Gaetano Grasso

Ariano dall'Unità d'Italia alla Liberazione

da: http://www.edizionilaginestra.it

<<<INDIETRO | INDICE | HOME | AVANTI >>>

Verso il Plebiscito

Il ceto dirigente di Ariano fece tutto il possibile per risanare la rottura, che aveva contribuito a determinare, con il nuovo potere centrale: l’atto di sottomissione del 13 settembre fu seguito da una serie di atteggiamenti remissivi sia nei confronti degli "occupanti" sia nei confronti dell’"invitto Dittatore". In questa manovra coinvolse la famiglia Anzani attraverso la nomina di Luigi a capitano della Guardia Nazionale. Amministratori e notabili avevano bisogno di fare quadrato per ottenere dalle autorità governative la rimozione dei tragici fatti del 4 settembre. E i "vincitori" avevano tutto l’interesse a conquistare quel ceto, a costo della spregiudicata rinuncia a ricercare anche solo le responsabilità politiche. E a questa "ragione di Stato" non fu estraneo nemmeno un grande uomo di cultura come Francesco De Sanctis. Con grande abilità si mosse Raimondo Albanese che svolgeva il ruolo di Sindaco (Carchia era stato sospeso dalle autorità governative) e che era sempre in contatto epistolare con il d’Afflitto. Egli si adoperò non poco prima per "ammorbidire" De Marco e poi per avere in lui un amico e un alleato: gli scrisse una lettera personale nella quale gli dava atto della "bontà del suo cuore" e dello "ardente zelo che Ella nutre per la causa Italiana" e lo assicurava che "gli abitanti di questi colli Irpini debbono a lei la riconquistata tranquillità e che essi caldi amatori puranco della unità Italiana sentono riaccendersi di più forte carità pel Bel Paese ove il sì suona". Tra i documenti dell’archivio De Marco ho trovato una lettera autografa del Marchese d’Afflitto, inviata a Raimondo Albanese il 29 settembre, quando cioè i Cacciatori Irpini e il loro comandante erano già partiti da Ariano. In essa il d’Afflitto, che era stato sollecitato dall’amico arianese, esprime un positivo giudizio su De Marco, pur non conoscendolo. Poi accenna alla sua uscita dal Ministero "per un certo attrito con la Segreteria Generale", assicura che "noi continuiamo ad avere la stima del Dittatore com’egli ha tutto l’ossequio e l’affetto nostro" e, infine, aggiunge: "vi raccomando solo per ora che si eviti di cogliere questa occasione per isfogare vendette personali ed ingenerare così odii che non si spegnerebbero mai più". Nella lettera si minimizza uno scontro politico che di lì a qualche giorno porterà ad una svolta decisiva. Il Ministero di cui faceva parte d’Afflitto era sorto con decreto dittatoriale l’8 settembre. Accanto al Ministero si era costituita una Segreteria Generale del Dittatore affidata ad Agostino Bertani. Ovviamente i moderati non digerirono questa soluzione e cercarono di minarla fin dall’inizio attenti sempre a sottolineare la fedeltà al Dittatore "che ama di vero e nobile affetto l’Italia" ma a distinguerlo dal Bertani, ritenuto troppo repubblicano e settario, accusato di governare indipendentemente dai ministri e di aver istituito nelle provincie governatori con poteri illimitati. Le tensioni si aggravarono quando Garibaldi nominò Segretario di Stato degli Affari esteri Francesco Crispi, subito accusato di usurpare il potere del Ministro degli interni e di aver fatto arrestare, in qualche caso, chi si esprimeva a favore dell’annessione. Quindi per forzare un chiarimento il Governo si dimise il 23 settembre. I contrasti resero difficile la composizione del nuovo Governo (46). Varato il 27, ne rimase escluso il d’Afflitto al quale probabilmente, da parte degli azionisti fu fatta pesare la sua "responsabilità" nella vicenda arianese. Di qui l’invito a non cogliere questa occasione per "isfogare vendette". Egli sapeva bene che quella sua emarginazione sarebbe stata di breve durata. L’approvazione della legge sul Plebiscito da parte del Parlamento Piemontese il 2 ottobre sancì la completa vittoria di Cavour. Sei giorni dopo Garibaldi emanò il decreto che indiceva il Plebiscito, abolì i poteri più importanti dei governatori e soppresse la Segreteria Generale. "Il Nazionale" dell’11 ottobre scrisse: "Il Partito repubblicano è sgominato". Un