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L’OPINIONE
La fine
dell'Italia
secondo
di
David Gilmour
Traduzione di Enrico De Simone
Perché dovremmo stupirci se
l’Italia cade a pezzi? Con decine di dialetti e un’unificazione
fatta in fretta e furia, si potrebbe persino dubitare che sia davvero una
nazione. L’Italia sta cadendo a pezzi, politicamente ed economicament=
e.
Di fronte a una gravissima crisi del debito e alle defezioni dalla sua
maggioranza parlamentare, il primo ministro Silvio Berlusconi, la figura
politica che più ha dominato il panorama politico romano dai tempi di
Mussolini, la scorsa settimana ha rassegnato le dimissioni. Ma i problemi d=
el
Paese vanno oltre la scadente prova politica del Cavaliere, oltre i suoi
celebri peccatucci: le loro radici affondano nella fragilità del
sentimento di unità nazionale, un mito nel quale pochi italiani, ogg=
i,
mostrano di credere.
La frettolosa, forzata unificazio=
ne del
XIX Secolo, cui nel XX Secolo seguirono il fascismo e la sconfitta nella
Seconda Guerra Mondiale, lasciò il paese privo del sentimento di
nazionalità. Ciò non sarebbe stato di grande importanza se lo
stato post-fascista avesse avuto maggior successo, non solo nella gestione =
dell’economia,
ma anche nel proporsi come un’entità in cui i cittadini potess=
ero
identificarsi, e avere fiducia. Ma negli ultimi sessant’anni, la
Repubblica italiana ha fallito nel fornire un governo funzionante, nel
combattere la corruzione, nel proteggere l’ambiente, persino dal prot=
eggere
i suoi cittadini dalla violenza di Mafia, Camorra e altre organizzazioni
criminali. Adesso, nonostante i suoi intrinseci punti di forza, la Repubbli=
ca
si è mostrata incapace di gestire l’economia.
Ci sono voluti quattro secoli
perché i sette regni dell’Inghilterra anglo-sassone diventasse=
ro,
alla fine, uno solo, nel Decimo secolo. Ma quasi tutta l’Italia &egra=
ve;
stata riunita in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primave=
ra
del 1861. Il Papa venne spogliato di quasi tutti i suoi domini, la dinastia=
dei
Borbone venne esiliata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale perser=
o i
loro troni e il re del Piemonte divenne re d’Italia. In quel momento =
tale
rapidità venne vista come un miracolo, il risultato di un magnifico
insorgere patriottico da parte di un popolo che anelava ad unirsi e cacciare
l’oppressore straniero e i suoi servi. Va detto, però, che il
movimento patriottico che ottenne l’unificazione dell’Italia era
numericamente piccolo, formato per lo più da giovani della classe me=
dia
settentrionale; e non aveva alcuna possibilità di successo senza un
intervento dall’esterno.
Fu l’esercito francese a ca=
cciare
gli austriaci dalla Lombardia, nel 1859; fu una vittoria della Prussia a far
sì che l’Italia, nel 1866, potesse annettersi Venezia. Nel res=
to
del paese, le guerre di Risorgimento non furono tanto una lotta per
l’unità e la liberazione, quanto una successione di guerre civ=
ili.
Giuseppe Garibaldi, che si era fatto un nome come soldato combattendo in
Sudamerica, si batté eroicamente con le sue camicie rosse in Sicilia=
e a
Napoli nel 1860, ma la sua campagna fu, in ultima analisi, la conquista del=
Sud
da parte del Nord, seguita dall’imposizione delle leggi del Nord in l=
uogo
di quelle dello stato meridionale che allora esisteva, il Regno delle due <=
span
class=3DSpellE>Sicilie. Napoli non si sentì affatto
“liberata”, soltanto ottanta napoletani si offrirono volontari =
per
le camicie rosse garibaldine e la sua gente non tardò ad amareggiarsi
del fatto che la città aveva scambiato quello che da seicento anni e=
ra
il suo rango “capitale del regno” con quello di località=
di
provincia. Ancor oggi il suo status è minore, nel quadro di un Pil d=
el
Mezzogiorno pari a meno della metà del settentrione.
L’Italia unita ha saltato la
fase, normale e faticosa, di “costruzione della nazione”,
diventando subito uno stato centralista ben poco disposto a fare concession=
i ai
diversi localismi. Si faccia il paragone con la Germania: dopo
l’unificazione del 1871, il nuovo Reich era governato da una
confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. La penisola
italiana, al contrario, venne conquistata in nome del re piemontese Vittorio
Emanuele II e rimase una versione ingrandita di quel regno, esibendo lo ste=
sso
monarca, la stessa capitale (Torino), persino la stessa Costituzione.
L’applicazione delle leggi piemontesi su tutta la penisola fece senti=
re i
suoi abitanti più come popolazioni conquistate che come popolo liber=
ato.
Il sud venne attraversato da una serie di violente rivolte, tutte
sanguinosamente represse.
