BORBONE O GALANTUOMO

IL PLEBISCITO DI SANGUE DI CARBONARA-AQUILONIA

21 ottobre 1860

INDICE DEL VOLUME

 

 INDIETRO

introduzione di D. IANNECI

Testo di F.CAMPOLONGO

1. La strage di Carbonara: una Bronte irpina

2. Il processo: tra giustizia e rappresaglia

3. L’invasione di Crocco

4. Il racconto di Campolongo: da Verga a Lombroso

1. L’origine e la topografia del paese

2. La sommossa

3. La strage

4. Le giornate del terrore

5. Le cause

6. Il potere militare e l’accusa pubblica e privata

7. Il brigantaggio e il saccheggio

8. Il giudizio e la espiazione

9. Il risorgimento e una tomba

10. Bibliografia delle opere di Campolongo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

1. La strage di Carbonara: una Bronte irpina

Il 20 Ottobre 1860, al passo del Macerone, lungo la strada per Isernia, ci fu il primo scontro tra i soldati borbonici e i bersaglieri del generale Cialdini. L’inetto conte Douglas Scotti, che comandava i cacciatori napoletani, colto di sorpresa durante la marcia, si arrese quasi senza combattere. Sembra però che l’euforia per quella prima vittoria non sia durata a lungo nell’animo dei piemontesi: al loro arrivo, Isernia era stata abbandonata dagli abitanti, le case erano state assalite e saccheggiate, ad alcune era stato appiccato il fuoco.

La prima città meridionale che accoglieva le truppe piemontesi offriva così uno spettacolo di distruzione e di desolazione. La mattina seguente, la domenica del 21 Ottobre, nelle città e nei paesi dell’ex Regno delle Due Sicilie si sarebbe svolto il plebiscito che avrebbe sancito l’unione delle province meridionali alla monarchia sabauda. Qualche giorno più tardi, Francesco II, chiuso ormai dal 7 Settembre nella fortezza di Gaeta, leggeva sulla Gazzetta di Gaeta le notizie che riguardavano le province meridionali: "le reazioni inferociscono, le repressioni ancora più feroci tengono dietro". Una notizia ripresa dal Nazionale segnalava "in molti luoghi i disordini a cui dette motivo la votazione" plebiscitaria, tra cui "quelli successi a Carbonara, a S. Angelo dei Lombardi ed in altri luoghi".

Informazioni più precise fecero conoscere al re che Carbonara, della cui esistenza forse nessuno dei suoi generali e dei diplomatici aveva neppure il sospetto, era un minuscolo centro dell’entroterra irpino, che sorgeva sull’altopiano argilloso della valle dell’Ofanto, famoso ricetto in ogni epoca di altrettanto famosi briganti. La domenica del 21 Ottobre, infatti, a Carbonara era esplosa la rivolta. Con le solite modalità dell’insorgenza popolare, i contadini innalzarono la bandiera bianca dei Borboni, portando in processione per le vie del paese i ritratti di re Francesco e della regina Sofia.

Dopo una lugubre messa solenne col canto del Te deum, a cui furono ammessi solo i galantuomini, la massa dei popolani li aggredì e massacrò i più facoltosi di essi, tutti liberali sostenitori dell’Italia unita e del nuovo governo di Vittorio Emanuele. La rivolta era già nell’aria la sera precedente. I messi comunali che distribuivano le tessere per il plebiscito del giorno dopo furono presi a sassate. Le tessere vennero fatte a pezzi. Fino a notte fonda bande di giovani corsero le strade del paese gridando il nome del Re Francesco II.

Alle prime luci dell’alba la rivolta esplose cruenta. Alla fine della giornata rimasero uccisi nove galantuomini, il capitano della locale Guardia Nazionale Gaetano Maglione, la guardia Angelo D’Annunzio, i ricchi liberali Nicola Tartaglia, Gabriele Stentalis, suo nipote Isidoro Stentalis col figlioletto Michelino, un bambino di appena nove anni, Michele Cappa, il cancelliere comunale Francesco Areneo Rossi, il decurione Donato Tartaglia. Un altro, Giovambattista Coscia, fu ferito gravemente. Alcuni, tra cui il sindaco Giacomo Giurazzi, si salvarono con una rocambolesca fuga per le campagne circostanti.

I cadaveri di alcuni uccisi furono mutilati, oltraggiati e precipitati per la ripa sottostante al paese. Altri rimasero insepolti per le strade deserte per tutto il giorno e la notte successiva. Una ferocia inaudita quella dei carbonaresi ma, stando alla storia, non rara né insolita nei periodici e scomposti tumulti della plebe del Mezzogiorno.

Per tutta la giornata poi la folla dei rivoltosi saccheggiò le case di alcuni uccisi, bruciò i libri d’esigenza, distrusse i documenti della cancelleria comunale e gli atti notarili, imponendo taglie e ricattando le vedove degli uccisi, costringendo il clero a rinunciare alla riscossione delle decime, armandosi a difesa del paese.

Due giorni più tardi, la mattina del 23 Ottobre, si presentò al Giudicato Regio di S.Angelo dei Lombardi, un tale Raffaele Mignone, che per appalto recava il sale a Carbonara, e riferì all’autorità giudiziaria lo scempio di Carbonara di cui era stato testimone: i galantuomini legati con la fune, i primi colpi di fucile, le baionettate, i colpi di ronca e di bastone, i cadaveri dirupati per il profondo burrone. Ma già la sera stessa del tumulto erano giunte al Sotto Governatore del distretto di S. Angelo le prime notizie su quei delitti, recate da cittadini di Carbonara che nella notte dell’eccidio erano riusciti a scappare dal paese, nonostante il blocco subito decretato dai rivoltosi.

Il Procuratore del Re presso la Gran Corte Criminale di Avellino dispose l’invio immediato di una colonna mobile al comando del maggiore Moccia, e incaricò il giudice Francesco De Simone di recarsi subito a Carbonara al seguito della truppa, per avviare immediatamente l’istruttoria per quell’eccidio.

Il 26 Ottobre il maggiore Moccia, con la truppa divisa in due colonne, entrò nel paese deserto sul piede di guerra, i fucili spianati, il tricolore con la croce sabauda spiegato. Ma non ci fu nessuno sparo, nessuno scontro con i popolani. La popolazione in processione, dietro al clero con il Santissimo si fece incontro ai soldati, agitando ramoscelli d’ulivo. La notte precedente molti se n’erano andati ai pagliai, ai casoni, alle masserie sparse per le campagne circostanti.

L’ufficiale procedette sbrigativamente. In quattro giorni interrogò tutto il paese ed arrestò più di cento persone, 122 uomini e 19 donne, tra i quali anche il giudice mandamentale del luogo, Domenico Paradisi, sospettato di aver incitato il popolo alla rivolta, e qualche prete che sembrava aver avuto eccessiva simpatia per i Borboni.

Solo il 29 Ottobre il giudice Istruttore De Simone entrò in Carbonara, scortato dai soldati piemontesi.

Il fatto di sangue di Carbonara fu uno dei tanti moti popolari filoborbonici che si registrarono tra l’estate e l’autunno del 1860 in provincia di Avellino: reazioni filoborboniche si ebbero a Castelvetere sul Calore, a Pietrastornina, a Sirignano, a Quadrelle, a S. Angelo a Scala, a Solofra, preludi di quella lunga e sanguinosa guerra civile che fu il brigantaggio.

Il moto di Carbonara del 21 Ottobre 1860 aveva un precedente famoso nella rivolta di Bronte. Ad Agosto nel centro siciliano era accaduta una strage simile, anche se con connotazioni politiche di segno opposto. A Bronte si dette l’assalto alle case dei ricchi latifondisti borbonici nel nome di Garibaldi, dell’Italia unita e della "libertà" che le camice rosse portavano alla Sicilia oppressa; a Carbonara si difese, invece, la causa di Francesco II contro "il brigante" Garibaldi. Nel centro catanese la rivolta contadina, che mostrò subito i tratti della rivolta sociale per l’occupazione delle terre, venne sanguinosamente soffocata, com’è noto, da Nino Bixio con fucilazioni e arresti di massa.

A Carbonara la situazione era analoga a quella di Bronte. Nel mese di Settembre, quando già si avvertivano nel paese i primi segni della imminente rivolta, i braccianti si erano spinti fino a reclamare apertamente in piazza la divisione delle terre pubbliche. Il decurionato locale aveva precipitosamente deliberato, temendo lo scoppio di una sommossa, di avviare le pratiche per una quotizzazione dei demani che, nonostante antichi provvedimenti risalenti all’epoca del governo di Murat, non si era mai compiuta. Come a Bronte, anche a Carbonara i contadini rivendicavano il diritto alla proprietà terriera, almeno delle terre che appartenevano al demanio comunale. Con vari pretesti, opposizioni e resistenze di ogni tipo, la borghesia locale non aveva mai voluto quotizzarle e da decenni ormai le gestiva nel suo interesse, come se fossero, di fatto, terre private:

"La popolazione di questo paese - si legge in un verbale del decurionato di Carbonara di qualche settima prima della rivolta - replicate volte ha addimostrato il pensiero positivo di volere la quotizzazione dei terreni Comunali appellati Mattina, Sabatiello Sterpara, Accinto, terre di Giampietro Mesce e le altre terre che si tengono ad uso di pascolo...L’unico motivo il quale agita lo spirito pubblico di questo paese è precisamente la divisione dei terreni Comunali, e sebbene niuna violenza si è usata per ottenerla, pure questa potrebbe succedere dilazionando ulteriormente come si è minacciato più volte" .

L’ultima dilazione del decurionato di Carbonara fu fatale. Il 21 Ottobre i contadini infatti passarono dalle minacce all’azione violenta, massacrando i più ricchi e potenti possidenti del paese.

L’estromissione dei contadini da ogni forma di proprietà terriera, la sempre rinviata quotizzazione delle terre pubbliche pure prevista dalle leggi in vigore, la dissennata politica fiscale della borghesia locale che colpiva duramente il ceto più debole, la progressiva limitazione degli usi civici, le faide interne tra le famiglie del paese determinarono il clima di esasperazione in cui maturò la rivolta del 1860. L’impresa garibaldina, che aveva provocato nell’estate un sostanziale vuoto di potere, creò l’occasione propizia per una di una ribellione generale, che scoppiò la mattina del giorno fissato per il plebiscito con cui si sarebbe realizzata l’unione delle province borboniche al regno sabaudo del re Galantuomo.

La reazione filoborbonica di Carbonara fu in buona sostanza, come la rivolta di Bronte, una rivolta scomposta di contadini disperati ed oppressi dalla miseria contro un gruppo di latifondisti, decurioni, guardie nazionali e pubblici funzionari. Gli scontri e le alleanze politiche tra le famiglie venivano percepiti dal popolo come risse e trame segrete per renderlo ancora più schiavo. La rivoluzione portata dai garibaldini, che aveva destabilizzato il regime, rese i galantuomini, fino a quel momento odiati e però temuti, molto vulnerabili, perché ora la maggior parte di essi si trovava a sostenere "l’illegale" governo dittatoriale di Garibaldi. I contadini allora, innalzando la bandiera bianca dei Borboni, dettero alla sommossa sociale il carattere di una rivoluzione politica legittimista, di un moto popolare per la difesa del trono e dell’altare.

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2. Il processo: tra giustizia e rappresaglia

Insediatosi al Giudicato Regio il magistrato istruttore, De Simone, chiedeva di esercitare liberamente il suo ufficio. Ma, nonostante le promesse del comandante militare, non potette fare molto. In una lettera del 16 Novembre 1860 il Procuratore Generale del Re che lo aveva inviato a Carbonara, da Avellino gli rimproverava di "aver ceduto i compiti propri della Legge alla forza militare che s’avocava il diritto d’arrestare ed interrogare chiunque", e gli faceva sapere di aver già fatto rapporto al Ministero per la repressione di tanto abuso di forza pubblica a Carbonara.

Moccia non aveva ceduto subito i prigionieri al potere giudiziario, perché sperava di poter procedere con una dura rappresaglia militare in base al famoso "bando" di Isernia del 23 ottobre che instaurava nel Mezzogiorno la legge militare di guerra, le corti marziali e la pena di morte per chi resistesse al novello regime con le armi. Ma poiché i fatti di Carbonara si erano svolti prima dell’emanazione di questo "bando", fu impedito al maggiore Moccia di attuare la progettata rappresaglia contro i carbonaresi.

L’ufficiale intanto pensava anche assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico in paese e la custodia degli arrestati. Reclutò d’ufficio un certo numero di Guardie Nazionali dai paesi del circondario, mentre arrivavano anche una trentina di Reali Carabinieri, agli ordini del comandante in seconda, capitano De Stefano. Non fu facile comunque per lui ricostituire una Guardia Nazionale a Carbonara che fosse composta da individui dei quali ci si potesse realmente fidare. Molti, infatti, appena arruolati, si dispersero subito nei boschi.

Nei primi giorni di Novembre Moccia dovette spostarsi in Capitanata. A Carbonara la Guardia Nazionale appena costituita già si agitava di nuovo, tenuta a bada solo dai fucili dei soldati: "Ormai difficilmente tenuta a freno dai capi, - scrive l’ufficiale - si teme che decida di partirsene, lasciando la custodia dei detenuti". Molti uomini, dei paesi vicini, non avevano ricevuto la paga e nonostante il denaro per pagare gli arretrati e la sussistenza prontamente spedita da Avellino, occorrevano almeno una sessantina di nuove guardie nazionali per rimpiazzare gli uomini determinati a partire. La situazione a Carbonara era così confusa che l’11 Novembre il maggiore Moccia dovette precipitosamente tornare in paese. Vista l’impossibilità di attuare una rappresaglia, cominciò ad interrogare personalmente i detenuti, riempiendo pagine di verbali firmati col segno di croce, contenenti ogni sorta di accuse, in particolare contro alcuni galantuomini filoborbonici e contro l’arciprete del paese. Inutili furono le proteste del giudice istruttore.

