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Liceo Classico Statale "Mario Cutelli" Catania

Laboratorio di Storia

prof.ssa Bonasera

La svolta postunitaria a Catania

 

Uno sguardo sull'Italia e sull'Europa durante la I e la II Rivoluzione Industriale

 

 

Introduzione: il dibattito storiografico

 

 

L’esigenza di una definizione più sistematica della rivoluzione industriale è apparsa necessaria alla storiografia di questi ultimi anni quando le indagini degli economisti intorno ai grandi temi della crescita e dello sviluppo, del ristagno e dell’arretratezza delle economie sottosviluppate hanno sollecitato, per ragioni pratiche, la riapertura dell’indagine sulle origini della moderna economia industriale.

Si è riaffacciata ancora una volta la disputa sul momento del turning-point e sulla natura dei mutamenti della struttura economico-sociale.

Per Maurice Dobb, che con gli "Studies in the development of capitalism" (1) ha segnato la ripresa dei modelli marxiani d'analisi e d’interpretazione, la rivoluzione rappresenta uno spartiacque fondamentale nello sviluppo economico europeo.

Elementi decisivi sarebbero stati la concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di una classe e l’avvento di un’altra classe di non-proprietari, di venditori di forza lavoro e di "produttori di plus-valore".

Il processo storico di separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione, realizzatosi nell’Inghilterra di metà Settecento, la loro subordinazione diretta al capitale, rappresentano, secondo Dobb, le linee fondamentali del processo stesso di fondazione di una produzione capitalistica, rivoluzionaria.

Fu la proprietà privata delle terre a costituire il nuovo oggetto di riflessione da parte di teorici socialisti come Marx.

Egli distinse la proprietà privata di un campo coltivato da parte di un contadino che avrebbe tratto egli stesso i frutti del proprio lavoro, dalla proprietà privata capitalistica che permetteva, invece, all'industria di appropriarsi dei risultati del lavoro altrui; secondo la politica socialista, quindi, quest'ultimo dominio dell'uomo sull'uomo doveva essere superato con la socializzazione dei mezzi di produzione.

L'operaio rischiava di esercitare la sua intelligenza solo sulle operazioni specifiche del suo mestiere; mentre rimaneva ignorante, il padrone si apriva ad orizzonti sempre più vasti, sì da rendere sempre più profonda la differenza tra le classi.

Ancora secondo Marx la peculiarità dell'epoca consisteva in una nuova forma d'antagonismo sociale, basata sul binomio capitalisti-salariati.

I primi pensatori socialisti (Louis Blanc ed il conte Saint-Simon in Francia, Karl Marx e Friedrich Engels in Germania) erano convinti che la società dovesse essere fondata sulla cooperazione e non sulla concorrenza, e che il controllo dei mezzi di produzione, cioè di alcuni, o tutti i settori dell'industria e dell'agricoltura, dovesse essere sottratto all'iniziativa privata. Ad ogni modo - sgomberato il campo delle vecchie polemiche sulla legittimità o meno del concetto di rivoluzione e sul problema della sua datazione (si conviene di norma che il turning-point debba porsi intorno al 1780) – l’interesse degli studiosi si è spostato sulle cause più prossime del declino delle vecchie forme d’organizzazione economica.

Così, tra le condizioni che resero possibile la rivoluzione industriale inglese, l’attenzione si è accentrata non solo sull’evoluzione della tecnica e sull’incremento del risparmio e del capitale fisso o sull’emergere di nuovi rapporti fra produttori e capitalisti nel settore industriale, ma sull’ascesa del capitalismo agrario e su una rivoluzione tecnico-produttiva che consentì alle campagne di provvedere ad una popolazione urbana in continuo aumento e di accelerare la formazione di un proletario disponibile per le grandi imprese manifatturiere; oppure sulla creazione di nuovi mercati complementari, o ancora sull’aumento dei prezzi e della domanda interna.

In questi ambiti Schumpeter ha compiuto un'importante distinzione tra "invenzioni" e "innovazioni": mentre le prime possono per vari motivi rimanere inutilizzate, le seconde corrispondono alla reale applicazione dei nuovi procedimenti e sono perciò il motore dello sviluppo industriale.

Le innovazioni per il settore cotoniero rispondono pienamente all'esigenza di alti profitti finalizzati allo sviluppo dell'industria capitalistica.