Le diversità che attravers=
ano
l’Italia hanno una storia antica, che non può essere messa da =
pare
in pochi anni. Nel Quinto secolo dopo Cristo, gli antichi greci parlavano la
stessa lingua e si consideravano greci; a quei tempi, la popolazione
dell’Italia parlava 40 lingue diverse e non aveva alcun senso di
identità comune. Tali diversità divennero ancor più
pronunciate alla caduta dell’Impero romano, con gli italiani che si
ritrovarono a vivere per secoli in comuni medievali, città-stato e
ducati rinascimentali. Questi sentimenti di campanile sono vivi ancor oggi:=
se,
per esempio, chiedete a un abitante di Pisa: “di dove sei”?, lui
dirà “sono di Pisa” o eventualmente “sono
toscano” ancor prima di dire “sono italiano” o magari
“europeo”. Come scherzosamente ammettono molti italiani, il loro
sentimento di appartenenza alla nazione emerge soltanto durante la Coppa del
mondo di calcio, e solo se gli “azzurri” giocano bene.
La lingua è un altro indic=
atore
delle divisioni italiane. Il celebre linguista Tullio De Mauro ha stimato c=
he
all’epoca dell’unificazione, solo il 2,5% della popolazione
parlasse l’italiano, vale a dire, l’idioma sviluppatosi a parti=
re
dal fiorentino vernacolare con cui scrivevano Dante e Boccaccio. Anche se si
trattasse di un’esagerazione e quella percentuale fosse pari a dieci,
ancora così si avrebbe che il 90 per cento degli abitanti
dell’Italia parlavano lingue o dialetti regionali incomprensibili alle
altre genti della penisola. Persino il re Vittorio Emanuele parlava in dial=
etto
piemontese quando non parlava quella che era la sua lingua ufficiale, il
francese.
Nell’euforia tra il 1859 e =
il
1861, pochi politici italiani si soffermarono a considerare le complicazioni
derivanti dall’unire genti così diverse. Uno che lo fece fu lo
statista piemontese Massimo d’Azeglio, che subito dopo
l’unificazione avrebbe detto: “Ora che è fatta
l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”. Purtroppo, la via che
più di ogni altra venne seguita per “fare gli italiani” =
fu
quella di sforzarsi di fare dell’Italia una grande potenza, una poten=
za
in grado di competere militarmente con Francia, Germania, Austria-Ungheria.
Un tentativo condannato al fallimento, perché la nuova nazione era a=
ssai
più povera delle sue rivali.
Per un periodo di novant’an=
ni,
culminato con la caduta di Mussolini, la classe dirigente italiana decise di
costruire il senso di nazionalità che ancora mancava trasformando gli
italiani in conquistatori e colonialisti. Vennero spese grandi somme di den=
aro
per finanziare spedizioni in Africa, spesso risoltesi in disastri; come ad
Adua, nel 1896, dove un’armata italiana venne distrutta dalle forze
etiopiche che uccisero in un giorno solo più italiani di quanti ne
morirono in tutte le guerre risorgimentali. Sebbene il paese non avesse nem=
ici
in Europa e nessun bisogno di combattere in nessuna delle due guerre mondia=
li,
l’Italia entrò in entrambi i conflitti, in tutti e due i casi =
nove
mesi dopo lo scoppio delle ostilità con il governo che credeva di av=
er
individuato il vincitore al quale chiedere, in premio, annessioni territori=
ali.
L’errore di calcolo fatto ad Mussolini e la sua successiva caduta
distrussero a un tempo, in Italia, il militarismo e l’idea di
nazionalità.
Nei cinquant’anni successiv=
i alla
Seconda Guerra Mondiale il paese fu dominato dalla Democrazia Cristiana e d=
al
Partito Comunista. Questi partiti, che ricevevano direttive, rispettivament=
e,
dal Vaticano e dal Cremlino, non avevano alcun interesse nell’instill=
are
un nuovo spirito di nazionalità, che prendesse il posto di quello
naufragato nei disastri precedenti. L’Italia del dopoguerra è
stata, per molti versi, una storia di successo. Con uno dei ratei di cresci=
ta
maggiori del mondo, si segnalò tra i paesi innovatori in campi pacif=
ici
e produttivi come cinema, moda, design industriale. Ma anche quei trionfi
furono settoriali, e nessun governo è stato mai in grado di colmare =
il
gap esistente tra nord e sud.
I fallimenti politici ed economic=
i del
Governo non sono l’unica causa della malattia che oggi minaccia la st=
essa
sopravvivenza dell’Italia. Alcuni difetti strutturali del Paese sono
intrinseci alle circostanze della sua nascita. La Lega Nord, il terzo maggi=
or
partito politico italiano, secondo cui il 150° anniversario
dell’unità d’Italia avrebbe dovuto essere materia pi&ugr=
ave;
di lutto che di celebrazioni, non è soltanto una strana aberrazione.=
Il
suo atteggiamento verso il sud, per quanto razzista e xenofobo, dimostra che
l’Italia, in realtà, non si sente un paese unito.
Il grande politico liberale Giust=
ino
Fortunato era solito citare suo padre, secondo cui “l’unificazi=
one
dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la
geografia”. Credeva che la forza e la civiltà della penisola
risiedesse in una dimensione regionale, e che un governo centrale non avreb=
be
mai funzionato. Ogni giorno che passa, le sue idee appaiono sempre pi&ugrav=
e;
esatte. Se per l’Italia c’è ancora un futuro come nazione
unitaria dopo questa crisi, dovrà riconoscere la realtà di una
nascita travagliata e costruire un nuovo modello politico che tenga conto d=
el
suo intrinseco, millenario regionalismo, magari non un mosaico di repubblic=
he
comunali, ducati arroccati sulle montagne e principati; ma almeno uno stato
federale, che rifletta le caratteristiche principali del suo passato.