Solamente un mese dopo, il 20 Novembre, il maggiore Moccia cedette alle richieste del potere giudiziario. Il giudice De Simone avviò così il suo lavoro, cominciando ad interrogare i primi imputati. Il magistrato dovette presto constatare, però, che a Carbonara "le conseguenze dell’ingerenza dei militari sono state tristi pel tempo perduto e pel nulla raccolto".

L’ufficiale aveva proceduto in modo brutale. Molti degli arrestati, davanti al giudice, ritrattarono, negando quello che avevano dichiarato davanti al comandante militare. Molti inoltre sostennero di essere stati costretti a forza dall’ufficiale italiano a fare certe affermazioni, a sostenere certe accuse a danno di alcuni galantuomini del paese, con minacce, percosse e battiture. Il maggiore Moccia operava a Carbonara come operavano tutti i comandanti militari durante questi anni terribili. Interrogatori violenti e processi sommari, anche nel tentativo di colpire, senza andare troppo per il sottile, alcune famiglie di galantuomini notoriamente di idee conservatrici e di sentimenti filoborbonici. A Carbonara infatti molti ricchi possidenti, avversi ai liberali, scapparono dal paese prima che arrivassero i soldati, sapendo che sarebbero stati sicuramente arrestati per la loro nota posizione politica.

Il pericolo di una nuova rivolta per liberare i detenuti fece sì che si cominciasse a trasferirli in carceri più capienti e sicure. A piccoli gruppi di dieci - venti persone, tutti gli arrestati, a mano a mano che venivano interrogati dal giudice, vennero trasferiti alle carceri di Avellino.

Il giudice De Simone aveva davanti a sé un istruttoria vasta e complicata. Quasi un’intera comunità da giudicare. Il primo dei diciassette volumi che formano la "processura" per i fatti di Carbonara del 21 Ottobre 1860 elenca i capi d’accusa a carico di diversi individui, tra i quali alcuni notabili locali, di fede borbonica che si voleva essere stati i responsabili morali della strage:

1° Cospirazione nel fine di distruggere l’attuale forma di governo.

2° Reazione o attentato allo stesso empio fine di distruggere l’attuale forma di Governo

3° Strage contro una classe di persone

4° Saccheggio contro una classe di persone e galantuomini

5° Complicità di 1° grado nei suddetti crimini di strage e saccheggio

6° Sciente e volontaria ricettazione di taluni autori dell’attentato.

Dopo averlo accusato di essere succube del potere militare, il Procuratore Generale di Avellino lo accusava ora di procedere con troppa cautela, troppi scrupoli, troppa lentezza, di ritardare insomma l’azione della Giustizia che non avrebbe potuto essere efficace se non fosse stata anche spedita ed esemplare. Era già molto che non si era proceduto a trascinare subito davanti al plotone d’esecuzione i più scalmanati dei contadini carbonaresi. Anche l’Intendente di Principato Ultra protestava per la lentezza con cui l’istruttoria procedeva.

Il giudice istruttore De Simone si difese, però, da tutte le accuse e con molta dignità sostenne le sue ragioni:

"la lunga ingerenza dei militari, la mole dell’istruttoria, svariata per avvenimenti, cagioni mediate ed immediate, il numero delle persone coinvolte, il numero degli interrogatori degli imputati e dei testimoni, le difficoltà varie, il pericolo di vita di molti detenuti".

Il 30 Gennaio 1861 scrisse una decisa lettera di protesta al Procuratore Generale ad Avellino:

"Signore (...) a capire quanto sia ardua l’audizione dei testimoni, quando vuolsi esaurirla con lo scopo di raggiungere lo scovrimento del vero, basterebbe por mente alla sola circostanza che essendo coinvolta tutta la popolazione all’attentato contro l’attual Governo, buona parte di essa a’ saccheggi, e non pochi alle uccisioni, è ben difficile che si trovino testimoni che sieno non dirò scevri d’uno de’ reati medesimi, ma scevri siffattamente di rapporti di dipendenza almeno con i principali autori de’ reati stessi, da dire prontamente il vero, anzicchè adombrarlo per gittare la istruzione in una confusione se non in un inutile vacuo. Infine, Signore, che cosa si vuole, la verità e la giustizia o una rapida rappresaglia?".

La giustizia o la rappresaglia. Nei primi mesi dell’Unità italiana, a Carbonara come in molti altri centri del Mezzogiorno, l’atteggiamento delle istituzioni del nuovo stato italiano verso le inaspettate e violente "reazioni" popolari oscillava tra questi due termini, pendendo decisamente verso il secondo. Per qualche giudice che si faceva scrupolo di cercare la verità dei fatti e le responsabilità personali, molti altri non esitavano a procedere in modo spietatamente efferato contro chi si opponeva ai patrioti. Presto ogni incertezza, ogni scrupolo fu superato e la rappresaglia rappresentò alla fine l’unica via per vincere quella tragica guerra civile, scoppiata imprevista e sanguinosa, che fu la lotta al brigantaggio, e che negli anni seguenti avrebbe fatto più morti di tutte le guerre combattute per l’indipendenza nazionale. Negli ultimi mesi del 1860 e nei primi mesi del 1861 il caso di Carbonara poteva ancora sembrare un caso straordinario. Ma presto la realtà si rivelò più grave. Rivolte popolari scoppiarono dovunque nelle provincie meridionali. Sono noti gli spietati ordini del giorno dei vari ufficiali piemontesi, dal generale Lamarmora al maggiore De Luca, prefetto della provincia di Avellino, negli anni più cruenti della lotta.

A Carbonara, invece, il giudice De Simone aveva impostato la sua istruttoria "cercando la verità e la giustizia" e perciò, a differenza dei militari, si era mosso senza eccessivi preconcetti politici e giudizi. De Simone si chiedeva perciò se i nove galantuomini fossero stati uccisi "perché liberali e perché ricchi e si voleva saccheggiar lor case" o anche "perché taluni d’essi già designati a vittime, per interessi privati". Così pure si chiedeva se il saccheggio di certe case soltanto, le più ricche, fosse stato effetto di accidentalità o di rispetto per i sentimenti politici dei galantuomini. Il giudice insomma non procedeva alla cieca e cercava di arrivare a conclusioni provate in modo serio, a stabilire quelle responsabilità precise che facciano sì che la giustizia sia Giustizia e non cieca e rapida rappresaglia. Alla fine, però, dovette ammettere sconsolato che la risposta agli interrogativi che si era posto, la soluzione a tutti i problemi che l’indagine aveva fatto emergere, era impossibile: "Comprendo bene - scrive - che non raggiungerò la soluzione di tutti questi quesiti, ma è pur necessario che lo tenti. E per far ciò non posso padroneggiare il tempo."

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3. L’invasione di Crocco

Il lavoro del giudice non era facile anche perché la situazione in Irpinia come in tante altre zone del Mezzogiorno era tutt’altro che tranquilla.

Nell’Aprile del 1861 la banda del famoso brigante Crocco stava assaltando i paesi intorno al Vulture, tra la Basilicata e l’Irpinia. Comincia una nuova mobilitazione nel timore di altre rivolte. Da S.Angelo dei Lombardi vennero spedite alcune guardie nazionali a Calitri per fronteggiare gruppi di sbandati raccolti nei boschi di Castiglione e di Monticchio. Poi da Avellino salì un’intera compagnia del 30° reggimento di fanteria. Poi ancora un distaccamento di bersaglieri e 40 guardie mobilizzate.

Il giudice De Simone comunque non si sentiva più tranquillo a Carbonara. Il 15 Aprile 1861 scrive all’Intendente di S.Angelo dei Lombardi:

"Tanto in Carbonara medesimo che negli altri comuni di questo mandamento si sta in agitazione tremenda per i fatti compiuti ne’ diversi comuni del limitrofo distretto di Melfi perciocchè è certo che la plebaglia tenderebbe le braccia e si unirebbe alle bande di Donatelli ove talune di esse giungonsi in detti comuni e quindi ogni onesto cittadino sarebbe fatto segno dal furore compresso di essa plebaglia".

Le guardie nazionali non potevano offrire alcuna garanzia "perché in parte appartenenti alla plebaglia medesima, in parte mancanti di armi e di munizioni".

La temuta invasione di Crocco e della sua banda nel circondario non tardò a verificarsi. La mattina del 19 Aprile il brigante assaltò Monteverde, saccheggiando la casa del sindaco e liberando il barone Sangermano che era stato imprigionato perché sospettato di sentimenti borbonici e di connivenza con i briganti per aver trattenuto preso di sé una bandiera bianca dei Borboni che gli era stata recapitata il giorno prima.

Il giorno seguente il giudice De Simone, raccolti i volumi della "processura" per la strage del 21 Ottobre, alcuni reperti rilevanti, e tutto il materiale utile all’indagine che era possibile trasportare, fuggì col cancelliere a Bisaccia, lasciando le altre carte in alcuni stipi della casa comunale. Appena in tempo. Nel pomeriggio dello stesso giorno Crocco invase Carbonara. Il paese fu di nuovo saccheggiato. Il Giudicato Regio fu distrutto. Bruciata la casa comunale. Assalite molte ricche case private. Inalberata ancora una volta la bandiera bianca dei Borboni, aperte le carceri, abbattuti gli stemmi dei Savoia. Le poche forze piemontesi presenti a Carbonara furono impegnate in un "acerrimo combattimento". I briganti assaltarono il bagaglio lasciato incustodito, uccisero uno dei soldati rimasti di guardia e distribuirono i panni dei militari alla popolazione.

Voci dicevano che i briganti stessero dando la caccia proprio al giudice istruttore. Non sentendosi al sicuro, De Simone lasciò anche Bisaccia per rifugiarsi più lontano, a Rocchetta Sant’Antonio. Il giorno seguente, evitato un altro scontro con una più forte colonna piemontese, Crocco assalì Bisaccia e tentò poi di assalire Calitri. La banda fu respinta sotto Pescopagano e si disperse tra Calitri e Lioni.

Passata quella furia, fu incaricato il giudice regio di Lacedonia di recarsi a Carbonara per verificare lo stato della documentazione e salvare l’Archivio, le carte della documentazione e quant’altro fosse scampato al fuoco appiccato dai briganti di Crocco. Il giudice di Lacedonia però in una lettera del 25 Aprile, adducendo a scusa il grave pericolo personale e la mancanza di forze adeguatamente armate, si rifiutò di recarsi a Carbonara, "in quel paese di cannibali".

Superato così quest’altro momento drammatico, il giudice De Simone potette tornare sicuro in paese e riprendere la sua istruttoria per i fatti reazionari della tragica domenica del 21 ottobre 1860, finalmente conclusa il 2 Dicembre 1861 con il rinvio a giudizio di cinquantotto imputati, la metà circa degli uomini arrestati dal maggiore Moccia.

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4. Il racconto di Campolongo: da Verga a Lombroso.

Questi i fatti come sono storicamente avvenuti.

Cinquant’anni dopo la rivolta di Carbonara, trovò il suo cronista. Non uno storico o un letterato di professione, ma un magistrato di origini calabresi, Francesco Campolongo.

Il giudice Campolongo aveva sposato una delle vittime della strage, la giovane Isabella Tartaglia, vedova di Isidoro Stentalis, galantuomo liberale di antica famiglia carbonarese. Alla morte della moglie nel 1906, il magistrato volle narrare, con un asciutto resoconto, i fatti rivoluzionari di Carbonara dell’Ottobre 1860, per onorare la memoria della donna che aveva perso in quei rivolgimenti il suo primo marito, il padre, il figliastro. Visti i tempi di fermento sociale che l’Italia stava vivendo da Milano a Palermo il racconto diventava anche una ammonizione per i pericoli che l’ordine pubblico correva di nuovo per le rivendicazioni sociali che a Nord come a Sud si tramutavano sempre più frequentemente in lotta allo Stato borghese. Il giudice Campolongo dovette avere facile accesso, data anche la sua professione, alle carte processuali della Gran Corte Criminale di Avellino relative alla reazione di Carbonara del 1860.

Nasce così lo scritto di Campolongo La reazione del 1860 a Carbonara, pubblicato a Benevento nel 1907. Una memoria di sanguinosi fatti del Risorgimento meridionale, rivissuti dall’autore nei timori del presente piuttosto che analizzati nelle loro profonde motivazioni storiche e politiche.

Quando Campolongo scrisse la sua memoria su quel cruento episodio, Carbonara non esisteva più come tale. Una volta realizzata l’Unità nazionale, infatti, per cancellare, il ricordo di quella giornata di furore popolare, quell’offensivo "antirisorgimento" dei cafoni, nel 1862, Carbonara fu ribattezzata Aquilonia, suo nome attuale, derivato da quello della città sannitica di cui parla Livio nelle sue Storie, per esaltare gli antichi fasti di Carbonara di cui gli eruditi locali favoleggiavano fin dal Settecento, ed anche per sottolineare la vittoria finale del partito liberale che fin dai primi anni dell’Ottocento aveva costituito in paese una società segreta denominandola appunto "Aquilonia risorta". Si trovò comunque indegno dalla borghesia liberale locale che, nell’Italia unita, continuasse ad esistere la Carbonara reazionaria, che non aveva saputo vivere la poesia gloriosa dell’unità nazionale e, anziché inneggiare ai martiri del Risorgimento, aveva invece ucciso i galantuomini patrioti e dato l’assalto alle loro case. Siccome, dunque, in quella rivoluzione politica, com’è noto, tutto doveva cambiare affinché niente cambiasse, a Carbonara si volle un cambiamento così radicale da decidere che finanche l’originario toponimo dovesse scomparire.

L’occhio inquisitorio del giudice Campolongo e la sua moderna cultura positivista, tipica della borghesia colta italiana dei primi anni del nostro secolo, non gli consentono una valutazione più articolata dei moti del 1860.