L'imprenditore che adottava innovazioni capaci di ridurre il costo di produzione, poteva vendere il prodotto ad un prezzo inferiore, realizzando profitti maggiori dei concorrenti legati ai vecchi sistemi.

Inoltre l'industria cotoniera poteva mantenere il suo livello di profitti perché poteva disporre di lavoro a basso prezzo.

Infatti, già Francis Bacon sognava un armonica fusione tra filosofia naturale e produzione industriale e lamentava l’inutilità della tradizione filosofica.

E quando egli scriveva (alla fine del XVI secolo), l'Inghilterra usufruiva delle proprie abilità mercantili per investire nell'industria.

Tuttavia, pur rendendosi conto dell'importanza economica e sociale di quelle trasformazioni, la maggior parte di coloro che la videro sorgere, non capirono che si trattava di una nuova era (Carlyle fu il primo, nel 1830).

Eppure erano in grado di definirne le caratteristiche Smith (XVIII sec.) e Toqueville (XIX sec.), considerando prima di tutto gli sviluppi negativi dell'industrializzazione.

Secondo Aron Rainmondo, era piuttosto il progresso tecnologico a segnare la differenza.

Egli sostiene che l'irregolarità del progresso tecnico è uno dei fatti capitali della storia. Tra l'antichità e il mondo di ieri, le differenze nelle possibilità tecniche sono mediocri.

Porta l’esempio di Cesare che, per andare da Roma a Parigi, impiegava pressappoco lo stesso tempo che avrebbe impiegato Napoleone; le invenzioni tecniche furono molte, ma non modificavano i caratteri fondamentali della società umana; il rapporto tra gli uomini che lavoravano la terra e coloro che vivevano nella città non ha subito mutamenti decisivi tra l'antichità e il XVII e il XVIII sec.; mentre la distanza tra il modo di vita di allora e d'oggi giorno è immensa.

Nel passaggio tra l'era industriale e postindustriale, si possono individuare tre fenomeni: il primo è quello che Sombart chiama "spersonalizzazione dell'economia"; il secondo è quello della "tecnostruttura", in virtù della quale un gruppo si viene a sostituire all'imprenditore; il terzo è quello della "società di massa", punto molto dibattuto.

Secondo Shills e Bell la società di massa è la società volontaria dei gruppi, della mobilità sociale, del mutamento perpetuo, del consenso generale, che per quanto utilitaria è riuscita a ritagliarsi uno spazio sociale e politico.

Poi ci sono le posizioni "aristocratiche", che vedono nella società di massa una minaccia di "iperdemocrazia", cui si oppongono quelle "democratiche".

I critici "di sinistra" scorgono nell'avanzare della società di massa il pericolo di un eccessivo conformismo, di una "massificazione" appunto che mortifichi, da un lato, l'aspirazione vera ad una società migliore e favorisca, dall'altro, la "manipolazione" da parte di un élite.

Questa visione pessimistica trova un'eco nella crisi della seconda metà del XX sec.

Mentre, fino ad allora, si nutriva una profonda fiducia nei confronti del progresso, si cominciò poi a diffondere una sensazione di disorientamento; ci si trovò a dover cercare delle risposte a domande incalzanti che provenivano da tutti i fronti: il centro del dibattito non era più la fabbrica ma la società, proprio conseguentemente ai mutamenti sociali determinati dal progresso scientifico.

E così, mentre ci si affanna nel tentativo di adeguarsi alle rivoluzioni sociali (causate, per esempio, dai movimenti studenteschi e femministi), finiva il processo di transizione e si apriva una nuova era: l'età postindustriale.

NOTE:

(1)M.Dobb, Studies in the development of capitalism, Editori Riuniti, Roma 1970.

 

 

 

 

 

La I Rivoluzione Industriale

 

 

L’espressione "Rivoluzione industriale" fu consacrata nell’uso scientifico dal 1886, cioè da quando figurò come titolo del libro pubblicato dallo storico inglese Toynbee.

Parlando di Rivoluzione industriale definiamo quel processo di industrializzazione avvenuto nel corso del XVIII sec., che dall’Inghilterra si sarebbe poi esteso all’Europa e al mondo intero con modalità e tempi diversi secondo le diverse condizioni interne ai singoli paesi, e dovuto all’applicazione sistematica e su scala sempre più vasta di nuove scoperta scientifiche e tecnologiche.

