Copyright - 1999 - 2001 - © Fioravante BOSCO - Tutti i diritti riservati - Visualizzazione consigliata 800x600

 IL BRIGANTAGGIO E L'UNITA' NAZIONALE

di Gianni Vergineo

da: "Brigante in terra nostra" a cura: Associazione Progetto Domani - Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio Calvi (BN) - Stampa Borrelli, San Giorgio del Sannio (BN), 2000

 

1. Le vie di accesso

C'è una tentazione ancora molto forte, in certe aree del sud: quella di promuovere il brigantaggio ad una forma di epopea eroica delle nostre popolazioni contadine contro l'esercito invasore del nord industriale. E' forse una reazione di rivalsa psicologica, tipica delle zone interne, rimaste, anche dopo l'unità, in posizioni marginali e laterali nel contesto dello stato liberale e nazionale. Questa disposizione emotiva alimenta un'utopia retrograda di impronta borbonica, che spesso assume forme grottesche nel panorama storico odierno, in cui non solo il regno borbonico appare come un fantasma che implora pace e comprensione, ma anche la sovranità nazionale tende a scomparire, per confluire in forme sovranazionali, o transnazionali, di organizzazione, come le istituzioni che strutturano gerarchicamente l'organizzazione dell'Unione europea e aprono le vie di una civiltà planetaria, all'insegna della globalizzazione e della interdipendenza dei popoli e delle loro norme economiche, sociali e politiche. Contro questo meccanismo regressivo non c'è riparo, se non si fa appello alla ragione storica, che è il solo strumento capace di salvaguardare la nostra identità, dando una nuova dimensione al senso delle comunità locali, e di potenziare insieme i valori della modernità che integrano la concezione liberale della vita politica. Modernità significa in prima istanza libertà e la libertà è rivelatrice del conflitto che si annida nella vita umana sia individuale che collettiva, nella sfera economica (utile-danno), come nella sfera morale (bene-male), sul piano conoscitivo (vero-falso), come sul piano artistico (bello-brutto). E' questa ragione che ci può aiutare a vincere il peso del passato che immobilizza la nostra mente, prima che la nostra vita, prendendo coscienza delle catene che gravano sulle nostre spalle. Il passato e la nostra vita pregressa decidono per noi, sia che lo rimuoviamo, sia che lo idolatriamo. Nel primo caso ci perseguita come un defunto sepolto senza i dovuti onori; nel secondo ci soggioga come un tiranno che gode della nostra complicità. In ogni caso ne siamo schiavi. Per essere liberi bisogna riconoscerlo, annetterlo alla nostra esperienza presente, dargli il senso che merita. Non siamo noi che dobbiamo tornare al passato, ma è il passato che deve venire a noi. Solo nell'ottica del presente è possibile il giudizio storico, che colloca al posto giusto e nella luce giusta gli elementi della nostra vita anteriore. Così non solo i fatti ma anche i misfatti assumono un rilievo storicamente positivo, perché gli uni ci danno la misura delle nostre capacità positive e creative; gli altri, la coscienza dei nostri limiti. Da una parte vediamo l'uomo che avanza; dall'altra l'uomo che inciampa, pecca, cade. E comprendiamo che non esiste una linea di demarcazione netta tra i due aspetti, che quasi sempre si intersecano, si intrecciano, si confondono, nella luce della ragione storica, libera da contaminazioni ideologiche. Né il brigantaggio borbonizzante e sanfedista, né il processo di unificazione nazionale del Piemonte sono operazioni pulite. Niente nella storia è innocente. Gli eventi possono essere progressivi o regressivi, e le situazioni, statiche o dinamiche, ma niente è senza macchia. Il punto è capire se i movimenti del nostro interesse portano l'umanità avanti o indietro, sono determinati dalla speranza