L’opuscolo è comunque interessante oggi non solo come agile resoconto di quei fatti di sangue, ma soprattutto come documento del modo con cui l’élite culturale della borghesia provinciale, a cui Campolongo apparteneva, guardava, cinquant’anni dopo, le vicende del Risorgimento e del brigantaggio meridionale. Su questo piano i limiti dello scritto di Campolongo sono notevoli.

Quando egli scrive La reazione del 1860 a Carbonara, Verga è ancora vivo e le sue opere hanno conosciuto un grande successo. Una sua famosa novella, Libertà, narrava i fatti di Bronte. Il racconto verghiano, presenta tre nuclei principali: la rivolta, le attese di cambiamenti da parte del popolo di Bronte, il disinganno finale all’arrivo dei garibaldini col processo che ne seguì. Un analoga tripartizione caratterizza lo scritto di Campolongo: il racconto della rivolta contadina, l’arrivo della forza militare, il processo penale col ristabilimento dell’ordine e il trionfo della giustizia del nuovo stato unitario. Nel raccontare la reazione di Carbonara, il magistrato calabrese, di buona cultura letteraria, probabilmente ha presente proprio la novella di Verga, di cui segue a grandi linee il ritmo narrativo.

Il punto di partenza della narrazione è identico. Il tumulto siciliano narrato da Verga comincia con i popolani che "sciorinano dal campanile un fazzoletto a tre colori", sull’altopiano irpino invece "si strappavano dai cappelli le coccarde tricolori". Il crescendo dell’aggressività della folla, le espressioni della sua ferocia, l’assassinio di un ragazzo, la furia omicida delle donne sono elementi comuni ai due testi, pure molto differenti tra loro sul piano letterario. L’analogia, tuttavia, è soltanto esteriore. Lo scrittore siciliano, infatti, procede da grande romanziere verista. Descrive i fatti dal punto di vista del popolano e pur non approvando le giustificazioni messe avanti dai personaggi, tuttavia ha ben chiaro che la rivolta nasceva dall’ingiustizia sociale. Campolongo invece guarda dall’esterno, dopo molti anni dall’accaduto, i fatti di sangue di Carbonara, con l’occhio implacabile del giudice, dell’uomo d’ordine. Egli, come magistrato e come patriota, non esista a condannare i bifolchi che avevano attentato alla vita e ai beni dei buoni patrioti del paese, la loro brutalità ed efferatezza

Probabilmente ha in mente Verga quando si sofferma a dare risalto ai fatti di sangue, ai momenti più drammatici della vicenda. Ma nella novella di Verga, conformemente alla sua poetica, parlano solo i fatti e i personaggi e, anche in assenza di un giudizio storico o politico dichiarato, emerge chiaramente in Libertà il tema dell’ingiustizia sociale. I fatti di Bronte hanno la loro causa remota nello sfruttamento della plebe siciliana da parte dei latifondisti padroni delle terre, dell’unico mezzo di produzione nella società agricola di quel tempo e di quella regione.

A Campolongo si deve riconoscere lo sforzo di mantenere una certa oggettività nella narrazione dei fatti della rivolta di Carbonara. Ma, soprattutto nelle note che chiosano qua e là il testo, si avverte chiaramente una marcata presenza della cultura conservatrice della classe sociale a cui il magistrato appartiene per la quale la "questione sociale" che agitava il paese era semplicemente una questione di forza pubblica e di repressione. Cultura tipica della borghesia provinciale italiana dei primi anni del Novecento, che esaltava il Risorgimento come opera sublime di martiri e di eroi.

Campolongo sottolinea in molti punti la brutale ferocia del popolo di Carbonara, animato da cattiveria, spietatezza, tristizia; sentimenti che solo in parte possono avere per lui ragioni storicamente e socialmente determinate, ma che perlopiù erano innati e comunque si traducevano sul piano politico in un rifiuto della direzione dei buoni borghesi liberali.

Benedetto Croce, aveva scritto nel 1903, che le novelle di Verga rappresentavano "la deformazione morale, lentamente elaborata dalle privazioni e dalla miseria, e che finisce con l’essere accettata non solo come necessità ma come saggezza e morale". In effetti i contadini meridionali, a Bronte come a Carbonara, quasi sempre avevano accettato come ineluttabile condizione umana dei deboli lo stato di miseria in cui si trovavano. Quello che la cultura positivistica di Campolongo sembra rimproverare ai braccianti è il non avere saputo appunto considerare la "necessità storica" della loro miseria anche come "saggezza" e "morale", e di aver quindi reagito a processi storici e a soluzioni politiche a cui avrebbero fatto meglio a partecipare solo come taciti spettatori.

Pur accennando ai problemi sociali ed economici concreti dei contadini (la larga diffusione dell’usura, per esempio), per Campolongo la causa della reazione di Carbonara è senz’altro politica. L’avversione dei contadini al nuovo regime, la loro strumentalizzazione da parte dei "retrivi" filoborbonici, la facile propaganda del clero, le trame e l’azione di molti soldati sbandati sono le concomitanti cause fondamentali della rivolta.

Il magistrato provinciale non ha capito quello che era già chiaro a Verga in Libertà. Lo scrittore siciliano sa di narrare non una vera lotta, regolare e politica tra partiti, ma - come scrive Croce - "un urto feroce" tra classi sociali, "tra chi ha e chi non ha". A Verga non sfuggiva l’elemento fondamentale all’origine dei moti di Bronte, la conquista delle terre promesse ai contadini fin dal tempo dell’eversione della feudalità:

"Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei campi."

Un altro scrittore, Giuseppe Cesare Abba, il garibaldino che da Savona s’era messo al seguito dell’Eroe dei due mondi nella spedizione siciliana, narrò anche lui nelle sue Noterelle di uno dei Mille l’episodio di Bronte e la feroce repressione che ne seguì. In un significativo colloquio con un monaco siciliano, padre Carmelo, incontrato subito dopo lo sbarco a Marsala, lo scrittore garibaldino esalta la sua missione: fare dell’Italia un grande e solo popolo. Ma il monaco siciliano resta perplesso:

"- Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.

- Felice! Il popolo avrà libertà e scuole. -

- E nient’altro! - interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose bastano forse per voi piemontesi: per noi qui no. -

- Dunque che ci vorrebbe per voi?-

- Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori, grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte ma in ogni città, ogni villa. -"

Le perplessità di padre Carmelo si perdono poi nell’intento celebrativo dell’opera di Abba. Ma sono abbastanza per affermare che era chiaro già a molti patrioti dei primissimi tempi che la lotta che cominciava era una lotta di oppressi contro oppressori, colorandosi ora del rosso dei garibaldini ora del bianco dei Borboni. "La libertà e le scuole" portate dai piemontesi evidentemente non erano sufficienti per far uscire le popolazioni meridionali "dall’abietta condizione di cafoni" in cui continuarono a versare anche dopo l’Unità nazionale.

La "guerra degli oppressi contro gli oppressori" nasceva dal problema della terra, della quotizzazione dei demani, degli usi civici perduti o ristretti, questioni che erano stati già da tempo al centro dell’elaborazione teorica degli uomini della sinistra. Marx stesso aveva più volte rimproverato a Mazzini di dimenticare quasi completamente nei suoi programmi rivoluzionari le masse contadine, mentre egli si rendeva conto che esse costituivano un problema serio per la borghesia italiana che guidava il Risorgimento nazionale.

Cinquant’anni più tardi, alla fine dell’Ottocento, la borghesia italiana era conservatrice in politica e reazionaria sul piano sociale, soprattutto tra i ceti medi della provincia. Era una borghesia che rimpiangeva la "bella età leggendaria del Risorgimento"; una borghesia della seconda generazione che sembra rammaricarsi, come il Carducci descritto da Oriani, per "non aver cospirato con Mazzini" e "non aver marciato con Garibaldi"; una borghesia soprattutto, fortemente bisognosa del potere forte dell’esecutivo, che, come scriveva in quegli anni Pareto, "Se trova un Bonaparte, le si getta in braccio, e in mancanza di un Bonaparte si contenta di un Crispi"; di quello stesso Crispi che a giudizio di Gramsci aveva dettato la condotta politica dei garibaldini in Sicilia.

Le istanze sociali di Verga, i dubbi di Abba, e di tanti altri scrittori erano state soffocate dai miraggi coloniali e dalle cannonate di Bava Beccaris.

Il magistrato Campolongo, nel descrivere la rivolta di Carbonara del 1860 non ha più nemmeno gli scrupoli che aveva il giudice istruttore De Simone all’epoca dei fatti, la preoccupazione cioè di non trasformare la verità e la giustizia in una rapida rappresaglia. Campolongo accenna appena, in poche righe, al fatto che oltre al "sentimento politico", "causa prima" della rivolta, esistevano altri problemi come l’usura, la limitazione degli usi civici, le trame e gli interessi di pochi. Del problema della terra, delle precedenti rivendicazioni alla sua proprietà, della diffusa miseria, della insistentemente richiesta quotizzazione dei demani che a Carbonara non era mai stata effettuata, Campolongo non dice nulla.

Pure era ormai passato qualche decennio dalla pubblicazione delle opera di Verga e degli altri scrittori veristi, come pure da quella delle Lettere meridionali di Pasquale Villari (1875), dall’ Inchiesta agraria di Stefano Iacini (1878), delle opere di Colajanni e di Nitti, dei fondamentali scritti di Fortunato sulla questione demaniale (1879). Erano recentissime alcune leggi speciali per il Meridione (1904). Tutta la letteratura del meridionalismo liberale prodotta nella seconda metà dell’Ottocento sembra ignorata da Campolongo. Il tema fondamentale della rivendicazione della proprietà terriera, come molla fondamentale della rivolta, già posto con chiarezza da tanti letterati e politici della generazione precedente, è completamente ignorato.

Nutrito di positivismo Campolongo non tralascia di citare, invece, i più moderni intellettuali dell’epoca. Come un contrappunto alla narrazione dei fatti, egli esprime le sue idee sui moti e i suoi protagonisti alla luce delle teorie di Sighele, Le Bon, Jelgersma, il fiore della cultura positivista e dell’antropologia criminale tra la Ottocento e Novecento. Campolongo ha letto perciò la rivolta del ’60 a Carbonara con l’occhio rivolto agli studi di Jelgersma sulla psicologia delle masse, sulla crudeltà delle donne nelle rivoluzioni (che egli chiama con linguaggio neutro e distaccato del giudice e dell’uomo di scienza "l’elemento femminile") e alla Psycologie des foules di G. Le Bon che era il testo più reazionario, il più avverso al socialismo, che ebbe grande successo nella borghesia italiana e che susciterà poi anche l’ammirazione di Mussolini (che lo considererà "opera capitale") e di Goebbels. Non manca il riferimento ad un intellettuale di rango come Hippolyte Taine e alla sua opera più famosa Les origines de la France contemporaine (1875-1893) che incontrò subito il favore dei settori più conservatori e retrivi della cultura francese dell’epoca per la sua forte polemica contro il giacobinismo e il razionalismo settecentesco. E’ presente infine anche Shopenhauer per le sue osservazioni sull’ "effetto dell’egoismo tra la folla in sommossa". Accanto ai moderni compare, inoltre, la curiosa citazione di un autore antico come Tacito: l’agitarsi della folla contadina sulla piazza del paese ricorda all’autore la descrizione che lo scrittore latino fa negli Annales della sommossa delle legione romane in Germania durante la guerra civile 69 d.C. La cosa più sorprendente è che Campolongo non manca di notare che "qualcuno" ha paragonato quelle rivolte di antichi legionari romani "agli scioperi moderni". E anche a lui il singolare paragone tra i tumulti degli antichi soldati e gli scioperi moderni doveva sembrare tuttavia del tutto congruo e plausibile.

Egli invece guarda ai fatti rivoluzionari di Carbonara di cinquant’anni prima con l’occhio rivolto alle inquietudini sociali del presente. Mentre narra la sollevazione contadina del ‘60, ha davanti agli occhi le legge del 1894 contro la "sovversione sociale", la repressione dei Fasci dei lavoratori, lo stato d’assedio in Sicilia e le medaglie conferite da Umberto I a Bava Beccaris per la repressione nel sangue dei tumulti di Milano. Soprattutto vedeva il pericoloso rinnovarsi degli antichi tumulti contadini in tutta l’Irpinia. In particolare ancora ad Aquilonia c’erano state manifestazioni di piazza nel 1894, nel 1897, e nel 1898, contro il sindaco, contro l’eccessivo rigore usato verso i contadini che sfruttavano il legname dei boschi comunali, contro le imposte, contro i soprusi di una quotizzazione delle terre, eseguita tardi e male, ingiusta per i contadini e gravosa per le spese che comportava. Gli incendi dei boschi comunali erano all’ordine del giorno. In questi stessi anni scoppiarono sommosse a Calitri, a Lacedonia, a Gesualdo, a Montella, a Rocchetta e in molti altri paesi dell’Irpinia. Campolongo vedeva la sicurezza sociale nuovamente minacciata e il concreto pericolo che si ripetessero le stragi del 21 Ottobre 1860.

E’ significativo poi il diverso modo con cui si concludono le due sollevazioni, quella narrata da Verga e quella di Carbonara raccontata dal giudice di provincia. In Libertà la Nemesi contro i contadini che avevano sperato di potere finalmente avviare la loro riscossa occupando le terre dei latifondisti di Bronte, la compie la società stessa in cui, secondo la nota convinzione verghiana, sono sempre i più potenti, i più ricchi a risultare alla fine vincitori. Ai deboli ribellatisi non resta che il disinganno e la rassegnazione. L’oppressore continuerà ad opprimere. Al contadino di Bronte trascinato in galera dai "liberatori" italiani non resta che esclamare attonito:

"Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Ma se avevano detto che c’era la libertà!..."