E’ vero che gli storici hanno sovente usato ed abusato del termine "Rivoluzione" per indicare un mutamento radicale, ma nessuna rivoluzione è stata così drammatica come quella industriale, salvo forse la rivoluzione neolitica, perché sia l’una che l’altra hanno cambiato, per così dire, il corso della storia, creando una discontinuità nel processo storico.

Secondo Hartwell, nel giro di tre generazioni la Rivoluzione industriale creò un’irrevocabile frattura nel processo storico, sicuramente in parte frutto dei secoli che la precedettero.

In particolar modo, bisognerebbe andare a ritroso fino a quel grande movimento di idee e strutture sociali che accompagnarono il sorgere dei comuni urbani nell’Italia centro-settentrionale, nei Paesi Bassi meridionali e nella Francia del nord.

Di questi centri bisogna mettere in risalto il carattere rivoluzionario, considerandoli secondo quella rivolta aspra e violenta contro il predominante assetto agrario- feudale.

Tutte le rivoluzioni sociali sono senza dubbio politiche, perché il rovesciamento delle strutture sociali porta al cambiamento di quelle politiche, mentre l’inverso non pare sia da accettare.

Sotto il profilo sociologico, rivoluzione è cambiamento, nei rapporti tra le classi e nei valori fondamentali della società, che ribalta il sistema economico- sociale precedente formando un nuovo assetto.

Karl Polanyi ha osservato come il mutamento decisivo rispetto alla precedente espansione dell’economia mercantile sia stato l’intervento di un fattore nuovo, la macchina, che ha richiesto investimenti a lungo termine, e l’accettazione dei rischi corrispondenti, e inaugurato la "produzione di fabbrica".

Altri, accanto alle novità emerse nella relazione tra il produttore e il mercato, hanno messo in evidenza le trasformazioni della produzione agricola: la liberazione dagli usi e dai rapporti feudali e il ruolo svolto dai piccoli produttori e dalla piccola borghesia di campagna, l’adozione di innovazioni tecniche e la graduale assunzione di metodi di produzione basati sul lavoro salariato.

Dice Ashton: "La parola rivoluzione indica una subitaneità di cambiamento, che, in realtà, non è tipica dei processi economici". (1); mentre altri studiosi hanno preferito vedere nella rivoluzione industriale l’effetto cumulativo di almeno tre rivoluzioni precedenti: commerciale, agricola e di trasporti.

La Rivoluzione industriale si è affermata gradualmente, quasi in sordina, continuando poi a scoppi successivi come un fuoco d’artificio passando dall’Inghilterra ai principali paesi d’Europa e all’America settentrionale.

Le premesse vanno ricercate nella rivoluzione politico-sociale (1640-1688) che aveva favorito l’ascesa della borghesia a scapito della nobiltà e dei ceti privilegiati. L’incremento degli "Enclosure acts" (atti per la recinzione dei campi) aveva sensibilmente ridotto l’autonomia dei contadini, riducendoli spesso a potenziale manodopera per le fabbriche; la trasformazione della proprietà terriera diede luogo alla formazione di una nuova classe di proprietari e di affittuari, che sfruttavano le terre con nuove tecniche, determinando così il passaggio dall’antico signore feudale all’imprenditore agricolo. Infatti, grazie all’eliminazione dei vincoli feudali e delle proprietà ecclesiastiche e alla vendita a privati di terre comunali, molti beni fondiari divennero possesso di borghesi o di persone in genere fornite di capitali che intendevano farli fruttare investendo. Contempo-raneamente, non solo diventava realtà la liberazione dei contadini dai vincoli feudali (servitù della gleba, obblighi verso il signore), ma anche la perdita dei loro diritti sui terreni comuni (diritto al pascolo, al taglio della legna, etc.).

Nel campo economico aumentò la disponibilità di capitali uniti alla partecipazione attiva dell’aristocrazia inglese all’attività economica, i saggi di interesse subirono un ribasso, aumentò lo sfruttamento delle risorse importate dall’America e dall’India con conseguente crescita dei traffici commerciali e dell’industria cotoniera.