o dalla nostalgia. Da questo punto di osservazione si coglie qualcosa che sta oltre la volontà degli uomini, ma che la muove, la trascina, la indirizza verso fini che spesso non coincidono con essa, ma talvolta la contrastano. Sotto il profilo etico-giuridico l'azione del Piemonte contro lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli si configura nei termini di una aggressione gigantesca senza atti diplomatici, senza dichiarazioni formali, senza dignità politica, solo pretesti. Eppure guardando al quadro globale, si vede che dietro quello scompiglio di consuetudini, di regole di comportamento, c'è una forza che spinge alla trasgressione: un soffio nuovo, uno spirito di libertà, trascende il gioco dei rapporti tradizionali e la forza che fa esplodere il conflitto tra la libertà moderna e l'autorità tradizionale, tra il cittadino e il suddito, tra l'individuo e la collettività, tra il senso di appartenenza e il senso di indipendenza. Analogamente la guerra del brigantaggio contro il nuovo stato di cose si rivela come una reazione contadina del passato contro il progresso e la civiltà del mondo moderno, e si esprime in forma di una violenza selvaggia in difesa del diritto alla vita: il contadino tradito si leva contro il borghese "traditore" in una esplosione di odio secolare, certo che la sua ragione è una ragione al tramonto, quella dell'ordine feudale in fase di marasma, ma anche di un sistema di vita irrinunciabile di fronte alla minaccia di una libertà senza giustizia. Eppure è questa reazione che mette in evidenza i limiti dello stato nazionale, l'impotenza della classe dirigente, il pericolo di un individualismo diretto a convertire le usurpazioni in diritti. L'urto che si profila nella primavera del 1860 è un dramma tragico: da una parte l'idea di libertà, di nazione, di popolo, in ascesa; dall'altra la difesa della tradizione culturale, dell'autorità politica, della fedeltà religiosa, dello status quo in declino. E' naturale che il destino dei vinti meriti sentimenti di pietà e di comprensione; ma è un difetto di imparzialità non riconoscere che la causa del vincitore sia la stessa causa della civiltà moderna. Il fatto che essa si presenti sotto la specie di uno Stato, che, pur liberale per statuto, rinnega nel sud se stesso e si impone con la violenza, è una contraddizione della storia, per cui la logica delle cose, per estendere il concetto di libertà, si avvale anche di forme illiberali, e fa dello Stato uno strumento dispotico per distruggere il dispotismo nemico, in un gioco complesso di azione e reazione nel quale ora è la libertà dello Stato a restringere l'area della libertà civile, ora è la necessità politica dell'ordine e della pace sociale a disciplinare lo spazio delle iniziative individuali. In ogni caso, ciò che conta è la direzione, non il modo convincente, in cui si realizza l'ideale moderno il quale, una volta superate le avversità più ardue, finisce poi col recuperare ciò che del passato è più solidale alla sintesi finale: i valori, che malgrado le degenerazioni psicologiche, conservano il filo ancora tenace della memoria storica.

2. Il tempo della reazione

Ma veniamo al punto del passaggio storico che ci interessa e, per avere una visione meno disturbata da motivazioni ideologiche, avviciniamoci al campo di osservazione più direttamente esposto alla nostra attenzione: la provincia beneventana, sulla base di una ricca documentazione di un archivio privato, consultabile nell'Appendice di un volume, pertinente all'argomento, copiosa di materiali documentari in cui è facile capire che non esistono tinte nette che consentano separazioni di ruoli, di posizioni, di responsabilità. La specola da cui si guarda all'orizzonte provinciale è quella di una famiglia