Per Campolongo a trionfare su tutti invece non è la legge universale della Storia che condanna "i vinti", ma un entità ben più poderosa e immediatamente visibile: lo Stato, i suoi apparati repressivi, la sua giustizia che rassicura "i buoni" e colpisce senza pietà "i tristi", dove i tristi sono gli incolti cafoni. La giustizia dello Stato finisce col cooperare poi con la giustizia di Dio nel punire i vili autori degli omicidi di Carbonara nel 1860, in una alleanza di tono quasi medievale. Così Campolongo, dopo aver riportato, nell’impassibile freddezza del linguaggio del codice penale, la sentenza per i fatti del 21 Ottobre conclude la sua narrazione:

"Così la giustizia umana e divina procedevano per vie diverse alla epurazione dalla società di elementi così perversi e feroci perturbatori dell’ordine sociale"

........

"E’ ivi qualche superstite ancora, sfuggito alla giustizia sociale. Qualcuno, misero, cieco, si volge alla generosità dei passanti; qualche altra, curva, malata, deforme, passa come ombra per le vie fra il sorriso e lo scherno dei monelli.

Compiesi così la giustizia degli uomini e di Dio!"

La "giustizia sociale" di cui parla Campolongo poteva essere solo la giustizia dei processi e dei bagni penali, quella che egli stesso realizzava come magistrato. Le nemesi contro "i tristi" protagonisti della rivolta di Carbonara, perturbatori dell’ordine sociale, è inesorabile e nelle parole di Campolongo e finisce col trasformarsi quasi in una vendetta divina che non manca di colpire i malvagi finanche nel fisico, rendendo i pochi scampati al carcere "miseri, ciechi, curvi, malati e deformi".

Se il quadro ideologico di Campolongo è fortemente condizionato, dunque, dalla sua cultura positivistica con tutto l’odio e i timori tipici della piccola borghesia italiana dei primi anni del Novecento, il tono della narrazione è caratterizzato dal linguaggio piuttosto cancelleresco, che derivava dall’esercizio della sua professione di magistrato. Siamo molto lontani, perciò, dagli effetti artistici di un racconto realista e molto vicini al linguaggio di quei verbali giudiziari su cui il racconto si fonda. Lo stile di Campolongo oscilla tra il burocratico di un verbale di cancelleria di un tribunale e il retorico letterario di un uomo di buona cultura. I dialoghi sono costruiti con frasi tratte dalle deposizioni dei testimoni. L’impiego di elementi dialettali italianizzati, tratti direttamente dalle deposizioni dei testimoni, contribuisce a dare colore all’opera ma non riesce a creare una vera e propria drammatizzazione. Non c’è tanto la pietà per le vittime di quella giornata di sangue quanto un senso di vendetta verso i malvagi di Carbonara. La rievocazione storica di Campolongo doveva esecrarne la memoria e l’uso dell’aggettivo "un tale" - che accompagna quasi sempre il nome del popolano - lo consegna già nel nome al disprezzo e alla condanna. I termini usati per indicare le parti in lotta, le classi sociali sono sempre carichi di giudizi morali conformemente all’ideologia dell’autore: da una parte ci sono "i buoni", "i migliori", i galantuomini ricchi e onesti; dall’altra il popolo "tristo", gli elementi "perversi", i "feroci perturbatori dell’ordine sociale". I protagonisti popolani di quella giornata di lotta e di sangue così non escono mai, nel racconto, dalla loro posizione di imputati. La sentenza di condanna, riportata dal Campolongo alla fine del suo racconto, è suggello della narrazione, un memento della superiorità invincibile dello Stato dei "buoni" che, ieri come oggi, trionfa sempre sullo scomposto rivoltarsi della plebe e impone la sua "giustizia sociale", fatta di condanne a morte, di ergastoli, di lavori forzati.

Francesco Campolongo ha vissuto il mito ottocentesco della borghesia operosa, classe buona e progressista che aveva fatto il Risorgimento, e che vedeva nei contadini in rivolta, i retrivi, i malvagi che, come la scienza di Lombroso modernamente indicava, per indole naturale inclinavano al brigantaggio. Era compito perciò dello Stato, dello Stato forte che aveva dato buona prova di sé cinquant’anni prima nelle campagne meridionali contro i briganti e che ancora dava allora a Milano o in Sicilia, ridurre a più miti costumi i feroci contadini del Mezzogiorno come gli operai rivoluzionari delle grandi città del Nord. In quei primi anni nel Novecento, egli vagheggiava un Risorgimento "di poesia, di luce, d’incanto" , laddove a Carbonara il 21 Ottobre del 1860 se ne era sperimentato invece uno fatto "di sangue e di lutto". Vagheggiava il Risorgimento dei buoni sentimenti offesi dai barbari che avevano ucciso i patrioti e devastato le loro case nel giorno in cui si compiva la sublime opera dell’unità nazionale. Raccontare nel 1907 il trionfo della "giustizia sociale" a Carbonara nell’1860 come egli la intendeva, ad opera dei tribunali e delle carceri del nuovo stato unitario, era anche, in quegli anni di nuove tensioni e di nuovi pericolosi scontri, un modo per rassicurare i "buoni" e ammonire ancora una volta i "tristi" della superiorità politica e morale e dello stato borghese.

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F. CAMPOLONGO

LA REAZIONE DEL ’60 A CARBONARA

ORA "AQUILONIA" E

IL SUO PROCESSO PENALE

Notizie e documenti inediti - Benevento - Giuseppe De Martini Editore - 1907

I

L’ORIGINE E LA TOPOGRAFIA DEL PAESE

Carbonara, cittadina e capoluogo di mandamento nella provincia di Avellino, da cui dista 24 miglia per via ordinaria, è situata su di una collina, tagliata a picco. Intorno le fan corona alcuni monti con la catena del Vulture a distanza, e la lambisce a valle il torrente Ausento.

Ricca di pascoli e di vigneti, produttiva di grano e di granone, si distingueva un tempo anche per la industria pastorizia e bovina, ora decaduta per la quotizzazione dei migliori boschi.

Faceva parte un tempo della soppressa diocesi di Monteverde: ora è sotto la giurisdizione del Vescovo di S. Angelo dei Lombardi, dal cui tribunale dipende per la giurisdizione civile e penale.

Nulla di preciso si sa della sua origine.

Pare sia sorta come luogo di ricovero dei carbonai, che dai vicini boschi estraevano legna per ridurle in carboni.

Certo nei tempi di mezzo dové essere, come i vicini villaggi di Monticolo e di Pietrapalomba popolata e fiorente, perché da alcune cronache si rileva che Roberto Guiscardo verso il 1078 distrusse in parte il paese, e rase al suolo gli altri due villaggi per essersi ribellati al suo impero.

Nell’epoca del feudalesimo signoreggiò su Carbonara, come su altri paesi finitimi, la famiglia Caracciolo.

In seguito fu infeudata alla famiglia Imperiale dei principi di S.Angelo, che, pare, abbia sfruttato il paese, senza lasciare alcuna traccia durevole si sé e della sua breve signoria.

A poca distanza dal paese, in una vallata amena per alberi fruttiferi ed acque fresche ed abbondanti, è la Regia Badia di S. Vito Martire.

Il Palmese volle dimostrare che Lacedonia, sua patria, è la discendente diretta di Aquilonia, e il Grasso gli tenne bordone.

Il Mommsen ritenne in origine una sola Aquilonia: poscia mutò avviso, e si disputa esservi stata un’Aquilonia irpina di niuna importanza, un’Aquilonia Sannitica, e fino un’Aquilonia nell’Apulia. L’Aquilonia Sannitica sarebbe quella, di che si occupa Livio nel libro X, cap. 38 e che parecchi scrittori ricercano nel cuore del Sannio.

Le sottigliezze degli scrittori di topografia antica e le vanità di campanile hanno ingenerato maggior confusione.

Per coloro che ritengono che l’Aquilonia liviana è ben altra, distinta da quella Irpina, si può osservare che, data la esistenza di due Aquilonie, Livio avrebbe avuto cura di specificare quella, ove si combatté l’ultimo dramma della indipendenza sannitica.

Se gli antichi itinerari parlano di una Aquilonia - tra il pons Aufidi e Romulea - questa dové essere l’Aquilonia storica.

La spianata della contrada Cinta, la vicinanza a quel ponte antico, che è in prossimità della stazione di Monteverde e denominato Ponte Pietra dell’Olio, i sepolcreti, si rinvengono da tempo nelle terre circostanti, le armi spezzate, i vasi antichi, le monete non rare a venire alla luce, collane d’oro e idoli rinvenuti in epoca più remota, lapidi con iscrizioni per singolare incuria, infrante, fanno indubbiamente ritenere che Carbonara è sorta sul suolo di altra città e civiltà.

Carbonara quindi non merita le censure che il Palmese ed altri le rivolgono quando si pensa che il nome fu mutato più per cancellare un triste ricordo che per vanità.

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II

LA SOMMOSSA

Era l’alba del 21 ottobre 1860.

Un certo numero di contadini, dopo la prima messa mattinale celebrata dal prete Giuseppe di Benedetto, si riunì nel larghetto dinnanzi la chiesa della parrocchia, e ingrossato dallo accorrere di altri popolani, al grido di "Viva il re! Viva Francesco II!" emesso da Donato Mesce fu Gaetano pel primo, in due bande diverse, si diede a percorrere le strade del paese.

Invano il capitano della guardia nazionale Maglione Gaetano dalla sua casa volle avvertire tutti di desistere da simili grida e attruppamenti, che la turba, riunitasi allo sbocco delle due vie, giunta innanzi al corpo di guardia, alla strada Porta, pretendeva distruggere lo stemma Sabaudo ed i ritratti di Re Vittorio e del generale Garibaldi.

Per grida frenetiche distinguevasi un tale Raffaele Gala Cornacchia, che strappava con violenza a anche a qualcuno la coccarda tricolore.

Alle pretese di quei facinorosi le guardia nazionali Federico Bonavoglia e Vito Mesce, e lo stesso Donato Mesce, che dopo le prime grida ed il primo triste esempio si faceva a rientrare indifferente nel corpo di guardia, si opposero. Sopraggiunse il capitano Maglione per farli desistere, ed in tono beffardo disse loro:

"Vi siete saziati? Che cosa volete fare? Scappellatevi ora e andate a S.Vito!".

Ma il loro strepito era così assordante che lo stesso Maglione fu costretto ad uniformarsi a loro, ed a gridare "Viva Francesco II".

Inanimata tale marmaglia per sopraggiungere di altra gente, che a forza si costringeva ad unire a lei, più insistentemente si fece a chiedere i quadri e lo stemma; ma il capitano Maglione, conscio della sua responsabilità, dicendo: "Volete farmi andare in galera?"; e ingiungendo alle guardie di non far avvicinare persona alcuna, si slanciò nel corpo di guardia, come per prendere un fucile.

La turba indietreggiò, ma mentre alcuni osservavangli: Ancora questa intenzione tieni; ora ti faremo vedere noi!, e incominciarono a gridare di doversi andare a suonare le campane a stormo, altri corsero alle proprie case ad armarsi.

Il capitano Maglione, passeggiando innanzi al Corpo di guardia a voce alta diceva: "Li bi li fessa, ce ne fosse uno buono. Avete finito? Oggi fate voi, da qui a pochi giorni vedremo!"; e dopo pochi momenti date alcune disposizioni alle guardie, e con promessa di mandare un rinforzo, decise di ritirarsi a casa; ma, lungo la via, una certa Filippina Annunziata gli lanciò contro una pietra, che lo colpì al piede.

I gruppi non ristavano inerti, e un tale Donato Achille Esposito e un tal Vito Luongo non mancarono di accendere gli animi, per andare a suonare le campane, finché unitisi ad essi altri rivoltosi, corsero alla piazza della chiesa della Concezione.

"Andiamo, corriamo a suonare le campane ad arme. Il Capitano non ha voluto far prendere lo stemma, ma oggi o dobbiamo mandarlo a casa in sacco, o gli dobbiamo tagliare la testa".

Ma lungo la via, che mena alla chiesa della Concezione, la marmaglia ingrossava di contadini, armati di falce, zappe; di donne, che apprestavano armi, come fu vista una certa Teresa de Martino, che nel grembo ascondeva due o tre scuri; di guardie, armate di schioppo; di soldati borbonici sbandati con mazze; di artigiani, con mannaie infisse su di un asta; mentre Vito e Francesco Tartaglia, agnominati Bannèra, facevano insistenza e ressa presso il sagrestano Tommasiello, abitante presso la alla chiesa, per avere le chiavi, da lui conservate, ed ascendere il campanile per suonare a raccolta.

Accorse il cantore Bruno Cerulli per calmare quei tristi, ma trovò ostacoli e diffidenze, perché alcune madri rampognavano i figli per la inerzia, che dimostravano, ed altri: "Non ascoltate quel prete, fate quel che dovete; oggi dev’essere il giorno del giudizio!", e all’esortazioni di desistere da ogni sinistro proposito per tema di un arrivo di truppa militare, e di danni al paese: "Nulla abbiamo da perdere: nostro albergo le macchie!" erano le risposte di quei forsennati.

Intanto, non avendo potuto avere le chiavi della chiesa, dei rivoltosi, alcuni fecero leva per violentare la porta, e altri salirono sulla chiesa per la parte più bassa di un muro, e insieme si ritrovarono sul campanile, suonando prima a distesa, e quindi a tocchi prolungati e brevi.

Era un accorrere, uno sbandarsi, un riunirsi armati, un ricercarsi, un istigare ognuno a far causa comune, un entrare in chiesa, imporre di uscirne ai fedeli, impedire al prete di celebrare per gridare tutti e proclamare di nuovo a re, Francesco II, che in tempo di carestia aveva provveduto il popolo di fave e grano.