Si parla anche di parallela rivoluzione demografica, poiché in quel periodo si verificò un aumento particolarmente rapido della popolazione. Il sistema della fabbrica, basato sull’uso della macchina a completamento o in sostituzione del lavoro umano, divenne dominante; la manodopera assunse forma più specializzate e acquistò maggiore mobilità. Gran parte della popolazione abbandonò l’attività agricola per dedicarsi alla produzione di manufatti e servizi, e si concentrò nelle città, dove sorgevano le fabbriche.

Il decollo produttivo che investì l’economia britannica nelle seconda metà del Settecento rappresenta una rottura storica con il passato, l’inizio di un cammino ancora in corso verso la modernizzazione del mondo produttivo. Non va dimenticato che l’Inghilterra era impegnata in un processo di sviluppo economico fin dal XVII sec. e che il fenomeno settecentesco non provocò, nonostante l’irreversibilità e la rapidità del processo, immediate e visibili trasformazioni nel paese. All’agricoltura si guardò non più come base per la sussistenza locale, ma anche come fonte di ricchezza, oggetto quindi di maggiori cure, così come volevano i fisiocrati e i riformatori dell’epoca.

L’Inghilterra godeva di alcuni vantaggi rispetto agli altri paesi europei: il primo e più importante era costituito dall’abbondanza di risorse minerarie come il ferro e il carbone. Quest’ultimo, utilizzato in un primo momento per usi domestici, diventò lentamente parte integrante dell’attività industriale nonostante gli eccessivi costi di trasporto che ne frenavano indubbiamente la diffusione. Il settore industriale, secondo per importan-za, era quello manifatturiero (in particolar modo l’industria laniera per il valore globale della sua produzione). Il suo carattere era essenzialmente conservatore e passarono molti anni prima che l’innovazione tecnica si diffondesse realmente.

Un altro fondamentale aspetto fu la rivoluzione dei trasporti. Grazie ai molteplici usi della macchina a vapore, che fu applicata anche ai trasporti marittimi e fluviali, si diede inizio all’era delle strade ferrate e all’incremento dei trasporti su fiumi e canali.

La rivoluzione dei trasporti, che comportò un impiego notevole di capitali e di forza lavoro, fu conseguenza diretta delle trasformazioni economiche in atto e, al contempo, causa della loro accelerazione; lo sviluppo dei trasporti, inoltre, permise l’insediamento di industrie anche lontano dalle miniere, e dunque l’industrializzazione di regioni e paesi poveri di materie prime. Infine, la nascita di società anonime fu conseguenza di un nuovo sistema di produzione che richiedeva grandi capitali reperibili fra più persone.

Per quanto riguarda il commercio estero, esso ebbe un ruolo fondamentale nella rivoluzione perché procurò le materie prime (cotone grezzo) di cui l’Inghilterra non disponeva.

L’adozione di macchinari all’interno delle fabbriche portò alla scomparsa del lavoro a domicilio, prima nelle campagne e poi nelle città, con conseguente urbanizzazione e sovrappopolazione. In seguito alle pessime condizioni igieniche si diffusero più velocemente le epidemie.

Si andò incontro ad altre problematiche sociali: sfruttamento della manodopera salariata, in particolar modo di quella femminile e minorile; divieto di associazione tra gli operai (Combinaton Acts). Il degenerare di questa situazione fu espresso dal Luddismo, che nacque nel 1811: esso da un lato dimostrò insofferenza generale verso i macchinari (i lavoratori vedevano in essi la causa della loro miseria), dall’altro cominciò a porre tematiche sociali quali il minimo salariale, la tutela del lavoro femminile e minorile, il diritto di associazione. Questo movimento si estinse dopo pochi anni in seguito alla persecuzione privata e statale, ma resta comunque di grande importanza ideologica.

La conseguenza immediata della Rivoluzione in campo politico fu la nascita del proletariato, una nuova classe sociale così chiamata perché priva di mezzi di produzione, legata al salario come unica remunerazione in cambio della propria forza- lavoro. Se nelle società preindustriali il lavoro salariato non può ancora essere considerato il caso più comune perché il soggetto appare ancora sottoposto alle leggi impersonali del mercato, ai contratti agrari, agli affitti, al lavoro a domicilio, il sistema capitalistico cominciò a svilupparsi in seguito ai progressi tecnologici ed all’impiego sempre più massiccio, soprattutto in Inghilterra, di capitali esteri. Le conseguenze possono trovare piena soddisfazione nel riversamento dei contadini nelle città, nella sovrappopolazione, nel fenomeno della crescente richiesta lavorativa e del conseguente impiego di lavoro femminile ed infantile.

