MIME-Version: 1.0 Content-Location: file:///C:/412A8250/2012_12_10.htm Content-Transfer-Encoding: quoted-printable Content-Type: text/html; charset="us-ascii"
L’OPINIONE
Che cos’è la democrazia?
di
Ubaldo Sterlicchio=
È una domanda molto interessante, alla q=
uale
però occorre dare un’adeguata e coerente risposta.
In base al suo significato etimologico, la
democrazia, vocabolo derivante dal greco e composto dai termini dèmos [popolo] e kr&agrav=
e;tos
[forza, governo], è quella forma di gestione della cosa pubblica alla
quale partecipano, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini.
Le forme di «democrazia diretta» er=
ano
possibili nelle città-stato dell’antica Grecia, nell’ant=
ica
Roma repubblicana, nei comuni medioevali. In età moderna, invece, so=
no
realizzabili solamente forme di «democrazia indiretta», in
considerazione dell’elevata consistenza numerica del démos.
Oggi, nell’ordinamento giuridico italiano,
l’unico istituto superstite di democrazia diretta è il referen=
dum
abrogativo, previsto e disciplinato dall’articolo 75 della Costituzio=
ne
repubblicana. Esso, quantunque soggetto a molteplici limitazioni formali e
sostanziali,(1) consente al popolo di deliberare l’abrogazione, total=
e o
parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Il 2 giugno 194=
6,
inoltre, il popolo italiano fu chiamato, una tantum [per una volta soltanto=
],
ad esprimersi per scegliere, attraverso il referendum istituzionale, la for=
ma
dello Stato fra quella monarchica e quella repubblicana.
È bene puntualizzare, però, che la
democrazia non si realizza affatto con l’arido atto formale di deposi=
tare,
in un’urna, una scheda sulla quale “eventualmente” sia st=
ato
segnato un simbolo e/o siano state espresse delle preferenze. Parimenti, la
democrazia non si realizza neppure attraverso il conferimento di una
«delega in bianco» ad un rappresentante del popolo, impunemente
libero, poi, di disattendere gli impegni assunti e di non tener fede alle
promesse fatte durante la campagna elettorale o, comunque, di non tutelare =
gli
interessi del démos. Questa è, in
realtà, solo una pseudo-democrazia, che =
si traduce
in una presa in giro ai danni dello stesso popolo.
Ciò premesso, vorrei qui proporre una ch=
iave
di lettura alquanto differente da quella solita, che tenga conto soprattutto
degli aspetti «sostanziali», piuttosto che di quelli puramente
«formali».
Io credo che la democrazia, indipendentemente d=
al
tipo di Stato e dalla forma di Governo, consista nel dare concretamente voc=
e al
popolo, nell’ascoltarlo, nel recepirne le istanze, nel soddisfarne le
esigenze ed i bisogni, nonché nell’assicurargli senza eccezione
alcuna una vita dignitosa. La democrazia si realizza mantenendo un sincero
rispetto verso il popolo, salvaguardandone gli interessi e non conculcando i
suoi diritti, onde garantirgli il maggior benessere possibile.
Non è democratico, quindi, uno Stato che=
non
solo non si ponga e non realizzi tali obiettivi, ma che tiranneggi il popol=
o,
procurandogli gratuite sofferenze, inutili sacrifici od arbitrarie privazio=
ni
di varia natura; che gli imponga un fisco gravoso, vessatorio, ingiusto; che
reprima le sue legittime aspirazioni o rivendicazioni, attraverso la menzog=
na,
l’inganno e/o la violenza (non esclusa quella morale o psicologica), =
con
l’impiego di mezzi di coazione fisica, fino all’utilizzo delle
armi.
Non è, inoltre, democratico un regime che
attui una politica militarista e guerrafondaia, al fine di soddisfare le
proprie brame egemoniche, di potere, di conquista coloniale o di espansione
territoriale e che, pertanto, mandi a morire i figli del popolo in terra
straniera, il più delle volte ipocritamente mascherando le guerre di
aggressione come interventi armati per garantire la libertà di altri
popoli, o come «missioni di pace» ed «umanitarie»,
ovvero ricorrendo al risibile pretesto di esportare – ahimè! &=
#8211;
proprio la democrazia. In questo caso, l’antidemocraticità di =
un
governo che agisca in tal modo sortisce guasti in misura doppia, perch&eacu=
te;
qualsivoglia azione bellica, oltre ad essere condotta in danno di un
«altro popolo», comporta sempre degli alti costi, in termini di
sofferenze e di vite umane, anche per il «proprio popolo».