mese dopo il Luogotenente del Re Carlo Farini istituiva il Consiglio di Luogotenenza chiamando il d’Afflitto a reggere il dicastero dei Lavori Pubblici e subito dopo quello dell’Interno. La presenza della lettera del d’Afflitto nell’archivio De Marco si può spiegare solo nel quadro di una azione più generale per la conquista del personale politico azionista alla politica moderata e dell’interesse ad avere alleato un patriota come il Comandante beneventano nelle future vicende processuali. E si spiega anche più razionalmente la deposizione di De Leo dinanzi al Giudice Istruttore là dove afferma che "molti elevati a posti d’influenza disperdono tracce e documenti, essendosi arrivato finanche a usufruire della leggerezza di molti liberali interessati a questa processura, quale un Giuseppe De Marco Maggiore insurrezionale di Vitulano, un comandante Vincenzo Carbonelli, cui gli Anzani han promessi voti favorevoli per la Deputazione al Parlamento nazionale" (47). L’atteggiamento di De Marco negli ultimi giorni della sua presenza ad Ariano desta obiettivamente qualche perplessità. Egli, infatti, passò da un atteggiamento molto duro, di cui è emblematica la lettera all’Arciprete (pubblicata in appendice), ad uno molto remissivo come appare nella risposta a De Sanctis a proposito dello stato d’assedio. Infine appaiono quanto meno sospette tutte le "certificazioni" che i notabili arianesi gli rilasciarono. E non mi riferisco tanto a quelle "collettive" quanto a quelle personali: di Raimondo Albanese che ridonda di ampolloso patriottismo e del giudice Rosica del quale il De Marco conosceva l’orientamento filoborbonico. Se ne deve dedurre che De Marco era preoccupato di qualche "eccesso" che gli era stato rimproverato e cercava attestati di stima per potersi difendere. La contropartita richiesta ovviamente dai notabili non poteva che essere il suo atteggiamento "amichevole" nel corso della futura "processura" giudiziaria. E’ quello che il severo De Leo rimprovera sia a lui che al Carbonelli. Anche quest’ultimo assunse, in sede giudiziaria, atteggiamenti contraddittori fino ad individuare nella pavidità di Camillo Miele la responsabilità di quanto era successo ad Ariano. I documenti abbondantemente riprodotti in appendice possono, ad una attenta lettura, confermare queste opinioni. Sempre Albanese propose al Decurionato la formazione di una "Deputazione" che si recasse a Napoli "per umiliare all’inclito Dittatore Generale Giuseppe Garibaldi per esprimere le più vive congratulazioni della sua entrata nella metropoli e per ripetere davanti allo stesso il solenne atto di adesione" (e ciò venti giorni dopo l’entrata di Garibaldi a Napoli). La Deputazione fu composta dallo stesso Albanese, da Luparella, De Miranda, Mainieri, Imbimbo e D.Franza. In quella stessa riunione il Decurionato deliberò di respingere le dimissioni di Carchia, dando atto che questi era veramente malato nei giorni dell’insurrezione e, comunque, perché non apparisse una presa di posizione contro il governo che ne aveva fatto richiesta in seguito ad una relazione del generale Pinelli, offriva la terna per la nomina del nuovo Sindaco : Albanese, de Miranda e Domenico de Franza. Questa politica di pacificazione era quella gradita al potere centrale: quella cioè intesa ad evitare la rottura con i notabili locali e favorire, così, il loro assorbimento attraverso atteggiamenti aperti a grande comprensione se non alla rimozione di quello che era successo. Essi erano indispensabili alla formazione del nuovo blocco di potere su cui poggiare il governo dell’Italia unita: la borghesia del nord e i proprietari terrieri del Meridione. Ora l’obiettivo più vicino da raggiungere era il Plebiscito che si tenne, come è noto, il 21 ottobre per "l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale". Nel Proclama al Popolo Irpino Francesco De Sanctis accennò ai fatti di Ariano come determinati dall’ignoranza e gli Arianesi votarono compatti "per l’istruzione", "per la ricchezza", "per l’indipendenza e la grandezza della patria", "per la libertà". Il plebiscito si svolse sotto la presidenza di Raimondo Albanese. Gli elettori iscritti erano 3000, votarono 2700 