Inoltre possono essere considerate conseguenze l’incremento della produzione tessile, agevolato dall’invenzione e poi dalla diffusione della macchina a vapore, e lo sviluppo delle industrie metallurgiche, che consentì l’inurbamento delle città limitrofe alle miniere carbonifere.

In particolare, in Inghilterra si assiste alla diffusione dell’investimento di capitali, che divenne comune nel corso dell’Ottocento grazie anche all’ottimo sistema bancario inglese; lo sviluppo di un mercato interno ed estero permise una produzione maggiore e una più alta circolazione di denaro da investire.

Nell’Ottocento fu intrapresa una marcia per il progresso sia in termini materiali con l’esplorazione di spazi sempre più distanti, con lo sfruttamento delle risorse, l’accaparramento di terre, l’assoggettamento di popoli o la loro distruzione, sia in termini culturali con un’indagine via via più specialistica in ogni campo della scienza: operazioni che si traducevano, in ultima istanza, nell’imposizione brutale del modello culturale occidentale.

Lo spirito della Rivoluzione industriale si può cogliere già nel 1819 nella Parabola di Saint-Simon (1760-1825), che comprese la grande importanza dei nuovi ceti imprenditoriali, l’accennò in una comune esaltazione di padroni e operai, assegnandosi un posto di rilievo nell’ambito del socialismo utopistico.

Il Saint-Simon dice: "Supponiamo che la Francia perda all’improvviso i suoi migliori tremila sapienti, artisti e artigiani. Questi uomini sono i produttori più necessari alla Francia, forniscono i beni più importanti, più utili per la nazione e la rendono feconda nelle scienze: sono realmente della società francese, sono i francesi più utili al loro paese, che gli arrecano gloria maggiore".

Con le sue punte polemiche contro le strutture dello Stato, contro la burocrazia e i proprietari parassitari, la Parabola di Saint-Simon esprime l’avversione contro i poteri dello Stato e la contrapposizione tra il lavoro produttivo e lo sfruttamento.

Sul terreno politico gli anni tra il 1830 e il 1848 segnarono l’accordo fra vecchi e nuovi gruppi dominanti in un unico blocco conservatore.

Sul terreno economico gli stessi anni videro la piena affermazione del capitalismo. L’Inghilterra conservò e consolidò il primato conquistato alla fine del Settecento: la meccanizzazione dell’industria tessile si diffuse largamente, determinando l’incremento dell’industria meccanica e, per l’uso sempre più massiccio del ferro e dell’acciaio, dei settori minerari e siderurgici.

Bisogna inoltre ricordare che l’impulso maggiore alle nuove attività economiche venne in quegli anni dalla costruzione delle ferrovie che, inizialmente concepite secondo un disegno locale, come tronchi staccati, furono presto costruite in Belgio, in Inghilterra, in Germania e in Francia come una vera e propria rete: i collegamenti rapidi favorirono gli scambi all’interno dei mercati, promossero lo sviluppo dell’agricoltura e stimolarono l’attività finanziaria.

In quegli anni le grandi banche e i grandi finanzieri, che avevano già sviluppato i loro affari dopo il 1815, acquistarono un’influenza maggiore (un esempio di ciò fu offerto dalla casa Rothschild che partecipò direttamente e indirettamente al finanziamento delle più importanti imprese di quei decenni).

La trasformazione dell’armamento marittimo, sebbene in modo più lento, consisteva nel passaggio dalle strutture in legno a quelle costruite in ferro e acciaio.

In molti luoghi vi era la spinta ad un’unificazione quanto meno doganale, che permettesse la libera circolazione di merci necessaria ad uno Stato per inserirsi nel gioco della concorrenza capitalistica e poter così assumere il ruolo di grande potenza. Infatti la Confederazione Germanica si adoperò per realizzare un mercato nazionale e partecipò sin dagli anni Trenta alla costruzione della rete ferroviaria.

In Italia, invece, perché le ferrovie contribuissero ad intensificare la vita economica, rinsaldare i vincoli tra le varie regioni ed affrettare la penetrazione del capitalismo nelle campagne, bisognerà aspettare gli anni Settanta; l’unità politica precedette l’unità economica.