Chiarissima è a tale riguardo, in piena
concordanza con la testé enunciata nozione di democrazia, la Carta
Costituzionale della Repubblica italiana, allorquando, all’articolo 1=
1,
sancisce che: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di off=
esa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali».
Alla luce di quanto detto, è lapalissiano
che solo ed unicamente una «guerra difensiva» non contrasta con=
i princìpi della democrazia; anzi, la difesa mil=
itare
diventa, in questo caso, un dovere imprescindibile, proprio per tutelare e
garantire i diritti dello stesso popolo aggredito.
Non è, infine, conforme ai princìpi della democrazia la «cessione di
parti di Sovranità», trattandosi di un atto illecito, illegale,
illegittimo ed incostituzionale. Infatti, in virtù dell’artico=
lo
1, comma 2, della già citata Carta Costituzionale, «La
Sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei lim=
iti
della Costituzione»; pertanto, solo il Popolo è legittimato a
delegarla ai suoi rappresentanti regolarmente eletti. Questi ultimi, in
virtù del principio giuridico in base al quale: «delegatus non potest delegari», qualora sub-deleghino una qualsivogl=
ia
parte della Sovranità popolare, della quale sono democraticamente
divenuti depositari e garanti, si rendono responsabili di una grave violazi=
one
per «manifesta incostituzionalità». Nessun popolo, infat=
ti,
è più sovrano, se non può più decidere della sua
Sovranità; la qual cosa costituisce, peraltro, un formidabile prelud=
io
di pericolose derive totalitarie.
Ricapitolando: è conforme alla democrazia
tutto ciò che viene fatto in favore del popolo, è antidemocra=
tico
tutto ciò che può danneggiare il popolo.
Volgiamo ora un breve sguardo diacronico alla s=
toria
d’Italia degli ultimi due secoli.
Alla luce di quanto premesso, possiamo, senza t=
ema
di smentita, affermare che, nell’Italia pre-unitaria, non furono affa=
tto
democratici i promotori delle varie «repubbliche giacobine»
filo-francesi, che sorsero nel contesto delle invasioni napoleoniche.(2) Es=
si,
infatti, non solo instaurarono, contro la volontà popolare, delle fe=
roci
«dittature oligarchiche», ma, in qualità di
«collaborazionisti dello straniero invasore», rivolsero anche le
armi contro le popolazioni della Penisola, provocando enormi bagni di sangu=
e in
danno dei propri connazionali.(3)
Successivamente, democratici non furono nemmeno=
i
parlamenti ed i governi sedicenti «liberali», piemontesi prima =
ed
italiani dopo, artefici del c.d. risorgimento. In primo luogo, perché
essi erano espressione di un’esigua minoranza di borghesi, militari e
nobili, che costituiva appena l’1% dell’intera popolazione;(4) =
si
trattò, in realtà, di una «democrazia teorica», f=
alsa
ed esistente solo sulla carta, concretandosi, in tal modo, la più
classica espressione del c.d. «totalitarismo
d’élite».(5) Infatti, nel Regno sardo prima e nel Regno
d’Italia poi, la classe dirigente, che si autodefiniva
«liberale», si comportò in maniera dispotica, negando al=
le
masse popolari il diritto ad essere rappresentate, ascoltate, tutelate.(6) =
In
secondo luogo, perché i governi italo-piemontes=
i
del 1860 e degli anni successivi, soprattutto con l’invasione e con
l’annessione del Regno delle Due Sicilie,
inaugurarono una stagione di terrore e di sangue, ponendo in atto una spiet=
ata
repressione; furono massacrate centinaia di migliaia di figli del popolo duosiciliano e furono rasi al suolo ben 84 paesi del =
Sud
d’Italia. Queste efferatezze sono semplicisticamente passate alla sto=
ria
con l’ingannevole definizione di «lotta al brigantaggio»,
mentre innumerevoli furono le fucilazioni, indiscriminate e senza processo,=
di
ex militari borbonici, popolani e contadini meridionali. Ci fu la più
totale negazione della democrazia! Ed, a&n=
bsp;
tale riguardo Antonio Gramsci, molto crudamente, puntualizzò:
«Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo Stato italiano ha
dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatu=
ra
feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole,
crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli
scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di
“briganti”».(7)
Non furono democratici nemmeno i governi
dell’Italietta sabauda, nell’armare=
la
mano del generale Fiorenzo Bava Beccaris, nel t=
rascinare
il Paese nelle patetiche avventure coloniali e nelle sanguinosissime guerre
mondiali, nell’avvalersi ripetutamente degli stati d’assedio,
nell’applicare con estrema leggerezza la legge marziale,
nell’attuare feroci repressioni contro il popolo.