"Francesco II ha mandato carta bianca: cacciatelo, per Dio! Capua è inespugnabile!" minacciava un tal Raffaele Coppola al segretario comunale Araneo Rossi, mentre pattuglie di contadini giravano per le strade circostanti attorno alla chiesa parrocchiale.

Il Capitano Maglione, ritiratosi intanto, invece di fare avviso agli altri gentiluomini e liberali del paese, e di raccogliere la guardia, si chiuse in casa in compagnia di un suo nipote, e si diede a caricare nove schioppi, che egli teneva custoditi presso di sé; né del pericolo né delle minacce alla sua persona, riferite da confidenti e da familiari alla moglie, si diè pensiero alcuno.

Gli avvenimenti incalzavano, perché i rivoltosi, siccome avevan detto fin dal primo mattino di volere con loro il Sindaco, si avviarono in gran moltitudine innanzi l’abitazione di lui, ove tumultuando e tre i soliti evviva, per aver trovato il portone chiuso, si fecero a chiamarlo per unirsi ad essi.

Una sorella dal balcone si fece a dimandare il motivo della richiesta, e i contadini unanimi a richiederlo per togliere i quadri dal corpo di guardia e festeggiare Francesco II, come il capitano Senesi, garibaldino, aveva fatto per Vittorio Emanuele ed il Dittatore Garibaldi. Ogni tentativo di desistenza fu inutile, e alle minacce di fare un rogo di spine innanzi al l portone, il sindaco fece dire che non era egli la solo autorità del paese, e che bisognava chiamare il Giudice regio. Una parte accorse subito ad invitare il giudice Domenico Paradisi, che era ospite del Supplente Gaetano De Feo, ad uscire ed unirsi a loro. Ogni ripiego d parte della signora Armida De Feo per impedire l’uscita del Giudice fu inutile, e questi, tratto innanzi da molti, si presentò dal Sindaco, restando a letto il De Feo Gaetano infermo.

Il giudice Paradisi, discorrendo col Sindaco, osservò che tanto era avvenuto per le spavalderie e le provocazioni, e le imprudenza del Capitano Maglione, e infine risolsero di farsi alla finestra, e sedare quei tumultuanti, ma alle osservazioni di alcuni: "Si son mandati sussidi a Garibaldi dal Sindaco e dai galantuomini, e a noi il gusto una volta di bruciare i quadri!" e alle intimidazioni verso del Sindaco: "Se non ti cali ti sparo!", avuto il giudica assicurazione dalla folla che niuna offesa si sarebbe arrecata alla persona del Sindaco, si uscì, stretti in mezzo dalla moltitudine e dalla turba.

E siccome si passava dinanzi l’abitazione del cantore Bruno Cerulli, così anche questi coi fratelli e con un tal Giovanni Cestone che ivi aveva cercato ricovero, fu costretto ad uscire.

La folla si avviò alla strada Porta ov’era il corpo di guardia, ed ove erano altri popolani armati, e tumultuanti al grido di Francesco II, con capo il soldato borbonico sbandato Vincenzo Maglione Testone, per muovere in massa in cerca del nipote del capitano, Tartaglia Francesco, e lacerargli il berretto di guardia nazionale.

Quella tale Filippina Annunziata poi, vera furia, più si distingueva per gli evviva frenetici, e Luigi Capraro Panorra con qualche altro, facendo balenare lo stile e qualche baionetta sul viso del Sindaco e di altri, con le intimidazioni: "Chi viva?" obbligava a rispondere: Francesco II !

E la eccitazione per bruciare la effigie di re Vittorio e di Garibaldi intanto cresceva, perché alcuni contadini, con fasci di spine sulle spalle andavamo insinuando ora a questo ora a quello che alla distruzione dei quadri dovevano concorrere tutti i galantuomini.

La moltitudine, che voleva penetrare nel corpo di guardia, per impossessarsi dei quadri, fu respinta dal drappello, colà lasciato Capitano Maglione, onde con un grido generale: "Dal capitano, dal capitano" , la folla si diresse da lui.

Il Maglione, barricatosi in casa, fé sulle prime rispondervi non esservi, ma la turba incredula minacciò, se non uscisse, di appiccare il fuoco al portone e l’esempio non mancò a darsi dalle donne, Tonna Maoluccia (Angelantonia Gesmundo) ed Annantonia Maglione, conosciuta col nome della moglie del Si Lelio, e da altri rivoltosi. Il Sindaco nel veder la triste piega delle cose, tanto più che un tale Gaetano D’Errico stava con lo schioppo impugnato verso la finestra del Maglione pronto a scaricarlo, pel caso che costui si azzardasse a sparare, pregò le persone di famiglia del Capitano di farlo affacciare. E alle assicurazioni di Antonio Calabrese: "Scendi, compare, non temere, è mondo di pace, ti guarderemo le spalle!", il Maglione scese, e tra i soliti Evviva tutti si avviarono al corpo di guardia.

Il sacerdote Angelo D’Andrea, spettatore di una tal scena, scorto da alcuni rivoltosi su costretto anch’egli ad unirsi a loro, e nei pressi della chiesa parrocchiale, sotto pretesto di dover celebrare la messe, se la svignò; ma incontrati novellamente per via da altri rivoltosi, fu costretto a seguirli e a recarsi al corpo di guardia. Il segretario comunale Francesco Araneo Rossi, ripetutamente chiamato al Municipio, a nome del Sindaco e del Giudice, da tali Coppola e Tommasiello, armati di schioppo, obbedendo allo invito cedeva, e scortato da questi, si recava, sebbene più tardi, anch’egli nel medesimo posto. Lì innanzi al corpo di guardia, si cominciò novellamente a tumultuare per l’impossessamento e la distruzione dei quadri, anche con l’intervento degli altri galantuomini Gabriele ed Isidoro Stentalis; onde il Sindaco, a declinare ogni responsabilità, disse che occorreva lo intervento dei decurioni.

Un manipolo di rivoltosi quindi, col Sindaco e col giudice, si recarono a casa di Gabriele Stentalis, persona facoltosa ed autorevole del paese. Questi, che stava per uscire per avvisi ricevuti pochi istanti prima da Giuseppe Cerulli e dal nipote Isidoro di dover cedere alle pretese dei popolani per evitare guai maggiori non esitò ad unirsi a’ facinorosi, come si recarono a richiederlo; ed obbligato a gridare: viva Francesco II, venne anche rimproverato di aver finito di leggere giornali, di predicare per Vittorio e per Garibaldi, di agitarsi e di compiacersi della distruzione delle effigie borboniche. Le medesime persone si recarono successivamente dal Signor Isidoro Stentalis, momentaneamente assente, per essersi recato in casa del suocero Nicola Tartaglia e per metterlo in sullo avviso, data l’agitazione dei popolani, che ricorrevano anche a minaccia come oltre del Cerulli, avevagli riferito una tale Maria de Chiara. Invano la famiglia ne assicurava l’assenza, e si offriva di mandare persone di servizio per rintracciarlo; che quei rivoltosi, per tema che gli apportassero arme, le perquisivano e le trattenevano. In questo mentre che il figlio Francesco si offriva al Sindaco, al giudice, agli altri rivoltosi, che increduli andavano guardando fin nelle stanze, di andare a chiamare il padre, lo Stentalis Isidoro sopraggiunse e si affrettò a guadagnare le scale del suo palazzo. Trattenuto dai rivoltosi, e impedito a proseguire nel dubbio che andasse ad armarsi, ripiegando, si rivolse:

"Popolo, avete avuto male da me?"

E taluni:

"No, sempre del bene!"

E l’altro:

"Non avendo da me avuto male, neanche voi dovete farne a me!", e tra gli applausi e le grida di Evviva, lo Stentalis col figlio maggiore, e il più piccolo Michelino, che per abitudine e per ovunque seguiva il padre, si mosse per andare incontro al suo destino.

L’altro gentiluomo Nicola Tartaglia, che era fra i suoi e che era stato persuaso dallo Stentalis Isidoro a secondare l i popolani per non inasprire gli animi al primo appello si compose, e seguì i dimostranti.

Un’altra scorta di rivoltosi intanto aveva ricercato il tenente della guardia nazionale Angelo D’Annunzio e, con minaccia, costretto ad uscir di casa; aveva pure condotto Michele Cappa con sé: e non avendo potuto trar seco il cav. Domenicantonio Vitale per essersi di recente sgravata la moglie, aveagli imposto di accomodarsi al barba all’italiana, di consegnare un tamburo, che nella famiglia si conservava per essere stato io genitore Capo Urbano, e di far unire alla moltitudine il fratello Michele.

In una di queste scorte era il giovane Angelo Esposito Tocco, figlio naturale di un usciere che con un’aria tra il beffardo e lo scemo, nei giorni precedenti era stato inteso, avviandosi alla campagna, scandire una sua cantilena: "Viva Garibaldi, viva Vittorio, Viva Francesco che ci diè la libertà Santa dei genetrix, ora pro nobis!"; e nei giorni innanzi vostro mettersi alla testa di ragazzi, tra i quali l’attuale Arciprete Don Pietro e fratello Giangiacomo Giurazza, ed eseguire dei volteggi militari, e nelle prime ore del 21 inteso redarguire i rivoltosi: "Non vogliono uscire i galantuomini, fate i magliatelli!"; di guisa che da molti si ritenne in seguito essere a parte del piano degli avvenimenti.

Strappati alle famiglie da rivoltosi i maggiorenti del paese, radunateli innanzi al Corpo di guardia, si cominciò con maggiore accanimento a pretendere di doversi bruciare i quadri e lo stemma dagli stessi galantuomini. All’orrore di quella proposta, non si mancò di far comprendere la gravità della cosa; ma i più accaniti insistevano, strappavano dai cappelli le coccarde tricolori, e si facevano ad agglomerare spine per farne una catasta nel vicino larghetto, mentre una donna vi apportava della paglia, e tra le esecrazioni, gli urli, le minacce, i clamori, i tumulti e le rampogne di uomini di donne, vere furie di Averno, fu spinto il Capitano Maglione a far cadere lo stemma; e caduto, ridotto in mille pezzi, furono astretti il Sindaco, il giudice, e lo Stentalis Isidoro a rimuovere i quadri ed a portarli sul rogo.

Dileggi ed umiliazioni ben gravi toccavano allo Isidoro Stentalis, perché, portando un quadro sul rogo, un miserabile, Donato Achille Esposito, si faceva a tirargli i baffi dal mento e ad imporgli di metter fuoco, respingendo al Filippina Annunziata, la quale erasi fatta innanzi con un fiammifero, gridando: "Oggi la carne deve andare a tre grana il rotolo!" donna trasformata in jena, e con poche altre, vera avanguardia della sommossa.

Mentre questa tregenda avveniva intorno al rogo, molti rivoltosi notarono la mancanza di alcuni preti, e si obbligò il sacerdote D’Andrea a chiamare il parroco. Il D’Andrea, per tema di danni, lungo la via, avvisò i preti D’Errico e Giurazza Col nipote Annibale presso d tal Ruccia, e insieme si recarono innanzi al corpo di guardia. Altri rivoltosi intanto avevano tratto di casa Giambattista Coscia, scovato il decurione Donato Tartaglia che si era rifugiato in una vigna, e rintracciato i guardaboschi Danese e Giammatteo, ascosi in una vicina fornace, e menati innanzi al corpo di guardia. Non era ancor spenta l’ultima fiamma dei quadri, che i rivoltosi cominciarono a pretendere il ritratto di Francesco II dal segretario comunale Araneo per cantare il Te deum, come si era fatto per Garibaldi; ma alle osservazioni di essersi distrutto si andò a rintracciarne taluni dal barbiere Scapicchio, che sino a giorni innanzi li aveva tenuti esposi nel salone. Presi e portati in trionfo, a coro si gridò: "A chiesa, a cantare il Te deum". I quadri raffiguravano Francesco II e Maria Sofia, e messili in cornice ci avviarono i rivoltosi ed i preti, per la strada Porta alla chiesa; e fra le discussioni, se cantarsi il Te deum in chiesa o al Largo Croce, prevalse la opinione dello Stentalis di doversi ringraziare il Signore a casa sua, e si celebrarne a maggior gloria la messa.

Il destino li traeva inconsapevolmente alla rovina di se stessi, perché, innanzi la chiesa i più concitati disposero di farvi entrare i soli preti e galantuomini, mentre la popolazione doveva restarsene fuori.

"Oh! Che vi è qualche mina, che non volete entrare?", meravigliato cogli altri osservò Isidoro Stentalis.

"No - biecamente, osservò Giuseppe Tartaglia, li soli galantuomini, e noi fuori!".

Fu forza cedere alla violenza, ed all’invito al popolo del prete D’Errico, vestito di cotta e mozzetta, di assistere alla celebrazione della messa, tal Calabrese Faccianeura:

"E’ questa la messa delle anime del Purgatorio: statevi voi e i galantuomini: noi ce ne stiamo fuori!". Orribili parole, che parvero ancora di colore oscuro!

Durante le funzioni intanto avveniva uno sparo di mortaretto, e alcuni rivoltosi, uniti in un conciliabolo discutevano, se all’uscita della Chiesa conveniva ligare con funi i galantuomini e portarli nel largo della Croce; e dalla bottega di Gaetano di Benedetto tolto a forza un mazzo di funi, e datone un tratto ad Angelo Arminio, per sospendervi sul davanti il tamburo, si stava in tale attesa quando Vito Ragionato, mutando avviso, osservò ch’era meglio perquisirli tutti per assicurarsi se asportassero armi, per poscia condurli in giro pel paese.

Un tale Angelo Maria di Prenda, presente a tali discorsi, corse ad avvisarne il suo padrone Nicola Tartaglia, che se ne mostrò sgomento, e ne avvisò lo Isidoro Stentalis, ma questi lo calmò dicendo che il popolo di Carbonara era corrivo alle grida; né si scosse quando un suo familiare penetrò in chiesa ad avvisarlo delle cattive disposizioni della moltitudine, tanto che per poter penetrare in chiesa, era stato anche perquisito; al che anzi egli soggiunse che il popolo aveva avuto già il suo sfogo.