NOTE:

(1)T. S. Ashton, La rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1969.

 

 

 

 

 

La II Rivoluzione Industriale

 

 

Dopo il 1850 l’Europa sembra rompersi in due: ad est il sistema politico liberal-democratico e l’organizzazione dell’economia basata sulla rivoluzione industriale non fanno breccia. A questo nuovo stile di vita della società aderiscono invece altre grandi nazioni del mondo, e tra esse spiccano per importanza gli Stati Uniti e il Giappone. La seconda rivoluzione industriale ha avuto inizio negli ultimi decenni del Settecento in Gran Bretagna, per poi estendersi nella prima metà dell’Ottocento in altri paesi quali la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda e l’Italia. Essa è caratterizzata da tre fattori: lo sviluppo dei trasporti ferroviari e marittimi, il rinnovamento e l’ampliamento edilizio delle città, l’apertura di nuovi settori produttivi facilitata da altre scoperte scientifiche.

Tra le numerose cause che concorsero a determinare una tale crescita bisogna ricordare il considerevole aumento della circolazione delle merci, sia all’interno di uno stesso stato sia tra stati diversi, che contribuirà alla formazione di un solido sistema capitalistico legato essenzialmente all’industria. Un’altra delle ragioni va ricercata nel notevole sviluppo tecnologico e scientifico: da allora infatti le scoperte non avvengono più per caso ma sono la conseguenza di studi programmatici condotti in appositi laboratori di ricerca. Dall’esigenza della ricerca scientifica organizzata e finalizzata nasce l’idea di fondare scuole e università con lo scopo di preparare tecnici capaci.

L’intero aspetto del mondo cambia: la rete dei trasporti lo rende più piccolo e la concentrazione delle fabbriche nelle aree urbane causa enormi movimenti di massa: per la prima volta si inverte il rapporto tra gli abitanti della città e quelli della campagna. Si assiste ad un vero e proprio boom demografico che si verifica su tutto il pianeta, ma che riguarda in modo particolare l’Europa: mentre nel resto del mondo nel 1850 vive un miliardo di persone, che a fine secolo diventa un miliardo e mezzo, in Europa la popolazione passa dai 190 milioni di abitanti nel 1814 (Congresso di Vienna) ai 400 milioni nel 1914. Tale crescita è dovuta alla maggiore quantità di cibo, alle migliorate condizioni igienico- sanitarie, e alla diminuzione della mortalità (soprattutto infantile). La vita media dell’uomo europeo aumenta notevolmente (da 30/35 salì fino ai 55): a differenza dei secoli precedenti in cui epidemie e carestie provocarono brusche inversioni di tendenza, la crescita ora si mantiene costante sino a trasformarsi nel ventesimo secolo in un’esplosione demografica.

Come già si era verificato nella prima rivoluzione industriale, nella seconda le industrie non sono in grado di assorbire tutti coloro che cercano lavoro: infatti, mentre l’industria fa una spietata concorrenza agli artigiani, gettandone molti sul lastrico, nelle campagne le nuove tecniche di coltivazione lasciano molti senza lavoro, perciò una massa di disoccupati emigra verso la città e verso altri continenti.

I paesi industrializzati sono quelli maggiormente interessati a "movimenti" di popoli, poiché nel vecchio continente non vi sono più terre da dissodare. Le altre nazioni industrializzate (Stati Uniti e Giappone) praticano addirittura una politica di incremento demografico: i primi aprendo le proprie frontiere all’emigrazione, il secondo facilitando la formazione di famiglie numerose.

Protagonista della II Rivoluzione industriale fu l’elettricità, mentre la I aveva visto il predominio dell’industria tessile e delle tecnologie del carbone, del ferro, del libero mercato, e della libera concorrenza tra le imprese. Inoltre si ebbero grandi innovazioni in diversi campi: della siderurgia, dell’elettricità, delle nuove fonti di energia, come il petrolio, della chimica e della meccanica.

Nel campo siderurgico l’acciaio fu prodotto in grandi quantità. Fu piuttosto presente dopo le numerose scoperte di nuovi procedimenti produttivi, grazie ai quali non fu più considerato come una merce rara ad alto costo e fu impiegato in diversi settori dell’edilizia, dell’industria bellica, della meccanica, prendendo il posto del ferro e della ghisa.