Non solo durante il periodo risorgimentale, ma
anche dopo la stessa unità d’Italia, furono conculcate molte
libertà del popolo italiano, quali quella politica
all’autodeterminazione ed alla libera scelta dei propri governanti, q=
uella
di espressione, quella di associazione, quella di stampa e, soprattutto, qu=
ella
religiosa dei cattolici.(8)
Riguardo, poi, ai cosiddetti «plebisciti =
di
annessione» degli antichi Stati pre-unitari al Regno di Sardegna,
è oramai acclarato e ben documentato che=
si
trattò di consultazioni-farsa, la cui legittimità fu inficiat=
a in
toto, non solo per il clima di intimidazioni e di violenze in cui si svolse=
ro,
ma anche per i risaputi brogli dai quali furono caratterizzati.(9)
Un pietosissimo velo deve essere steso anche sui
referendum abrogativi indetti nell’Italia repubblicana, molti dei qua=
li
si sono rivelati inutili, vuoi perché invalidi a causa del mancato
raggiungimento dei relativi quorum, vuoi perché i responsi popolari =
(ad
esempio, quello sul finanziamento pubblico ai partiti politici o quello sul=
la
responsabilità civile dei magistrati) sono stati successivamente
disattesi attraverso molteplici sotterfugi ben noti a tutti gli italiani e =
sui
quali, in questa sede, reputo superfluo soffermarmi. Una vera e propria pre=
sa
in giro!
Non credo che possano, infine, ritenersi
democratici quei regimi che non amministrino con onestà la cosa
pubblica, ignorando quel principio cardine di buon governo, immortalato dal=
brocardo latino: «obliti=
span> privatorum, publica curate
[dimentichi dei privati interessi, occupatevi degli affari dello Stato]&raq=
uo;;
che non assicurino l’efficienza e l’imparzialità della
giustizia, tanto quella penale, quanto quella civile e quella amministrativ=
a;
ovvero quei governi che, nell’odierno mondo globalizzato, attraverso
l’uso di strumenti ancora più subdoli di quelli impiegati in
passato, come l’indulgenza legislativa verso l’usura bancaria, =
non
disgiunta da una contestuale iniqua tassazione, soffochino l’economia=
di
un Paese, spingano al fallimento le attività economico-produttive e
generino, di conseguenza, elevati livelli di disoccupazione, tanto da indur=
re
al suicidio padri di famiglia e figli del popolo, ormai privati di ogni
benché minimo mezzo di sostentamento.
Alla luce della chiave di lettura fin qui
utilizzata, ritengo che nel nostro Sud, prima dell’unità
d’Italia, in luogo di una banale ed inutile democrazia puramente
«formale», esistesse una «democrazia sostanziale», =
di
fatto. Vediamo perché.
Cominciamo col dire che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato legittimo e sovrano, che nei 73=
0 anni
della propria storia non aveva mai nutrito mire espansionistiche e che, qui=
ndi,
non aveva mai aggredito o minacciato nessuno. Pertanto, i figli del popolo =
duosiciliano non erano mai stati mandati a morire in =
alcuna
guerra di conquista. Esso, al contrario, ha solamente subito infami e
sanguinose aggressioni!