Terminate le funzioni, lo sbandato Vincenzo Maglione Testone, di sentinella alla porta della chiesa prima fé uscire i preti, quindi i galantuomini che diligenziava ad uno ad uno per accertarsi se avessero arme addosso, e poscia ordinò il corteo per muovere in processione coi quadri di Francesco II, di Cristina e Maria Sofia, per le solite vie, use a percorrersi nei giorni di festività, cioè per strada Porta, strada Castello, dietro le ripe e così via!

Suonava il tamburo, e , al rullo una marmaglia assordava colle voci di evviva. Innanzi alle carceri, il Maglione propose di vuotarle dei detenuti, e già taluni rivoltosi eransi avviati, quando alle conseguenze esposte dal giudice e da Isidoro Stentalis, il Maglione mutò parere, e revocò le disposizioni date. Questo intermezzo produsse un po’ di sosta, anche perché si doveva attendere Francesco Di Prenda che suonava il tamburo, mentre tra due contadini, Vito Gala e Nicola Petulli, alcuni coglievano le parole di questo dialogo:

"Oggi devono essere tolti di mezzo i galantuomini"

"No, tutti per Dio!", rispondeva l’altro. E la processione intanto era giunta nella via Castello, presso le Ripe, dietro cui per avvallamento di terreno, si disegna un profondo burrone, quando cominciossi a verificare una scena di terrore.

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III

LA STRAGE

Ad una voce che disse:" Ancora costui porta il cappello in testa!" si vide Antonio Maria Calabrese vibrare la cancelliere Comunale vibrare un colpo di ronga, e mentre il misero grondante sangue, voleva salvarsi con la fuga, altri rivoltosi con scuri e mazze, aizzati da Filippina Annunziata, che gridava di doversi estirpare il mal seme, lo finirono.

E già tal Giambattista Coscia era prossimo alle Ripe, quando lo stesso Calabrese, fendendo l’onda popolare, ed urtandola, si fé a dargli sul capo un colpo di ronga, ed altri, seguendone l’esempio, fecero si che, girando su se stesso, cadesse, e ritenuto morto, fu lasciato a terra, finché alcuni pietosi lo portarono in casa, sopravvivendo per miracolo alle ferite innumerevoli riportate.

Mentre ciò avveniva, un altra voce più in là gridò: "Siamo alle ripe!" e subito Vincenzo Ramundo Carletta ecco scagliarsi a colpi di scure su Gabriele Stentalis, e il suo esempio essere seguito da altri, e anche da una donna, che già esanime lo Stentalis, ne volle oltraggiare con colpi e con parole il cadavere.

"Quasi nel medesimo tempo - narrava il teste Giuseppe Cerulli - udii un forte rumore come di colpo di mazza inferto a qualcuno a me vicino ed udii la voce di mio zio Don Nicola Tartaglia che diceva: Io non vi ho fatto male! Mi volsi e vidi che mentre Pietro de Martino fu Innocenzo, il quale era alle spalle del Tartaglia, gli vibrò un colpo di mazza nel capo, Mastro Michele di Lorenzo gli assestò anche un colpo di accetta alla parte diritta del collo, per effetto dei quali colpi esso mio zio Don Nicola cadde a terra. Ed allora lanciatosi Mastro Gaetano di Lorenzo, con un lungo coltello si diè a ferirlo in testa, e quindi molti altri, che non distinsi, se gli fecero pur sopra a dargli con scuri e mazze."

E fra la cantina di Rocco Tartaglia ed il principio de l’altra di Raffaela De Feo cessò di vivere. Il rivoltoso Romualdo Carletta, spacciatosi di questi due, corse ad inseguire Donato Tartaglia Quattropettole, e raggiuntolo a colpi di scure, con altri lo spense, mentre Serafina Panno a colpi di zappello ne seviziava il cadavere.

Si agitava intanto la folla come un mare in tempesta, quando il capitano Maglione si diè a precipitosa fuga per raggiungere la parte inferiore della Ripe, ma venne raggiunto e circondato da alcuni rivoltosi e sbandati, e colpito. Il Maglione pur intriso di sangue, si spinse a corsa più precipitosa, non ostante un’archibugiata di un Pasquale Marenga lo avesse colpito alla spalla destra.

Soffermatosi un momento, come se sfinito di forze, un’altra fucilata di Vincenzo Maglione Testone lo fé cadere e mentre altri con colpi di scure lo finivano, una Rosa Scellarotta fu Domenico volle dargli il colpo di grazia. E pulita la scure intrisa di sangue negli abiti dell’infelice, si diè ad eccitare i rivoltosi a più efferati atti di sterminio.

Il Michele Cappa, che intorno a se vedeva tanta strage, e gente che nel sangue si abbeverava e gavazzava, al cantore Bruno Cerulli, che gli era accanto gridò: "Fuggiamo!" . e si avviò per una delle vie, che gira a piè della casa Tartaglia, ora adibita a Caserma dei reali Carabinieri; e a tal Michelangelo d’Andrea Porcaro, fattogli innanzi, chiese pietà della vita, ma si ebbe in risposta un colpo di mazza sul capo. Sanguinante il Cappa, si avviò per un viottolo, che immette in alcuni orti, ma lo sbandato Lombardi Michele con un colpo di fucile lo distese a terra, mentre una jena, una Serafina Panno, con un colpo di scure ne affrettò gli ultimi aneliti. Non sazio il Lombardi ancora, ne trascinò per i piedi il cadavere sin nelle attigue Ripe, precipitandolo nei sottostanti burroni.

Ai primi atti di ferocia Angelo D’Annunzio comprese il pericolo, e si diè a fuggire per riparare nel borgo S.Pietro. Inseguito riparò in casa di Angela De Vito; ma i rivoltosi, innanzi la porta, imposero di aprirla né il D’Annunzio poté precipitarsi dalla finestra sporgente su di un burrone. Chiese mercé della vita ad un tal Castuccio Galeota per avergli tenuto un figlio al fonte battesimale; ma alla risposta: "oggi non ci sono San Giovanni! Dategli!" tutti gli furono addosso a colpi di mazza e di baionetta. Cercò di fuggire ma sotto la grandine dei colpi, il D’Annunzio cadde, e un Pietro Di Prenda gli conficcò la baionetta nell’ano. Lo Stentalis Isidoro, vista la ferocia dei rivoltosi contro lo zio Gabriele, e la impossibilità a soccorrerlo, tolto sul braccio il figliuolo Michelino, si diè a fuggire in giù per la via delle Ripe. La folla intanto tumultuava , e ne partivano fremiti d’ira, e orribili voci di vendetta: "quattro dobbiamo farne! Correte in giù! Più sotto a voi! Salvate il sacro! Salvate l’Arciprete".

Era la caccia ai galantuomini del paese, impresa, e che doveva rapidamente finirsi. Lo Stentalis era giunto alla casa isolata di Daniele di Benedetto, quando gli fu esploso dietro un colpo di fucile, che nol raggiunse. Cercò di proseguire per riparare alle spalle di questa casa per un viottolo, soprastante al burrone; e s’incontrò ivi con l’accolito Francesco Maria Ruccia e il sacerdote D’Errico, che pur fuggivano l’ira dei popolani. Ma mentre stavano allineati e quasi ascosi dietro al muro, delle voci a gridare: "Eccoli qua!", e da un vicino mondezzaio sentirsi contemporaneamente esplodere un colpo d’archibugio, al loro indirizza, i cui proiettili sfiorarono appena la cute del Ruccia.

Il D’Errico, saltando siepi e dirupi si salvò, il Ruccia cercò di seguire lo esempio, scendendo nel burrone, ma dopo inutili sforzi dovè tornare, e vide lo Stentalis implorare pietà da alcuni, che contro gli scagliavan sassi con violenza. Lo Stentalis vistosi a mal partito, ad un tratto, volte le spalle, cercò per la china opposta raggiungere un vicino larghetto, ov’era più facile salvarsi, ma i rivoltosi lo prevennero perché all’angolo della casa fu preso di mira da altra a archibugiata, ma da cui però non fu colto, perché fu visto ancora in piedi chiedere grazia e pietà.

Il Ruccia intanto, seguendo la via opposta, percorsa prima dallo Stentalis, aveva trovato scampo.

Ma non un sentimento gentile albergava in quegl’inumani; che un Giuseppe Tartaglia prima con un sasso colpì lo Stentalis al capo, poscia avventatosigli addosso, con un colpo di scure al collo, lo fé stramazzare al suolo, e sopraggiungendo Luigi Capraro Panorra, volle conficcagli un coltello nel fianco, mentre un Nicola Iavarone a colpi di scure si diè a sfogare sul cadavere la sua ferocia.

Intanto il figlioletto Michelino, sia che nella fuga fosse caduto, sia che sul lembo della rupe dalla folla fosse stato spinto, col sangue in fronte, cercava di arrampicarsi alla siepe di un orto per guadagnar la via Ripa, in ciò coadiuvato dallo sbandato Donatantonio Mesce, che per non essere visto dagli altri rivoltosi, lo affidò ad Amato Famiglietti, per nasconderlo e sottrarlo all’ira popolare. Questi pensò meglio di farlo appiattare in un fabbricato diruto, e, covertolo di foglie e di un pastrano, gli raccomandò di tacere fino a che a tarda sera sarebbe andato a rivelarlo; ma dovendo recarsi in campagna, confidava a Teresa Germano l’occorso, sperando al ritorno trovarlo ivi e farne avviso alla famiglia per mandarlo e rilevare.

Ma una scena selvaggia offrivasi pochi istanti dopo agli occhi della Germano. Si avvicinava a quei ruderi, ove si nascondeva il fanciullo, Nicola di Napoli il Calitranello; e ivi fermatosi, dava tre colpi di scure, e prese pel piede il fanciullo lo precipitò nel burrone, proseguendo indifferente per la sottostante via.

Tenue fiorellino di campo abbattuto dal turbine distruttore, angioletto intelligente, candido e vispo, avvinto di tenero affetto al padre, perché orbo di madre da pochi anni innanzi, il Michelino, travolto da quell’orda briaca nella fiumana di sangue, resta pel caso pietoso, nella memoria dei superstiti!

E sopravvisse invece il fratello Francescantonio che allora quindicenne fu nascosto dal prete Giuseppe Di Benedetto in una sua vigna, e quindi fatto riparare a Melfi. E tutti coloro che nella fuga non ebbero ad incontrare rivoltosi, si salvarono; chi in un vigneto, chi in casa di parenti o di amici, che, senza posa e tregua riparando in paesi contigui.

Il giudice Paradisi , pallido, implorante la vita, semivivo pel terrore, fu condotto a casa De Feo, ed ivi sottoposto a salasso, egli, che per indolenza e debolezza ed anche per colpevole imprevidenza, era stato causa incosciente di quel triste avvenimento.

La suggestione reciproca, il contagio per un’idea malefica, nata in un ambiente inquinato, esagerata dalle condizioni sociali, politiche e morali del momento, insinuata da pochi a soddisfazione del proprio egoismo e dei personali interessi, diffusa, rinvigorita, aveva messo a galla gl’istinti più pravi, e, fra una folla in tumulto generato conseguenze gravissime.

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IV

LE GIORNATE DEL TERRORE

La caccia al galantuomo non si arrestò così subito, come parrebbe, dopo tanto sangue versato, perché ancora qualche altro designato era sfuggito all’ira e alla vendetta, e perché, come si ebbe a sapere per qualche esclamazione posteriore e fremito represso, la lista dei proscritti era, secondo alcuni di ventisei, secondo altri di diciotto.

Il Sindaco Giacomo Giurazzi fuggì, e invece di recarsi in casa sua, ove facilmente sarebbe stato rintracciato e trucidato, si rifugiò nella famiglia Cerulli, donde la notte riparò presso alcuni parenti di Calitri.

E’ invero la folla briaca, andò perquisendo più di qualche casa amica, arrestandosi solo alle bugie di qualche interessato, che disse averlo incontrato per la via che mena a Bisaccia.

Tal Francesco Tartaglia, scovato nell’abitazione di Daniele Benedetto, fu dal rivoltoso Michele Lombardi condotto a casa, con promessa di vita, ma nello stesso dì 21 ottobre, venne ricercato da Vincenzo Maglione per essere ucciso, e, non rintracciato, ebbe salva la vita. La zia Maria Giuseppa Tartaglia, alla nuova della morte del marito, il capitano Maglione, si mosse per rivederlo, ma da un rivoltoso si ebbe un colpo di stilo, che sviò colpendola al busto. Rovesciata per la violenza del colpo, rialzatasi, ebbe salva la vita, promettendo la consegna degli schioppi, che teneva nascosti.

Appena avvenuto l’omicidio del cancelliere Araneo Rossi, alcuni rivoltosi per scusarsi di aver fatto quella strage di galantuomini, tolsero a pretesto di essersi a tanto spinti per una fucilata sparata nella folla da donna Francesca Tartaglia: circostanza affatto inesistente e inverisimile pel modo e pel luogo, ove l’eccidio dell’infelice Araneo avvenne.

E un Angelo di Benedetto Nardone si fece con altri a penetrare nel palazzo Stentalis, ove, raccolte, le vedove piangevano sulla sorte dei mariti, e percossa la signora Donna Francesca Tartaglia, la voleva trascinare fuori per ammazzarla e farne scempio. Ed avrebbero effettuato lo infame disegno, se alle grida innanzi al palazzo De Feo, per lo intervento del giudice Paradisi e di donna Armida De Feo, non si fosse ottenuto di farla rinchiudere nel carcere: e liberata dopo due giorni, gli sbandati Maglione e Ragionato non ristavano dalle minacce, se non avesse mandato ad essi la somma di ducati cento.