A partire dal XVIII secolo l’elettricità fu al centro degli studi scientifici, grazie ai quali essa divenne utilizzabile a fini industriali e non solo. Presto, infatti, venne inserita, anche per scopi più quotidiani, nelle città: i precedenti omnibus a cavallo furono sostituiti da nuovi tramvai elettrici, così come l’illuminazione a gas fu sostituita da quella elettrica. Se nei periodi precedenti le industrie erano particolarmente legate all’ambiente, e dovevano necessariamente nascere in prossimità di cascate, le uniche, allora, in grado di produrre energia elettrica, successivamente, grazie alla possibilità dell’energia elettrica "autonoma" di raggiungere qualsiasi luogo, esse potevano essere installate dove risultava economicamente più conveniente. Un altro settore in cui l’elettricità venne applicata fu quello delle comunicazioni a distanza, quali il telefono, il telegrafo, la radio, alla progettazione delle quali contribuì Guglielmo Marconi. Contemporaneamente un altro studioso italiano, Alessandro Volta, realizzò e sperimentò l’uso della pila elettrica; ma fu Thomas Edison che, con il solo ausilio dell’energia elettrica, inventò moltissimi nuovi strumenti, quali il fonografo e la lampadina. Quest’ultima fu il risultato di una lunga e costosa ricerca, che terminò quando Edison trovò un filamento a base di carbone che, percorso da corrente, diventava incandescente senza fondersi. La ricerca delle applicazioni sull’elettricità non si interruppe: oltre all’illuminazione nacquero motori più potenti, mezzi di comunicazione; quindi energia pulita, destinata a imporsi già con le centrali idroelettriche. All’inizio della I Guerra Mondiale l’elettricità, divenuta un’industria di strategica importanza, permise il decollo industriale anche a paesi che detenevano scarse risorse carbonifere, come l’Italia. Per quanto riguarda le altre fonti di energia, l’estrazione del petrolio fu promossa dagli Stati Uniti nel 1859, ma acquistò importanza solo dopo l’avvento del motore a scoppio.

Ne campo della chimica, i composti di bario, che finora non erano conosciuti, furono adesso presenti in quantitativi più elevati grazi a nuovi modi di operare. Furono introdotti anche nuovi procedimenti elettrochimici che permisero di fabbricare l’alluminio dalla bauxite, trasformandolo in un eccellente metallo da costruzione.

Principale caratteristica dell’industria chimica fu lo stretto rapporto che si venne ad instaurare tra ricerca scientifica e produzione.

Importante, ed in via di evoluzione, fu anche il settore della meccanica: nel 1862 il francese Rochas inventò il motore a scoppio, dove il combustibile usato era un distillato del petrolio, che prese il nome di benzina; negli anni successivi, e precisamente nel 1897, fu ideato dall’ingegnere tedesco Rudolf Diesel il motore a nafta.

Anche l’agricoltura è coinvolta nel processo tecnologico, anche se più lentamente, in seguito alle opere di bonifica e di estensione delle terre coltivate, ai dissodamenti e all’introduzione di nuove colture, già avviati nel secolo precedente.

La medicina subì durante questo periodo un’evoluzione profonda. Fino alla prima metà dell’ottocento la cura delle malattie si basava su un intreccio di empirismo e superstizione, di tradizioni popolari e d’ignoranza: il tutto era gravato dalle precarie condizioni delle strutture ospedaliere. La trasformazione della medicina si basò su quattro cardini fondamentali:

1. la diffusione delle pratiche igieniste e la conseguente strategia di prevenzione delle malattie epidemiche;

2. lo sviluppo della microscopia ottica, che consentì di identificare i microrganismi responsabili delle malattie infettive;

3. i progressi della chimica farmacologica, che permisero la sintesi di sostanze in grado di modificare il corso della malattia. Una delle più importanti invenzioni dell’epoca fu l’Aspirina.

4. la nuova ingegneria sanitaria, che rese possibile l’osservazione sistematica del malato.

Un importante aspetto delle trasformazioni del mercato fu costituito dalla comparsa dei beni di consumo durevoli, come il fonografo, la macchina fotografica, la bicicletta.