Lo storico Giacinto de’ Sivo,(10)
testimone coevo, ci informa che nella società delle Due Sicilie «…la vita lieta e a buon mercato,=
piena
di ricreazioni e godimenti era; chi non si impicciava di sette era civilmen=
te
liberissimo, e poteva far quello che voleva (…); qui tenui le statist=
iche
dei delitti: raro l’omicidio, pochi i poveri, la fame quasi male igno=
to;
la carità religiosa e privata, comunale e governativa provvedeva; no=
n carta
moneta, tutto oro e argento, poche tasse, poche privazioni, con poco si god=
eva
tutto. Facile il lavoro, lieve il prezzo, molte feste popolari, rispetto ai
gentiluomini, giustizia, tutela, sicurezza per tutti, ordine sempre. Nella
somma delle cose il reame era il meglio felice del mondo; e quanti vi
arrivavano stranieri si arricchivano, e i più restavano. La popolazi=
one
in quarant’anni crebbe d’un quarto».(11)
Ebbene, in tutta franchezza, confesso che io
preferisco senz’altro una siffatta forma di governo, poiché la
giudico molto più democratica dei sedicenti «regimi
democratici» che l’Italia unita ha avuto durante gli ultimi 151
anni della sua storia; e, meno che meno, gradisco quella attuale!
Ma, poiché qualcuno potrebbe ovviamente
obiettare che Giacinto de’ Sivo era un
filo-borbonico, reputo opportuno ricordare anche le illuminanti parole di
un’autorevole personalità del tutto aliena da simpatie borboni=
che,
ma senz’altro intellettualmente onesta, il liberale Francesco Saverio
Nitti.(12) Lo statista, in merito al governo dei re Borbone, affermò=
che
essi miravano «...ad assicura=
re la
maggiore prosperità possibile al popolo (...) non si contentavano se=
non
di contentare il popolo (...) bisognava leggere le istruzioni agli intenden=
ti
[i prefetti di oggi, n.d.r.] delle province, ai
commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia
cercava basarsi sull’amore delle classi popolari. Il re stesso scrive=
va
agli intendenti di ascoltare chiunque del popolo; li ammoniva di non fidarsi
delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i
bisogni delle popolazioni».(13)
Lo stesso Nitti ci fornisce, inoltre, una fulgi=
da
attestazione di gratitudine e di attaccamento del popolo meridionale alla
Dinastia borbonica, riferendo che: «Le
masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando=
IV in
qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e =
la
straniera, tra il re e i liberali, sono state sempre per il re: il ’9=
9,
il ’20, il ’48, il ’60, le classi popolari sono state per=
la
monarchia borbonica e per il re».(14)
Ed è fin troppo chiaro che le motivazion=
i a
supporto dell’atteggiamento delle «masse popolari delle Due
A ragion veduta, quindi, lo storico inglese
Ma c’è di più. Oltre alle
direttive impartite ai responsabili della pubblica Amministrazione del Regn=
o,
lo stesso re Ferdinando II usava normalmente tenere «udienza
privata» nel Palazzo reale di Napoli per due volte al mese. Chiunque =
del
popolo poteva farne richiesta, venendo quindi inserito in una lista compila=
ta
dal c.d. «usciere maggiore», fino a che non si fosse raggiunto =
il
numero massimo di sessanta persone al dì. Nel giorno loro assegnato,=
i
convenuti affluivano nella Reggia e, dopo aver atteso il proprio turno nella
gran sala [precisamente il salone che, all’epoca, era arredato con le=
due
grandi tele del pittore romano Vincenzo Camuccini
(1771-1844), raffiguranti rispettivamente la morte di Cesare e la morte di
Virginia],(16) venivano ricevuti dal Sovrano. Entravano prima le donne e poi
gli uomini, mentre i militari accedevano da ultimi, poiché per loro =
era
più facile poter conferire con il re, disponendo di ulteriori opport=
unità
presso gli acquartieramenti e nei campi d’arme.(17)
Non mi risulta che altrettanto abbiano fatto i
sedicenti «costituzionali» re Savoia o facciano gli attuali
presidenti della Repubblica italiana!