La signora Francesca Rollo, dopo la sventura fu raccolta col figlioletto Vito in casa Cerulli, ma una tale Raffaela Petullo colse pretesto da quell’assenza per andar insinuando che era stata la Rollo ad esplodere la prima fucilata contro lo Araneo, donde la causa di tanti eccidi. E faceva minacce, e diceva di voler concorrere alla strage per sfogare una sua vendetta, ella che veniva da qualche altra rimproverata di pagare in tal modo i benefizi ricevuti.

In casa De Feo il rivoltoso Michele Lombardi, vantando di essere stato egli a far risparmiare la vita a Gaetano De Feo, gli imponeva, in segno di gratitudine, di baciargli la mano; e umiliato, a quanto si disse, il De Feo aveva dovuto baciargliela.

I rivoltosi intanto si assunsero la direzione della cosa pubblica.

Si recarono al corpo di guardia e imposero alle guardie di non muoversi sino a quando non vi si fossero essi recati, ed a sera, tratti con loro i due inservienti comunali, fecero pubblicare questo bando:

"Per la festa di Sua Maestà Francesco II, che Iddio guardi, tutti cacciassero i lumi alle finestre. In nome di Francesco II, nessuno domani esca fuori, pena la vita."

Col doppio intento di non far subito apprendere a’ vicini paese l’avvenuta rivolta, e di aver tempo a munirsi di schioppi per un eventuale arrivo di truppa.

Nel mattino del Lunedì ricercarono Don Giuseppe Cerulli per eligerlo Capo Urbano; ma il cantore Don Bruno, zio dello stesso , pregò rinviarsi la cosa all’indomani.

Si arrogarono il diritto di aprire in pubblica piazza il corriere postale, e ne fecero pubblicamente leggere la corrispondenza dal giudice Paradisi, cui imposero far rapporto alle autorità, che quanto era avvenuto era stato occasionato per la fucilata, sparata contro lo Araneo, in mezzo al popolo, il quale indignato, era perciò trascorso a quegli eccessi.

Divulgando che Francesco era rientrato in Napoli, ritornarono nel martedì sulla pretesa elezione del capo-Urbano che questa volta fecero ricadere su Michele Cerulli, conducendolo da casa al corpo di guardia, come segno di possesso. Tratto fuori pure Donato D’Errico, e condotto al corpo di guardia, sotto pretesto della restaurazione del regime Borbonico, lo proclamarono Sindaco; e fu in tale occasione che si poté ottenere la liberazione dal carcere della Signora Donna Francesca Tartaglia.

Intanto sotto pretesto di mantenere l’ordine pubblico, i rivoltosi percorrevano, a pattuglie armate le vie del paese, spadroneggiando, saccheggiando e minacciando: terribile stato anarchico, che durò sino al giovedì 25 ottobre 1860.

Sotto l’abitazione del capitano Maglione, ove la vedova stavasene piangendo, esplosero quattro archibugiate alla signora Raffaella De Feo, or con la promessa di garantirne la vita, or con le minacce, e spillarono del denaro; ed altro danaro chiesero ed ottennero dalle vedove degli uccisi Araneo Rossi, Maglione, e Donato Tartaglia, per permettere la sepoltura de’ cadaveri che, insepolti, giacevano sul fondo della valle. Ancora lordi del sangue sparso, quei rivoltosi si diedero senza pietà al saccheggio; e la prima casa, presa di mira, fu quella di Gabriele Stentalis, dove senza pietà si scassinarono armadi, scrigni, ognuno riportando oggetti. Poscia fu invasa la cantina, e circa duecento popolani, mangiando, bevendo, rovistando riuscirono, da sotto una botte, a prendere un tesoretto, non indifferente, tra oro e argento, di circa 18 mila ducati.

Si andò successivamente nella casa di Isidoro Stentalis, ove le donne erano raccolte, e alla nuova del saccheggio si chiusero nelle soffitte. Qui rintracciate, dovettero dare munizioni e polvere, ed assistere allo scempio, che si andava facendo degli armadi; e delle carte che furono bruciate, e di cui alcune salvate appena e conservate da tal gaetano Maglione.

Il saccheggio proseguì nella casa di Don Nicola Tartaglia negli stessi modi, bruciando titoli creditori, scassinando bauli, rubando valori, biacherie; e fu ivi che un tal Gaetano di Lorenzo prese il berretto di guardia di onore, e il Michele la sciabola del defunto.

Il saccheggio, la distruzione dei titoli di credito, la violenza, il furto seguirono imperterriti successivamente nelle abitazioni di Giambattista Coscia e Emanuela Tedeschi, nella casa del Sindaco Giacomo Giurazzi, dove non fu risparmiato neanche il repertorio originale degli atti notarili, nella casa del capitano Maglione, dove si presero munizioni ed armi, nella casa dell’ucciso Araneo Rossi, del decurione Vitale De Vito, dell’ucciso Angelo d’Annunzio, donde asportarono giberne ed armi, sotto pretesto di mantenere l’ordine nel paese, infine del Dottor Pietro Giurazzi cui bruciarono tutti i titoli creditori, siccome era uso fare accredenziamenti e piccoli mutui.

E durava questo stato di angoscia, tutti raccolti nelle proprie case, guardinghi, parecchi in casa Cerulli, la giovanissima Signora Donna Isabella Tartaglia nella famiglia di Don Gaetano De Feo, dove per le affettuose premure di Donna Armida De Feo, dopo il saccheggio, per mezzo di persone devote, era stata condotta, tra lo smarrimento di quanto le avveniva dintorno, allorché cominciò ad aversi lontano sentore di truppe, che si dirigevano verso Carbonara. A Melfi, a Calitri, a Bisaccia, a Lacedonia erano corse già le voci dell’accaduto, e parenti ed amici agognavano vendicare il sangue versato dai loro cari, tanto più che quel movimento reazionario era attribuito ai retrivi del tempo Arciprete Giurazza, al supplente Gaetano De Feo, al giudice regio, onde contro di questi doveva esplicarsi l’ira e la vendetta sociale.

Il che fu ben compreso dal supplente Gaetano De Feo, che accertato la sera del giovedì 25, essere la truppa in marcia, al mattino dell’indomani risolse trovar ricovero presso alcuni suoi parenti di Atella.

L’arrivo della colonna mobile, comandata dal Moccia, e l’ordine di mettere in istato di assedio il paese, diedero la calma agli animi, invasi per più giorni da terrore.

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V

LE CAUSE

Fin dalle prime nuove dello sbarco in Sicilia del generale Garibaldi il popolo di Carbonara cominciò a mostrarsi poco favorevole al novello regime, tanto che alcune guardie borboniche, divenute guardie nazionali, si ostinavano a non cambiare la coccarda rossa in quella tricolore e ritenevano un fedifrago il capitano Maglione, che da borbonico era diventato fervente propugnatore della causa nazionale.

Era il tempo della distribuzione delle tessere per la formazione del plebiscito di adesione al nuovo governo, quando l’avversione di quel popolo si dimostrò col respingere agl’inservienti comunali, con dispregio e disdegno, quelle tessere, dicendo la più parte di donne e di uomini che da loro non si voleva mai cambiare il loro re Francesco II . Il capitano Senesi di Oliveto della Colonna Garibaldina, che nel settembre 1860 erasi recato a Carbonara, e fra i galantuomini liberali aveva distrutto quadri e statue Borboniche, non aveva fatto che eccitare gli animi, invece di portare la conciliazione e la pace.

L’Arciprete Giurazza interrogato, aveva più volte in pubblico ed in chiesa, detto che s’incorreva nella scomunica, votando per Vittorio Emanuele; e gli sbandati del disciolto esercito borbonico con la loro divisa, che mostravano per le vie, mantenevano desto il sentimento per la caduta signoria.

Il commercio, che alcuni gentiluomini facevano alle notizie, che recava Il Nomade, giornale moderato del tempo, il silenzio del clero in fatto di tanta importanza per non urtare la volontà popolare e per tema di rifiuto di pagamento delle decime da parte dei contadini, il sentimento manifestamente retrivo di alcuni gentiluomini, quali il De Feo, il vecchio sacerdote Lotrecchiano, il giudice Paradisi, che rimproverava i suoi dipendenti se mostravano tendenze nuove, l’inneggiare dai liberali al governo dittatoriale assunto da Garibaldi nel nome di Re Vittorio Emanuele, fecero si che i contadini nelle nuove forme di governo vedessero i nuovi segni e vestigi del duro trattamento e del disprezzo, in che sarebbero stati tenuti da galantuomini, e s’incaponissero ad avversare l’attuazione del nuovo regime quando pochi giorni innanzi del 21 ottobre si andava ad essi distribuendo la tessera per la formazione del plebiscito.

A questo sentimento politico, che non di rado era manifestato con parole di vendetta, come causa prima, altre se ne aggiungevano pel moto reazionario.

Come in casa De Feo era la riunione dei retrivi, nella casa di Don Nicola Tartaglia era il convegno dei liberali, gli Stentalis e qualche altro: erano due partiti, l’un contro l’altro armati, anche per odi personali e privati interessi.

Si disse, ma il fatto non trovò conferma, che il De Feo odiasse Isidoro Stentalis, perché il Gabriele nella formazione del testamento lo aveva preferito, istituendo eredi i figli di lui, quindi il desiderio della distruzione del testamento e della premorienza die figli d’Isidoro Stentalis a lui, al quale intento aveva anche mandato in Andretta una persona per trovarvi un sicario al prezzo di ducati mille : ben vero eranvi dissensi tra l’Arciprete Giurazza e il Tartaglia Nicola per una lite vertente pel diniego degli avventizi al canonico Tartaglia, e altra lite agitavasi tra il De Feo e Stentalis Isidoro per un legato: lo spirito pubblico toglieva da ciò cattivo esempio, e i contadini, sapendo di avere dal lato loro altri galantuomini, anelavano spingersi ad eccessi.

Fra le altre cause, l’usura verso i contadini, onde la distruzione dei titoli; il libertinaggio di qualcuno, la occasione di mettersi in possesso degli antichi usi civici, di cui si riteneva che i titoli si conservassero nell’archivio comunale, e si tenessero celati al popolo , rendevano inevitabile uno stato anormale di cose. Le false voci, che ad arte andavansi spargendo nella folla, che Isidoro Stentalis avesse voluto disfarsi del popolaccio con una mina sotto la chiesa, ed altre simili fandonie, come lo arresto del generale Garibaldi da parte di Gaetano Zampaglione, capitano della gendarmeria borbonica del tempo, lo arrivo del generale Bosco con le truppe borboniche nella tenuta del Formicoso, lo sperpero del danaro della cassa comunale che i galantuomini facevano, inviando sussidi a Garibaldi, lusingavano i malvagi, alimentavano la speranza di torbidi, ingrossavano gli animi, a segno che, nel momento del plebiscito, il popolo si trovò restio alla proclamazione del nuovo re, e invece in men di una notte fu organizzato il piano della strage, con ritenersi esecutori materiali i soldati sbandati, autori morali, il Giudice Paradisi, l’Arciprete Giurazza, il vecchio prete Francesco Lotrecchiano, il supplente Don Gaetano De Feo.

Tale accusa prendeva, fra l’altro, consistenza dal fatto che un rivoltoso, innanzi alla casa d i de Feo, aveva esclamato di fronte agli altri:

"Quieti, per Dio! Quattro case devono rispettarsi: questa di De Feo, e quella di Donna Raffaella De Feo, quella di Vitale, e quella di Cerulli!"

e solo una istruzione giudiziaria, analitica, poté dimostrare la innocenza loro, la incapacità a tante iniquità, e snebbiare l’accusa che avrebbe per infamia pesato sulle loro generazioni.

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VI

IL POTERE MILITARE E L’ACCUSA PUBBLICA E PRIVATA

 

"Impegnatissima qual sono - diceva il 13 dicembre 1860 al giudice Istruttore la giovanissima e appena ventenne signora Donna Isabella Tartaglia - alla scoverta di tutti gli orrendi fatti del 21 ottobre, in cui mi ebbi ucciso un marito, un padre, uno zio, un figliastro, non che saccheggiato il palazzo, come ricevo qualche notizia mi fo sollecita ad esporla alla giustizia".

E fu fiera, implacabile persecutrice di coloro che le distrussero la famiglia, che le dilapidarono il patrimonio, che le spezzarono gli affetti più sacri.

La truppa fin dal 26 ottobre era entrata nel paese, salutata dal clero e preceduta dal Santissimo, e da tutti gl’individui rimasti, con in mano un ramoscello d’olivo, e al grido di viva Vittorio Emanuele. Lo stato d’assedio veniva dichiarato, e gli arresti dei colpevoli si seguivano rapidamente , e in meno che si dice furono assicurati alla giustizia circa 122 colpevoli con 19 donne.

La caccia data ai latitanti e lo arresto del giudice Regio compì il resto dell’opera.

Il giudice istruttore De Simone, dopo mille tergiversazioni, si decise nel mattino del 29 a riferire al Procuratore Generale della Gran Corte Criminale di Avellino che si era recato a Carbonara per la importante istruzione.

Ma mentre la istruzione procedeva, i detenuti non si passavano al potere giudiziario dall’autorità militare, la quale aspettava d’ora in ora disposizioni per mettere in atto misure energiche ed esemplari; e solo quando il Governatore scrisse che: "i rei per l’attentato della reazione di Carbonara dovevan essere messi alla dipendenza del potere giudiziario, non essendo il caso di attuare il consiglio di guerra subitaneo, per essere i fatti avvenuti anteriormente alla risoluzione emessa di ristabilirsi le commissioni militari" la istruzione ebbe il suo corso libero e d indipendente.

Le perquisizioni domiciliari, gl’interrogatori, le prove testimoniali, i confronti si seguirono con calma e con risultati positivi.