liberale di proprietari terrieri che non attende solo alla percezione delle rendite, ma anche all'esercizio delle arti liberali, e di affari politici amministrativi altamente rappresentativi (Mario De Agostini - Gianni Vergineo, Il Sannio brigante, Ricolo, Benevento 1991). Ma quei proprietari terrieri hanno anche rapporti con le masse contadine, sono percorsi da pensieri e sentimenti opposti, attraversati da moti di ribellione, mossi dalle notizie confuse, ma destabilizzanti, dello sbarco garibaldino a Marsala (1/6/1860). E non sono discesi dal cielo. Essi si sono formati nell'amministrazione borbonica come il De Nisco di S. Giorgio del Sannio, il Iazeolla di S. Giorgio la Molara, gli Zurlo di S. Marco dei Cavoti e tutti i neofiti dell'idea liberale. E non sono anticlericali rabbiosi, perché risultano fermamente radicati nel terreno religioso e clericale non meno dei fedeli della religione borbonica, e hanno spesso preti in casa di tendenza liberale, non meno cattolici dei parroci reazionari, nemici del liberalismo ma non certo sobillatori, come Daniele Basile di Campolattaro e Epifanio Di Gregorio di Pontelandolfo, ma predicatori di perdono e di pace. Erede del ceto "civile" napoletano, la nuova classe dirigente conserva l'imprinting della matrice di origine, disponibile ad un accomodamento di regime, nel caso di fallimento dell'impresa garibaldina. Tanto più che Francesco II, poco dopo lo sbarco di Marsala, il 25 dello stesso mese, concede la costituzione liberale. Il provvedimento si rivela tardivo e improduttivo, ma non sembra l'effetto di un calcolo politico. E' forse anche un riconoscimento che il mondo è cambiato. Il decreto del 23 luglio del 1860 con cui subentrano, ai quadri borbonici, funzionari liberali, attesta la volontà di uno svecchiamento sostanziale. In realtà i nuovi dirigenti pilotano le manovre di passaggio, ora barcamenandosi, ora reprimendo apertamente le reazioni filoborboniche in nome della costituzione. Ma ciò dipende dalla forza irresistibile dell'avanzata garibaldina, che cresce, come un fiume in piena, per via di consensi e di slanci emotivi, e si alimenta degli apporti continui del sistema borbonico in disfacimento. I mille di Marsala diventano un esercito; sia chiaro: in questo tumultuoso agitarsi di idee e di passioni non c'è nulla di chiaro, ma tutto è ambiguo, equivoco, contraddittorio. Il mondo contadino ha i suoi sussulti di esaltazione e di entusiasmo. Ma gli episodi di Bronte e di altre gravi circostanze dimostrano la natura borghese, liberale, non democratica del garibaldinismo, a parte le buone intenzioni populistiche del Marinaro di Nizza. I "galantuomini" dedicano al fenomeno un'attenzione sospetta, quasi sempre in senso strumentale, e i popolani avvertono per non pochi segni il fondo ostile della marea montante. Un pò di chiarezza si fa quando si apprende che Cialdini muove verso Napoli (11/9/1860). L'intervento del Piemonte tranquillizza i galantuomini con la presenza di un apparato militare statale di prima grandezza, ma getta lo scompiglio nella Guardia Nazionale, fatta di milizie reclutate in aree contadine, delle quali Farini denuncia a Cavour lo scarso spirito patriottico (16/9/1860), e Garibaldi, da parte sua, decreta la purificazione di ogni elemento notoriamente legato al vecchio regime (17/9/1860). Il proclama, infine, di Vittorio Emanuele II, del 9 ottobre, di por fine alla rivoluzione per ristabilire l'ordine, dopo la vittoria sul Volturno, chiude un periodo di oscillazione, di angosce, di incertezze, e prepara l'aggregazione al sistema sabaudo del Regno di Napoli, attuata con eccezionale sollecitudine attraverso i plebisciti del 21 Ottobre. Garibaldi si affianca al Re galantuomo nell'ingresso a Napoli (7/11/1860): la rivoluzione rientra nell'alveo