_=
__________________
N=
ote:
1=
Le
limitazioni formali consistono nella necessità, affinché il
referendum possa essere indetto, che la relativa richiesta venga avanzata da
500.000 elettori, oppure da 5 Consigli regionali (art. 75, comma 1, Cost.) e
nella necessità, ai fini della validità della consultazione
referendaria stessa, che vengano assicurati i seguenti quorum: a)
partecipazione della maggioranza degli aventi diritto; b) raggiungimento de=
lla
maggioranza dei voti validamente espressi (art. 75, comma 4, Cost.). Le
limitazioni sostanziali riguardano invece le materie, in quanto sono escluse
dal referendum popolare abrogativo le leggi tributarie e di bilancio, di
amnistia e di indulto, nonché di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali (art. 75, comma 2, Cost.).
2
Durante l’invasione francese della Penisola, molti furono i movimenti
popolari che spontaneamente insorsero in Italia contro tale aggressione: tr=
a i
più noti e rilevanti, rammentiamo i «Viva Maria» in Tosc=
ana
e le «Pasque Veronesi» nel Veneto. Cfr. Massimo Viglione,
“La Vandea italiana”, Effedieffe,
Milano, 1996.
3=
In
particolare, a Napoli, nei giorni 21, 22 e 23 gennaio 1799, mentre
l’intera città combatteva e moriva contro le truppe francesi, i
giacobini, asserragliatisi in Castel Sant’=
;Elmo,
cannoneggiarono vigliaccamente alle spalle il popolo, provocando un bagno di
sangue fra la propria gente, come peraltro testimoniò lo stesso gene=
rale
Jean Antoine Championnet, comandante in capo
dell’Armata francese. Dopo tre giorni di feroci combattimenti, i fran=
cesi
furono padroni della città disseminata di cadaveri: si contarono 2.0=
00
morti tra le fila degli invasori francesi e ben 10.000 fra i napoletani. Cf=
r.
Gustavo Rinaldi, “1799 la Repubblica dei
traditori. Il popolo del Regno di Napoli contro gli invasori francesi e i l=
oro
lacchè giacobini”, Grimaldi & C., Napoli 1999, pag. 38.
Inoltre, durante i 5 mesi della c.d. repubblica (fantoccio) partenopea, fur=
ono
massacrati dai franco-giacobini oltre 60.000 regnicoli=
,
come ebbe a testimoniare il generale francese Paul Thi=
ébault
nelle sue Memorie. Cfr. Paul Thi&eacu=
te;bault,
“Mémoires du Géneral P.Thiébault”, Paris,
1894, vol. II. pagg. 324-325; in Gustavo Rinaldi,
“1799...”, op. cit., in nota 6, pagg. 38-39.
4=
In
virtù della legge elettorale piemontese del 1848, gli aventi diritto=
al
voto (per censo o per nascita) erano appena 418.696 persone su 21.776.953
abitanti, pari all’1,9% dell’intera popolazione. Alle prime
elezioni politiche per la formazione del nuovo Parlamento piemontese allarg=
ato
all’Italia (le consultazioni si svolsero il 27 gennaio 1861, prima ch=
e il
17 marzo dello stesso anno fosse proclamato il Regno d’Italia), i vot=
anti
furono 239.583, pari al 57% degli aventi diritto e, quindi, circa l’1%
della popolazione. Cfr. Gerlando Lentini, ̶=
0;La
bugia risorgimentale”, il Cerchio, Rimini, 1999, pagg. 31-32.
5=
Angela
Pellicciari, “L’altro risorgimento.=
Una
guerra di religione dimenticata”, Ares, Milano, 2011, pag. 87.
6
Camillo Benso conte di Cavour, nel Senato subal=
pino,
al maresciallo Vittorio Della Torre, che gli rinfacciava l’avversione
della popolazione ai provvedimenti anticattolici della soppressione degli
Ordini religiosi e della confisca dei loro beni, candidamente rispose:
«Io, in verità, non mi sarei aspettato di vedere invocata
dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che=
non
sono e non possono essere legalmente rappresentate». Il sedicente
liberale Cavour, presidente del Consiglio del Regno sabaudo – Stato c=
he
riteneva di essere moralmente migliore degli altri Stati italiani,
perché asseritamente rispettoso della
libertà dei propri cittadini – non provò vergogna
nell’ammettere che la libertà che aveva in mente valeva per i =
soli
liberali. Cavour pensava ed affermava che l’opinione della stragrande
maggioranza della popolazione (vale a dire della massa cattolica), che per
semplici motivi di censo non aveva diritto al voto, non contava nulla per
definizione. Cfr. Angela Pellicciari,
“L’altro risorgimento”, op. cit., pagg. 136-137.