Appena per due cadaveri si procedé a regolare descrizione ed autopsia, perché gli altri erano in putrefazione avanzata, irriconoscibili, e appena fu, per alcuni segni potuto identificare quello di Gabriele Stentalis.

Nel 18 Novembre 1861, dietro requisitoria del procuratore Generale Magaldi, la Gran Corte Criminale di Avellino legittimava lo arresto di ben sessantotto individui, ordinava spedirsi mandato di arresto contro altre sedici persone e aprirsi rubrica contro cinque popolani, e ne proscioglieva ben altri settantasei, tra i quali il Don Gaetano De Feo, il Giudice Paradisi, Don Francesco Lotrecchiano, e Don Pietro , Giuseppe e Annibale Giurazza, dichiarando estinta l’azione penale per molti altri, morti nelle carceri, tra i quali i due tristi protagonisti Nicola di Napoli e Vincenzo Maglione, che in quei di terrore si faceva chiamare Generale Bosco.

Così la giustizia umana e la divina procedevano per diverse vie alla epurazione della società di elementi così perversi, e feroci perturbatori dell’ordine sociale.

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 VII

IL BRIGANTAGGIO E IL SACCHEGGIO

Ma ben più dure prove era in questo frattempo esposto il comune di Carbonara.

La istruttoria procedeva, e si era verso il 28 aprile 1861, quando nuovi torbidi nei comuni di Calitri, di Carbonara e di S. Andrea di Conza rendevano possibile la ripetizione di strage e di saccheggi per la notizia di arrivo della banda reazionaria di Donatelli Crocco.

A Carbonara, per la via di Lacedonia e per la via di S. Angelo dei Lombardi, si erano congiunti appena un paio di centinaia di uomini di truppa, quando veramente la banda Donatelli nel mattino del 19 penetrò in Monteverde, liberò il barone Sangermano , ch’era in istato di arresto per una bandiera bianca presso di lui sorpresa, saccheggiò la casa del Sindaco.

Mostrandosi la popolazione di Carbonara procliva ad insorgere e a far causa comune coi briganti, i buoni cercarono di fuggire alla volta di Bisaccia. Il giudica istruttore e il cancelliere si affrettarono a salvare la processura della reazione; signori e signore fuggirono, e Donna Isabella Tartaglia, trovò riparo col fratello Vito e la madrigna Francesca Rollo presso i parenti di colà; ma anche ivi l’attendevano disillusioni e dispiaceri, perché, nel tragitto o altrove, nella valigia ove erano le sue gioie, e le argenterie, salavate alla rapacità dei reazionari ladri del passato ottobre, non fu trovata dopo due giorni che ben miserevole cosa.

La truppa, lasciando intanto pochi individui a guardia del bagaglio, mosse allo incontro della banda Donatelli per la via dell’Ofanto e si divise in due colonne, per raggiungere a Monteverde e ivi cogliere nel mezzo l’orda brigantesca; ma questa nel vedere siffatta divisione, si distese, accerchiò una delle due colonne impegnando con essa un vivo combattimento, riuscendo alle ore 16 del 20 aprile, a penetrare in Carbonara, uccidendo uno degli undici del presidio a guardia del bagaglio, seviziandone un altro, facendone prigioniero un terzo, mentre i restanti si salvarono con la fuga; e impossessandosi del bagaglio, abbattendo gli stemmi reali, inalberando le bandiere bianche, taglieggiando, saccheggiando, al grido di viva Francesco II, escarcerò i detenuti.

Intanto questa mancanza del bagaglio, al ritorno delle nuove truppe, l’indomani, generò il sacco nel paese, e la casa comunale, che fu risparmiata dal Donatelli, fu invece scassinata, e rotti gli scaffali, furono asportati via fucili e reperti di valore dai soldati e dalla guardia nazionale di Ariano, mobilizzata al comando del maggiore De Marco.

Nel riprendere la istruzione, prima cura fu di far rientrare nel carcere i liberati dall’orda Donatelliana, tra i quali era il sacerdote Lotrecchiano, che si presentò spontaneamente insieme ad altri sei, mentre altri due latitanti furono assicurati dalla guardia nazionale.

La istruzione, altra volta interrotta, per lo agitarsi di taluni sbandati con moti reazionari nei boschi di Castiglione e di Monticchio, e per cui il giudice Istruttore De Simone , dietro speciale delegazione dell’autorità politica del circondario, dové recarsi a Calitri, ebbe finalmente il suo termine nel dì 2 dicembre 1861 con il rinvio di ben cinquantotto imputati a giudizio.

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VIII

IL GIUDIZIO E LA ESPIAZIONE

Il giudizio cominciò innanzi alla assisi di Avellino il 14 settembre 1863 ed ebbe termine il 5 ottobre dello stesso anno.

Sedevano sulla scranna dei rei ben cinquantasei giudicabili, per esser morti altri due, sotto l’accusa di attentato avendo oggetto a suscitare la guerra civile, di strage e di danno di una classe di persone, di saccheggio, di omicidi premeditati, di asportazione di arme vietate.

Nella udienza del 17 settembre la signora Donna Isabella Tartaglia non mancò di presentarsi alla corte e di chiedere una punizione esemplare, ripetendo e ribadendo i suoi convincimenti sugli autori morali e materiali della strage, confortati dalle deposizioni di donna Francesca Rollo, e di donna Giuseppina Tartaglia, l’una defunta, l’altra inferma.

Nella udienza del 24 non si mancò dalla difesa di accampare la bugia dei rivoltosi di essere stata la signora Rollo a colpire con una fucilata lo Araneo Rossi, per vederla ripetere da una compiacente testimone, certa Teresa Tetto; ma la Corte respinse la insana domanda.

L’accusa pubblica, sostenuta dal sostituto procuratore generale Vincenzo Clausi, colpì la maggior parte degli imputati; e in seguito al verdetto dei giurati, la corte emise la sentenza di condanna nel 6 ottobre 1863.

Fu applicata la pena di morte per Vincenzo Ramundo fu Carlo, Luigi Capraro di Gaetano e Pasquale Marenga fu Francesco, e per altri furono irrogati i lavori forzati a vita, e penalità diverse.

La Corte di Cassazione di Napoli con sentenza del 7 ottobre 1864 cassò la sentenza di condanna a morte non solo per i tre condannati a morte, e per Michele Lombardi, ma anche per Angelo Arminio e Donato Achille Esposito, per modo che il giudizio ebbe per questi nuovamente luogo al circolo di Salerno, e con sentenza del 5 Settembre 1866, il Ramundo, il Capraro, e il Marenga furono condannati a lavori forzati a vita, e Michele Lombardi alla pena dei lavori forzati per anni venti, con la vigilanza, tenuto conto della mutata legislazione, in confronto degli art. 130, 121 LL. penali del 1819.

Nella udienza del 6 giugno 1865 la stessa corte per Angelo Arminio e Donato Achille Esposito avere già applicata la pena di venti anni di ferri e la vigilanza speciale della pubblica sicurezza.

Finalmente con provvedimento del 29 gennaio 1892 per l’art. 39 del R. Decreto 1° dicembre 1899 sulle disposizioni transitorie del codice penale, che dischiuse le carceri a non pochi delinquenti, a Ragionato Vito di Nicola la pena dei lavori forzati fu commutata in quella di trent’anni di reclusione, con tre anni di vigilanza speciale della pubblica sicurezza.

E’ ivi qualche superstite ancora sfuggito alla giustizia sociale.

Qualcuno, misero, cieco, si volge alla generosità dei passanti; qualche altra, curva, malata, deforme, passa come ombra per le vie fra il sorriso e lo scherno dei monelli.

Compiesi così il giudizio degli uomini e di Dio!

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IX

IL RISORGIMENTO E UNA TOMBA

E se il mondo sapesse il cuor ch’egli ebbe

.........................

Assai lo loda e più lo loderebbe.

Dante - Paradiso XI.

Così anche gli albori del risorgimento spuntarono per Carbonara, e invece di poesia, di luce e d’incanto, inondarono quel suolo di sangue e di lutto.

A cancellare i ricordi sanguinosi, per antiche tradizioni e ricordi, al Comune si volle cambiare il nome in quello dell’antica Aquilonia, la rocca di resistenza delle forze sannitiche contro le legioni romane.

La calma rientrò nelle famiglie, e cominciò la vita operosa delle arti e dei campi.

La signora Isabella Tartaglia rientrò nella casa paterna, e vide attorno a sé spegnersi, nel giro di pochi anni, un vecchio zio, la madrigna, e le zie, che lei, piccina ed orfana di madre, avevano tenuto in educazione, con affetto ed interesse, nel monastero delle clarisse in Melfi.

Sola, volse ogni affetto verso il germano Vito, che avviò ai buoni studi e pensò anche a ricostruire il suo patrimonio sparso e dilapidato.

E fu buona, caritatevole e pia.

In questi tempi, in cui la vanità femminile si esplica nei comitati, nei patronati, nelle fiere di beneficenza, ella intese la carità a modo antico, sussidiando segretamente, adornando di un velo candidissimo la miseria, sorreggendo, compiangendo.

E si racconta che un mendicante presentossi un giorno innanzi al portone del suo palazzo, a chiedere con insistenza la carità.

Le persone di servizio, perplesse, indugiavano, guardandosi.

La voce del mendico diveniva più insistente:

"E’ quell’insolente...", timida, turbata disse la fantesca, e ne fece il nome.

Era uno di quelli, che la voce pubblica designava di aver preso parte alla strage dei suoi cari.

"Dite alla Signora, ripeteva il medico, che mi faccia la carità...Non fui io...ad uccidere.."

"Via, date del cibo e del companatico ogni qualvolta picchia al portone costui; ma fate che non cada sotto i miei sguardi!..."

Ecco una prova del cuore, ch’ebbe Isabella Tartaglia.

E quando col matrimonio del fratello parve a lei compiuta la sua missione nella casa paterna, dove la sua ospitalità accoglieva ogni fiore di gentilezza e di cortesia dei paesi finitimi, convolò a nozze.

Fiorente ancora di salute e di giovinezza, distinta per venustà di forme si dié tutta all’affetto, all’amore della nuova famiglia, e seguì, angelo consolatore, nelle varie residenze e nella via crucis della carriera, il marito magistrato che la corrispose di immenso affetto.

A Napoli educò e tenne con sé una figlia del fratello, Checchina Tartaglia, un fiore di fanciulla, che un morbo ribelle a sedici anni rapì, con immenso dolore di lei, dei genitori, degli zii.

Questa morte fu il tarlo distruttore della sua esistenza.

Dopo quattordici mesi, una pulmonite, che neanche le celebrità mediche da Napoli accorse, valsero a vincere, nel dì 11 febbraio 1906, a Potenza, la spense.

La salma, in men di ventiquattr’ore, fu trasportata ad Aquilonia, ricevuta dal clero e dalle autorità e da un’onda di popolo; e dopo i funebri riti, fu deposta in un sacello, fatto sorgere a bella posta per lei e per raccogliere i resti della famiglia Tartaglia. Una lapide in marmo nero, con iscrizione a lettere d’oro, e contornata da un artistico lavoro in marmo bianco, la ricorda alla pietà del visitatore e della cittadinanza.

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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE DI F. CAMPOLONGO

  • Ricordi di un pretore, Genova, 1888
  • Morti e lesioni sulle strade ferrate in "Scuola positiva", VI, 1896, n. 4 e 5.
  • Dottrina e giurisprudenza sugl’infortuni ferroviari (estratto), Firenze, 1898.
  • Di una teoria di disastro sulle strade ferrate in "Supplemento Rivista Penale", vol. VII, Torino, 1898.
  • Del violato sepolcro presso i Romani, Torino, Unione tipografico-editrice, 1902 (Estr. da "Rivista Penale", vol. 55, fasc. 3 e 4).
  • Il diritto e la vita nel Mezzogiorno nel movimento sociale, Potenza, tip. Garramone e Marchesiello, 1903.
  • La delinquenza in Basilicata, in "Rivista d’Italia" 7 (1904), IX, pp. 375-402.
  • Attraverso le vicende del diritto penale nella Lucania e nella Basilicata, Torino, Stamperia dell’Unione tipografico-editrice, 1904.
  • La lite e la criminalità nel circondario di Potenza. Discorso inaugurale dell’anno giudiziario, Napoli, 1904.
  • Lo sciopero e i ferrovieri, in "Rivista d’Italia", 8 (1905), fasc. III, pp. 349-367.
  • Discorso del cav. Francesco Campolongo procuratore del re presso il tribunale civile e penale di Potenza pronunziato nella assemblea generale del 5 gennaio 1906, Potenza, Tipografia editrice Garramone e Marchesiello, 1906
  • La reazione del’60 a Carbonara ora Aquilonia e il suo processo penale. Notizie e documenti inediti, Benevento, G. De Martini, 1907.
  • La funzione del diritto e la delinquenza nel distretto di Napoli. Discorso inaugurale dell’anno giudiziario, Napoli, 1928
  • Le dottrine dell’abate Gioacchino e il delitto di eresia, Napoli, F.Giannini & figli, 1929.
  • Il Gioachinismo nella storia e nell’arte. Contributo alle dottrine dell’Abate Gioacchino, Napoli, R. Tip. F. Giannini & Figli, 1930.
  • I delitti contro la religione e la pietà dei defunti: studio di storia e la legislazione, Napoli, A. Morano, 1930.
  • Il delitto politico in Italia e la rivelazione dei segreti di Stato. Un processo della storia: l’aiglon, Napoli, A. Morano (dopo il 1932).
  • Giuristi calabri dei sec. XVII e XVIII: il pensiero economico di Antonio Serra e il suo processo penale, Città di Castello, Società anonima tip. Leonardo Da Vinci, 1939 (Estr. da "Giustizia Penale", 45 (1939), n. 1-2-3.

 

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