della conservazione, la ragione si concilia con la tradizione, la libertà riconosce l'autorità. Il 9 dello stesso mese la dittatura dell'uomo di Caprera cede ormai armi e bagagli alla luogotenenza di un fedele ministro sabaudo: Carlo Luigi Farini. Sciolto l'esercito garibaldino, anche le formazioni democratiche entrano in fibrillazione. La resistenza di Gaeta, simbolo della dignità morale con cui l'ultimo re di Napoli, calunniato e diffamato, sigilla la fine del suo regno, è più un disperato tentativo di dignità contro gli aggressori che un tentativo di recupero di un sistema di vita finito per implosione più che per l'urto esterno: un sistema condannato dalla storia. Ci sono gesti di grandezza anche negli uomini che la logica storica porta alla rovina. Anzi, al confronto di Cialdini e di Pinelli, e tutti i fucilatori di contadini affamati, nella furia repressiva, sembrano figure moralmente integerrime. Ma non è qui il nodo del discorso. Come nel caso dell'ultima grande guerra civile di Roma, in cui, se la causa del vincitore è la causa di Dio, quella dei vinti è la causa di Catone; così, nella guerra contadina del Sud, c'è da una parte Dio, la ragione storica, dall'altra Catone, la tradizione. E' il segreto della Pharsalia di Lucano. A noi qui preme la ragione di Dio misteriosamente operante contro la ragione del mondo contadino espressa da una chiesa temporale, prigioniera di un contesto storico-politico ancora medievale; non contro la chiesa dello spirito che opera fuori da ogni contesto temporale e istituzionale. La prima chiesa non è, certo, imputabile di brigantaggio, ma di posizione reazionaria, di correità reazionaria: ad essa appartengono le istruzioni ai parroci della Sacra Penitenziaria relative all'assoluzione dei ribelli politici pentiti (16/11/1860) e le istruzioni attinenti al divieto di concedere riti e sacramenti ai rappresentanti "dell'intruso governo" (10/12/1860). Alla stessa sfera di interessi temporali si riporta la protesta del cardinale arcivescovo di Benevento Domenico Carafa al governatore liberale Carlo Torre (21/12/1860). L'anno 1860 si chiude senza la comparizione di segni di presenza diretta, nelle rivolte contadine, di elementi clericali o di emissari borbonici: il gioco si svolge tra liberali e reazionari, borghesi e contadini, signori e sudditi. E non è un gioco iniziato con lo sbarco di Marsala: l'impatto garibaldino lo virulenta, non lo alimenta. Tutto muove dalla eversione del sistema feudale del 1806 e dalla questione demaniale nata successivamente. Il contadino combatte per i demani usurpati e gli usi civici cancellati, per la terra da coltivare tornata in pugno di una minoranza. Quindi i moti contadini, che scandiscono il corso degli avvenimenti sino alla fine, hanno tutti per obbiettivo l'occupazione delle terre e la restituzione dei diritti rubati. Non si può parlare qui di brigantaggio, ma di reazione popolare. E le azioni hanno per teatro i centri abitati. E' un susseguirsi di note della stessa canzone: varia il registro tonale ma la musica è la stessa: Montesarchio, Buonalbergo, S. Martino Valle Caudina, S. Giorgio del Sannio, S. Agata, Morcone, S. Croce, Montefalcone, S. Giorgio la Molara, Fragneto l'Abate, Pagoveiano, Pietrelcina, Frasso, Civitella, Cerreto, S. Lorenzello, Vitulano, tutti i paesi della provincia tumultuano, si agitano, si ribellano contro gli strumenti dell'oppressione: uffici comunali, fiscali, daziari; carte, registri, strumenti di burocrazia, palazzi signorili, centri di amministrazione e di autorità, sedi del potere. Ma è difficile attribuire a questo pullulare scomposto di passioni e interessi, di speranze e di aspettative le connotazioni del brigantaggio vero e proprio: il primo tempo è il tempo della reazione popolare.

