offesa. Or che dirai tu di un tal uomo, che fabbrica così dolorose rovine, per genio, per indole o per istinto? Io gli perdono... comprimendo con violenza dolorosissima gl'impeti della carne, e del sangue, io gli perdono, ed è questo il tributo più accettevole, che io render possa all'anima dello sventurato ed innocente mio Padre. Ma oh come è tremendo il giudizio di Dio, come è spaventevole la vendetta, che pende orribilmente sull'anima iniqua di quel miserabile scellerato!

La notte dunque del Nove Agosto non fu turbata da alcun disastro; ma oh Dio quella calma di quale orrenda tempesta era foriera per noi. Noi dormivamo sicuri fra le domestiche pareti, ché il nostro sonno non fu preceduto da timore di nessun male; ed ohimé per le ombre di quella infaustisima notte tanti armati correvano alla nostra volta per versare il sangue del Padre mio come etc etc. ......

[qui si interrompe il racconto di don Giandonato ed inizia quello di sua zia Anna Elena.]

...... ed ecco quasi al cominciar dell'alba sentono bussare al portone con veemenza straordinaria e continuata. Ne furon sorpresi, mai però sospettando quel ch'era (anzi immaginando che venissero i borbonici a recar qualche danno). Però alcuni degli uomini balzaron di letto e mezzo vestiti accorsero al portone ed aprirono.

Ma qual fu la loro sorpresa quando avendo aperto si videro aggrediti dai soldati piemontesi, colle spade sguainate, i quali detter ordine che tutti gli uomini di casa uscisser fuori? Quei miseri non sapevano spiegare a se medesimi questo fatto, e ne restarono attoniti ed esterrefatti. Usciron tutti, così semivestiti come eran venuti dalle stanze loro, ed allora altri soldati che già avean circondata la casa corsero ad unirsi con quelli sul portone e fero di se un cerchio, chiudendovi in mezzo e battendo a pugna, a calci e ad arcionate di schioppi quegl'infelici.

Detter ordine che camminasser con loro, pur seguitando a percuotere bruttamente. Tutti diceano: Signori, noi siamo innocenti, forse avete preso scambio. Dove ci volete condurre? non abbiam fatto nessun male. Ma le risposte eran sempre le battiture, tanto che al giovane sacerdote fecero rom[pere] la camicia in sul dorso, e caminava a spalle nude per la piazza, ad un altro fratello ferirono il braccio di baionetta. Venuti sulla piazza a piedi a quell'olmo su cui sventolava la bandiera bianca li fecer fermare, ed il colonnello Nigri chiese chi fosse tra quelli Luigi Orlando.

Quell'infelicissimo genitore francamente rispose: Son io. E il colonnello: Tu infame reazionario che hai messo su quell'albero la bandiera, sotto quell'albero morirai. Può immaginarsi come a queste parole stesse il cuore a quegli infelici innocenti. Gli si gettarono a piedi con lagrime e con singhiozzi protestando che ciò era falso ch'erano innocentissimi d'ogni colpa, che aspettassero che i paesani si levassero e domandassero a tutti sul conto loro. Oh! come desideravamo un'ora, e che non avremmo dato?

Il sacerdote prostrato, abbracciando le ginocchia del colonnello dicea: Colonnello chiamo Dio in testimonio che siamo innocenti, verificate prima i fatti, chiudeteci in carcere, caricateci di catene, conduceteci a Benevento dal governatore, chiamate il popolo. Ma chi l'udiva?

A queste voci sempre eran risposte le più violente percosse per man dei soldati che batteano a pugna fin sulla bocca a quel misero che pregava. Allora mio fratello disse: Colonnello che male ho fatto io? per qual colpa mi volete uccidere? Il colonnello non gli rispose ma indicando l'albero disse ai soldati: legatelo e fucilatelo. Mio nipote gli si gettò a piedi piangendo, mentre gli altri erano più che morto dalla stretta di mille affetti strazianti, e gli disse: Colonnello così in un istante togliete la vita ad un uomo, oh! voi forse avete ancora un padre. Oh! pensate se lo vedeste morire così innocente in questo modo così crudele.

Ma già i soldati si erano scagliati periosamente addosso a quell'infelicissimo innocente, e con una fune lo avean legato per la vita a quell'albero di morte.

Era in quell'orribile momento un piangere un pregare mesaudito, non solo di quei di famiglia, ma anche d'altri sei o sette paesani che dalle case vicine accorsero al rumore, era uno strazio il più barbaro il più lacerante, che chi nol prova nol può capire. Egli legato disse: ebbene io moro innocente, io offro in sacrificio a Dio la vita mia. Il sacerdote veduta tornar vana ogni cosa si volse al Padre e gli disse: oh! Padre mio perdonate i vostri uccisori chiedete perdono a Dio de vostri peccati: vi dò l'assoluzione. Egli si segnò della croce piegò le mani sul petto e con gli occhi levati al cielo ebbe l'assoluzione dal proprio figlio, mentre i piemontesi già tiravano i colpi. I due figliuoli di quell'ucciso erano a terra svenuti, ed i soldati andaron chiamando i paesani e fattili venire seco additavano quel cadavere sanguinoso, diceano vedete come si sparge il sangue. E più facile immaginar che [sc]rivere da quale orrore fosser compresi quei miseri contadini a quella barbara vista.

Ora Luigi Orlando è sotterra, Giuseppe Calandra è giudice del mandamento di Bagnoli. E' questo il fatto ed io mi astengo dal far commen[ti.] Domanderei solamente: che direbbero i popoli più selvaggi se ascoltassero questo fatto.

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