persone e tutti i voti furono per il "si". Nessun "no". Il commento di Nicola Flammia è eloquente e sardonico: "La votazione, si capisce, fu splendida, le feste chiassose, le baldorie immense" (48). Un altro breve resoconto di quest’avvenimento ci viene dal Canonico Del Conte. Questi era Vicario Capitolare e quindi sostituiva il Vescovo dal momento che Caputo, una volta messosi in salvo a Foggia, aveva revocato la nomina, che gli era stata "estorta", di don Nicola Anzani a provicario. Il canonico Del Conte, che pure aveva firmato le gravissime accuse insieme con tutto il Capitolo contro Caputo, il 3 ottobre scrisse ad Alfonso Iascone: "piacciavi assicurare Monsignore che io non mi permetterò fare novità senza di lui permesso e sarò intento solo al bene delle anime, ed al progresso della Causa Italiana". E, dopo il Plebiscito, direttamente a Caputo: "Ieri la votazione riuscì favorevolissima tra le grida di Vittorio Emmanuele, viva l’Italia una; ma ebbi a dispiacermi che taluni Parrochi, ad onta dei miei reiterati inviti con circolare ed a voce, non solo non adempirono a quanto io loro aveva prescritto; dessi sono l’Abate del Giacomo, i Parrochi Santosuosso, Vitto, e Ciardullo i quali sturbano le coscienze altrui e disseminano massime false. Crederei se a Lei piacesse, dare a costoro una qualche mortificazione, appena le circostanze dei tempi lo permetteranno" (49). La cronaca deve registrare anche il primo processo politico svoltosi a causa del plebiscito contro una donna di Ariano, tale Rosa di Franza o Buonpensiero, definita dal maggiore della Guardia Nazionale, Vitoli, "una scaltra popolana che molto parla di politica... informata di molte cose superiori alla categoria delle genti di sua condizione". Questa donna aveva detto a tre persone, diventate testimoni, che bisognava andare a votare per scegliere Francesco II o Vittorio Emanuele e che con Francesco II un "rotolo di pane" (un rotolo era pari a 890 grammi) sarebbe costato tre grani, mentre con Vittorio Emanuele sarebbe costato 3 carlini (cioé dieci volte di più). La donna, interrogata, riferì che queste cose le aveva sentite sul Comune dall’impiegato don Annibale Guarini. Il Sottogovernatore De Gennaro (uno dei sobillatori antiliberali), "per tutta sicurezza"(!) la "spedì" in carcere "onde prevenire a tempo disordini che si fanno temere", mandando gli atti al giudice. E quale giudice! Quel don Erminio Rosica anch’egli tra gli istigatori dei braccianti contro i liberali e che sarebbe stato imputato nel secondo processo davanti alla Gran Corte Criminale. Davanti alla quale, intanto, mandò la povera Rosa di Franza che fu assolta dopo aver fatto un mese di carcere (50). Dopo il plebiscito, il Decurionato di Ariano, il 5 novembre, approvò una deliberazione con la quale "offre un omaggio d’ammirazione e di riconoscenza all’Invitto Generale Garibaldi, che al grido d’Italia e Vittorio Emmanuele ha compiuto la politica redenzione di questa parte della comune patria, e facendosi l’interprete della volontà dei cittadini, nella pienezza dei suoi diritti, ad unanimità di voti proclama a loro Re Vittorio Emmanuele". Albanese faceva tutto il possibile per acquisire affidabilità. Ora non gli restava che risolvere la vicenda in seno al Comune dove bisognava sciogliere il nodo che riguardava il Sindaco Carchia. La soluzione fu trovata: Albanese diventò Sottointendente (prima ad Ariano poi a Isernia e a Bovino) e Carchia il 21 gennaio 1861 tornò a fare il Sindaco

NOTE

(46) In questo Governo entrò De Sanctis come Direttore della Istruzione pubblica. Egli però prese posseso della carica solo dopo il Plebiscito "tra perché il programma del Ministero non era ancora pienamente conforme alle sue vedute, essendo tuttavia l’organismo governativo incagliato da elementi eterogenei e perché gli stava a cuore di non lasciare a mezzo l’opera già sì ben iniziata del risanamento della sua nativa contrada" da "La Bandiera Italiana", a.I, n.73, 25 ottobre 1860.

(47) V.Cannaviello, op. cit. p.12.

(48) N.Flammia, op. cit., p.256.

(49) Arch. Caputo-Nardò, Lettera di M.Del Conte a Caputo 22.10. 1860.

(50) ASA- Gran Corte Crim. b.56 f.305.

<<<INDIETRO | INDICE | HOME | AVANTI >>>