3. Il tempo del conflitto

Il 1861 si apre con una speranza: il luogotenente Farini sembra voler prendere in considerazione la questione demaniale, mentre il l. gennaio a Guardia Sanframondi si svolge una manifestazione antigovernativa. Ma il 7 dello stesso mese la luogotenenza passa dalle mani del Farini ad Eugenio di Savoia. E le cose prendono un altro verso. La situazione s'incancrenisce. Dopo la capitolazione ai Gaeta (16/2/1861) entrano in azione i Comitati borbonici per dare una veste di legittimità alla reazione contadina e insieme la speranza di una liberazione eroica e di un giustiziere inflessibile. Il 7 marzo è proclamato dal parlamento nazionale il I Re d'Italia, ma Vittorio Emanuele II rifiuta la designazione di Vittorio Emanuele I. E questo non è un buon segno rispetto al fine di trasformare l'usurpazione, la conquista regia del sud, in risorgimento nazionale, come non è un buon segno la riduzione dei poteri della luogotenenza ad un comitato ristretto di membri (5/5/1861) man mano che la compaginazione del sud quadro dello Stato borghese liberale prosegue verso l'obbiettivo finale e le dimostrazioni popolari urbane si contaminano di elementi briganteschi. Sull'onda delle proteste si costituiscono bande armate pronte a scontri violenti con reparti militari e squadre della Guardia Nazionale, sulle strade, sui campi aperti, dove il terreno ben conosciuto dai briganti del luogo meglio si presta ad insidie ed azioni di guerriglia. Nell'estate di fuoco del 1861 è chiaro che i Comitati borbonici funzionano e che le bande hanno forniture di armi e mezzi da basi esterne. Le reazioni di Pelorosso nella Valfortore, di Giordano nel Cerretese, di Angelo Pica nell'area di Casalduni, di tutti i capi dei gruppi più organizzati non sarebbero concepibili senza un retroterra di sostentazione e di legittimazione. Questo non significa che la causa del brigante coincide con quella borbonica. I casi di Carmine Crocco, di Cipriano La Gala, e soprattutto di alcuni gruppi nostalgici di una repubblica di tipo masanelliano come quella proclamata a Foiano Valfortore, dimostrano che non è la monarchia borbonica a servirsi del brigantaggio ma è il brigantaggio ad approfittare della situazione per avere l'armamento indispensabile alla sopravvivenza, oltre che la legittimazione politica. L'intervento dei Comitati borbonici è senza dubbio un fattore di metamorfosi della reazione contadina in brigantaggio, ma non di accettazione ideologica del galantomismo retrivo: il contadino è più vicino al parroco, unico conforto nella solitudine, che non al signore del paese, proprietario di terre da cui dipende economicamente, nemico per tradizione, qualunque sia la sua veste, liberale o borbonica. Le esplosioni di sdegno del luglio 1861, dopo una serie di agitazioni rapsodiche, sintomi di uno stato di alta tensione, che toccano il culmine nell'agosto di sangue di Pontelandolfo e Casalduni, sono una prova, certamente, del panico che si diffonde nelle campagne, sui monti e nelle valli, dopo la proclamazione dell'unità nazionale, ma sono una prova anche del avorio sotterraneo dell'universo borbonico interno ed esterno. L'unità d'Italia significa stabilizzazione del dominio signorile grazie ad una macchina politica e militare non più piemontese ma nazionale. La disperazione porta il gioco della violenza alla puntata finale. Si dà il caso che la luogotenenza sia finita dalle mani di Ponza di San Martino, subentrato ad Eugenio di Savoia il 21/5/1861, nelle mani di Cialdini (15/7/1861), il generale lucido e spietato che così assomma in sé il potere politico e quello militare proprio nel periodo della grande crisi che mette in forse il destino unitario del sud. Forse, perciò, il gioco si fa pesante. Il governatore di Benevento sente in pericolo lo stesso Capoluogo, mentre Massimo d'Azeglio si chiede se sia giusto mantenere in ordine il mezzogiorno con la violenza in una lettera del 2 Agosto. Lo scenario è quasi sempre lo stesso: bande che entrano nei paesi e ne prendono possesso facendo scempio di uomini e cose, bruciano, saccheggiano, distruggono i simboli del liberalismo; fughe di maggiorenti compromessi dal nuovo regime che lasciano il luogo; celebrazione di messe e canti di "Te Deum" per la monarchia borbonica, poveri preti costretti a subire angherie di ogni genere, arrivo finale di giustizieri Cialdiniani. La repressione è smisurata come l'offesa: stragi di popolazioni inermi in cambio di stragi militari. Gaetano Negri corre a Pontelandolfo contro la gente colpevole di aver tripudiato al canto di Cosimo Giordano, e Carlo Melegari a