L’esempio più caratteristico è l’automobile, che in pochi anni, da costoso simbolo di prestigio, divenne accessibile a strati più larghi di acquirenti; questo passo avanti si deve all’opera di Henry Ford (1907), che abbassò notevolmente i costi di produzione. Allo stesso tempo l’automobile rappresentò il culmine della seconda rivoluzione industriale: i pneumatici e la benzina dipendevano dai recenti progressi della chimica.

Contemporaneamente a queste scoperte, la vita della gente assunse nuove caratteristiche: si formò la cosiddetta "società di massa", la stessa in cui noi viviamo attualmente e nella quale i prodotti di consumo "di massa", sono cioè alla portata di tutti.

I beni di consumo durevoli costituiscono una categoria di merci destinata a diventare sempre più numerosa: al principio del Novecento però gli alti prezzi restrinsero ancora la domanda, e nessuno dei paesi industrializzati fu in grado di assorbire tutta la produzione.

Lo sviluppo industriale del periodo 1897/1913 dipese in gran parte dalla possibilità di vendere merci su mercati esteri; così, per ridurre la concorrenza, tutti i paesi in quegli anni adottarono una politica protezionista che prevedeva alte tariffe doganali.

Il progresso non fu però privo di rischi per la libertà dei cittadini e dei commerci, primo fra tutti l’affermarsi di pericolose concentrazioni industriali. Istituzioni come il monopolio o l’oligopolio furono limitate da rigide norme emanate tra l’Ottocento e il Novecento, le cosiddette "leggi anti-trust", cioè anti-concentrazioni.

Sempre nel campo economico si affermò l’idea di un mercato nazionale, ossia di una grande base di possibili acquirenti fondata sulla legge fondamentale dello sviluppo capitalistico, quella della concorrenza, che si fece strada nella coscienza borghese europea sotto il nome di "liberismo".

I liberisti affermavano quindi la naturalità dei fenomeni economici, e la loro capacità di autoregolarsi, sostenevano il principio di libero scambio (David Ricardo), convinti che la ricchezza delle nazioni fosse da ricondursi alla libertà di circolazione delle merci piuttosto che al possesso di materie prime e macchine.

Il liberismo fu l’aspetto economici del liberalismo e si configurò come il fulcro di una nuova via di sviluppo, coerente con le dinamiche concrete del capitalismo industriale. I liberoscambisti inglesi ottennero dalle teorie di Ricardo una base scientifica per le loro rivendicazioni:

1. nel 1838 si formò una lega di liberisti che si collegò ad alcune associazioni operaie per scendere in campo contro le leggi sul grano;

2. in seguito alla carestia del 1845 il governo fu spinto ad approvare il progetto di abolizioni sulle leggi del grano;

3. finalmente trionfa il liberismo doganale in Inghilterra, dove la diminuzione del prezzo del pane contribuì ad esaurire i fermenti rivoluzionari e ad impedire i contraccolpi del 1848.

La diffusione del liberismo fu accompagnata dalla tendenza all’emigrazione di massa dall’Europa, alle Americhe, con un aumento della circolazione del denaro.

Gli operai assunsero una vera e propria coscienza di classe, cioè di un’identità di interessi contrapposti a quelli delle altre classi sociali. Nel 1838 nacque in Inghilterra il Cartismo, un vasto movimento popolare che chiedeva il suffragio universale e che ben presto assunse tendenze socialiste. Il movimento cartista indusse la classe dirigente a importanti riforme nella legislazione del lavoro.

In Italia il movimento operaio tardò a prodursi, data la scarsa industrializzazione; le sue prime forme di organizzazione furono le "Società di Mutuo Soccorso" in Piemonte e in Liguria.

Per ciò che riguarda la politica estera, si svilupparono le tesi imperialistiche, secondo le quali il mondo deve essere spartito in possessi coloniali e zone di influenza delle grandi potenze: espressione dell’imperialismo fu il colonialismo, che si realizzò con la formazione di colonie amministrate direttamente dai conquistatori attraverso gli organi locali e con lo sfruttamento economico di paesi poveri e non industrializzati.

Le cause dell’imperialismo sono da ricercare nella necessità di esportazioni dei capitali in eccedenza, nella volontà di affermare il prestigio e il primato nazionale (che poi sfocerà nel nazionalismo) e nelle teorie razziste connesse al Darwinismo; tutto ciò portò, per i popoli conquistati, al loro sradicamento da tradizioni culturali e religiose secolari.

 

 

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