7
Antonio Gramsci, “L’Ordine Nuovo” del 1920, Giulio Einaudi
Editore.
8
Angela Pellicciari, “L’altro risorg=
imento”,
op. cit., nonché “Risorgimento da riscrivere. Liberali &
massoni contro la Chiesa”, Ares, Milano, 1998.
9=
Il
plebiscito-farsa che ci interessa più da vicino fu quello svoltosi
nell’Italia meridionale il 21 ottobre 1860. Gli stessi ambasciatori di
Francia ed Inghilterra (potenze favorevoli all’annessione delle Due <=
span
class=3DSpellE>Sicilie al Regno piemontese) ne presero le distanze. =
Sir
Henry Elliot, ministro inglese a Napoli,
osservò che: «a Napoli vogliono l’autonomia, ma sono
costretti a votare l’annessione». Giacinto de’ Sivo testimoniò che: «per tutta la
città, garibaldini e camorristi prelevavano i cittadini e li portava=
no
al voto. In ogni seggio vi erano due urne (una per il SI ed una per il NO) =
e,
quando capitava che qualche impudente osava preferire la cartella del NO,
provava il bastone ed il coltello». Filippo Curl=
etti,
agente segreto di Cavour, nel suo diario ci rivela che: «...pel voto =
di
annessione, un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi pa=
rte,
ma al momento della chiusura delle urne, noi vi gettammo dentro i biglietti,
naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti
peraltro, ciò si intende; noi ne lasciavamo da parte qualche centinajo o qualche migliajo,
secondo la popolazione del collegio. Bisognava bene salvare le apparenze,
almeno in faccia all’estero, perché all’interno sapevamo=
a
quale espediente attenerci. (...) Anche prima dell’apertura del voto,
carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello
scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che
sceglievamo il presidente dell’uffizio e gli scrutatori. Noi non erav=
amo
quindi molestati da questo lato. In certi collegi questa introduzione di ma=
ssa
nell’urna dei biglietti degli agenti (noi chiamavamo ciò ̶=
0;completare
il voto”) si fece con tale sicurezza e con così poca attenzion=
e,
che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscri=
tti.
Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo
verbale». Cfr. Filippo Curletti, “La
verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia. Rivelazio=
ni
di J.A. agente segreto del conte Cavour”,=
a
cura di Elena Bianchini Braglia, Terra e Identità, Modena, 2005, pag.
51-52.
10
Giacinto de’ Sivo (1814-1867), scrittore e
storico napoletano, fu arrestato più volte dopo la proclamazione del
nuovo Stato italiano e pagò anche con l'esilio la sua fedeltà
alla verità storica.
1=
1Giacinto
de’ Sivo, “Storia delle Due Sicilie, dal 1847 al 1861”, Berisio,
Napoli, 1964.
12
Francesco Saverio Nitti (1868-1953), uomo politico ed economista, fu Presid=
ente
del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920.
13
Francesco Saverio Nitti, “Scritti sulla questione meridionale”,
Laterza, Bari, 1958, pagg. 27-32; in Gennaro De Cresce=
nzo,
“Ferdinando II di Borbone”, il Giglio, Napoli, 2009, pag. 51.
14
Francesco Saverio Nitti, “Nord e Sud”, Calice Editori, Rionero in Vulture (PZ), =
1983,
pag. 22.
1=
5 Doctor J., “Diritto e carceri nelle Due Sicilie”, in http://www.frontemeridionalist=
a.net,
4 gennaio 2011.
1=
6 Nel
1864, queste tele furono trasferite presso la Reggia di Capodimonte,
ove Annibale Sacco riordinò la Pinacoteca dello stesso Palazzo.
17
Mariano D’Ayala, “La vita del re di Napoli Ferdinando II”,
Tipografia V. Steffenone, =
Camandona
e C., Torino, 1856, pag. 31.