Casalduni, per vendicare gli oltraggi cruenti di Angelo Pica. Altrove piombano altri angeli sterminatori. Lo scoppiettare di rivolte sembra a un certo punto incontrollabile: a un fuoco che si spegne rispondono fuochi che si accendono. In questo tragico mese di agosto la disperazione violenta giunge al culmine della parabola: segna l'acme della ribellione. Ma segna anche il punto in cui la collusione di reazione e brigantaggio, di popolazione civile e brigante, di rivendicazione demaniale e di stragi comincia a cessare. Da questo momento in poi il punto, per le autorità nazionali, è tracciare una linea netta tra i centri abitati e le campagne, tra i paesi e le montagne, il che significa un taglio crudele tra le famiglie e le fonti di sostentamento. Andare a lavorare in campagna o in montagna diventa un problema atroce. Tanto più che Cialdini impone il rispetto delle sue regole tendenti a isolare le bande dai centri abitati e con un puntiglio razionale che esclude ogni ragione di umanità, di flessibilità nelle circostanze, di adattamento alla realtà quotidiana. Le popolazioni si sentono così costrette a respingere con le proprie forze, sorrette dalla locale Guardia Nazionale, gli assalti dei briganti, per evitare le rappresaglie dell'esercito, spesso più crudeli delle vendette brigantesche. Così rigettano gli assalti delle bande i Comuni di Cusano Mutri (17/8/1861), Morcone (31/8/1861), Frasso e Foglianise (3/9/1861), Paolisi (5/9/1861), Faicchio (12/9/1861), Pietraroja e Fragneto l'Abate (12/9/1861), Bucciano (4/10/1861). E la rassegnazione subentra alla disperazione. Per razionalizzare meglio la macchina repressiva si trasformano i governatorati in prefetture e le intendenze di circondano in sottoprefetture (9/10/1861). Così alla lealtà del governatore di Benevento Carlo Torre si sostituisce il prefetto nazionale Gallarini che striglia i maggiorenti fuggiaschi, richiama all'ordine i notabili rivoltosi, riprende la magistratura troppo sensibile alle casistiche e alle fattispecie giudiziarie e di persona si muove per un'ispezione diretta in alto Fortore e alto Sannio, chiama a rapporto le forze liberali disponibili, celebra i riti del nuovo regime e minaccia rovina e morte ai malintenzionati, ordina fucilazioni esemplari dei renitenti e dei sospetti. Una logica in atto: una logica che per un destino di maledizione comune a tutti gli ideali che cercano di dar corpo alla realtà, si veste di forme liberali ma uccide o restringe gravemente i diritti soggettivi di libertà. Lo storico non può parlare del nostro liberalismo, senza tener conto non solo dei delitti del capitalismo, che è la sua ombra, ma anche del significato profondo del principio di giustizia sociale sorto, per contrappasso, dal sangue delle vittime. Né può distogliere lo sguardo dai risvolti atroci dell'epopea storica. I libri di classe non sono testi di storia, ma di apologetica. Si tratta di testi ideologici, che vedono la parte, ma sono ciechi al tutto. Non hanno sentore dei processi dialettici, dell'idea che s'incarna nel fatto, del valore che si espone alle tentazioni del divenire, del sogno che urta contro gli scogli della realtà. Qui non è in gioco il liberalismo nella sua funzione civilizzatrice, ma il contesto operativo dei liberali meridionali, della nuova classe dirigente, che conserva, sotto la maschera, le fattezze borboniche in edizione perversa: il feudatario cambia nome e casacca, ma non sistema. Qui non vale molto lo sforzo di distinguere dalla corrente moderata-liberale la corrente mazziniana e garibaldina, confluita nelle formazioni democratiche di supporto all'impresa di occupazione del Sud. Anche il loro programma è la formula magica "Italia e Vittorio Emanuele II". Il resto è retorica trasfiguratrice: sfalsamento di piani. I democratici risorgimentali sono anch'essi della stessa pasta: piccoli borghesi che esprimono più i rimorsi della grande borghesia che le ragioni del popolo. Cialdini non esita ad arruolarli alla sua causa, ponendo fine alle discriminazioni dei suoi predecessori. Egli vede in essi gli elementi di un'alleanza fruttuosa: una naturale disponibilità a "servire lo Stato" e piantare nel nuovo terreno politico le loro radici, a confondere la loro sorte con la sorte dell'Unità italiana, senza il peso retrogrado del latifondo e della tradizione culturale relativa al dominio terriero. Francesco Crispi è in questo senso un modello. Quindi la partita non è a tre, come vuole il Molfese, ma sostanzialmente a due: borghesia e classe contadina. In questo rapporto dialettico estremamente semplificato si chiude il 1861.

4. Il tempo del brigantaggio

Il 1862 rappresenta per il Sannio beneventano una specie di cronicizzazione del conflitto tra forze armate e bande. Si convive con il pericolo, ma si controlla il territorio. Si ha l'impressione, in ambedue i fronti, di una tattica di studio attento della situazione, di una intelligenza duttile delle mosse nemiche, di temporeggiamenti furbeschi. Le bande, per sopravvivere, sono costrette, spezzate le linee di rifornimento dai centri urbani, a ricercare nelle campagne nuove fonti di approvvigionamento e a ricorrere a rapimenti e ricatti di personalità facoltose; le milizie nazionali, a loro volta, sono indotte dalle circostanze a presidiare i punti nevralgici della provincia e a costringere i banditi a movimenti brevi entro spazi limitati. Non si hanno scontri clamorosi, ma solo scaramucce e colpi di mano. L'ordine di violenza, imposto da Cialdini, sembra funzionare, almeno in linea provvisoria. Ma l'impresa garibaldina di Aspromonte (28/8/1962) è solo una buona occasione per la proclamazione di uno stato d'assedio capace di lasciar libero corso alla mano militare e mettere a tacere la voce politica. Nell'ottobre la luogotenenza è addirittura soppressa. E Cialdini è sostituito dal generale La Marmora. Anche se il 16 novembre cessa lo stato d'assedio contro l'impresa di Garibaldi, l'esercito diventa ugualmente l'arbitro della situazione. Ad esso è affidato da La Marmora il compito di ricucire il tessuto connettivo nazionale, in chiave non solo di protezione ma anche di educazione. Il sindaco di Benevento Celestino Bosco Lucarelli, cattolico-liberale, accetta questo stato di necessità e chiede aiuto al generale, come alla sola sorgente di ordine, di sicurezza, di pace sociale (20/11/1862). Un esponente dell'ala democratica sannita, Pasquale D'Onofrio, di Solopaca, intuisce le conseguenze negative di questa svolta e con lucido acume razionale critica la tattica lamarmoriana poggiante sulle guarnigioni militari, anziché sulle colonne mobili, le sole adatte ad operare flessibilmente nelle discontinuità geologiche e nella varietà morfologica del Sannio; e insieme rileva la negatività futura dell'egemonia militare sulla ragione politica (Il brigantaggio e il generale La Marmora, Napoli 1963). Ma è una voce nel deserto, comunque senza alcuna incidenza. E' un fatto che questa scelta riduce sì il potere delle bande locali ma apre la via al grande brigantaggio a cavallo, che riempie delle sue gesta il 1863. Entrano in ballo i due più famigerati capi di torme: Michele Caruso e Giuseppe Schiavone, che nella contrada beneventana di Francavilla ordinano lo sterminio di 17 soldati caduti in una trappola (2/2/1863) e il 14 marzo assalgono il capoluogo, che è salvato a tempo dal rapido intervento di Carlo Melegari. Percorrono la provincia da cima a fondo con attraversamenti fulminei. E dovunque sostengono scontri, colpiscono e distruggono, lasciandosi dietro rovine e cadaveri. Questo feroce attivismo apre la via ad un provvedimento eccezionale: nasce così la legge per la repressione del brigantaggio, con relativi decreti e regolamenti, nota comunemente col nome di Legge Pica (15/8/1863). L'attivismo è sempre più sfrenato e temerario. Alza la mira sino a personaggi altamente rappresentativi: politici e amministratori. Il 6 novembre una comitiva sbaraglia il distaccamento di Torrecuso e Paupisi, fucila i superstiti e cattura i personaggi protetti dalla scorta: Vincenzo Bianchi, padre del famoso Leonardo, e Giuseppe Mellusi, padre dell'altrettanto famoso Antonio, per lucrare il riscatto. Ma sono gli ultimi tratti dell'agonia. Il 17 dello stesso mese viene istituita la zona militare Benevento-Campobasso e affidata al generale Emilio Pallavicini di Priola. Si inaugura una nuova tattica: movimento celere di reparti a cavallo, aderente alla necessità di dar la caccia ai briganti e fuorilegge: una tattica modellata sulla disinvolta manovrabilità delle schiere di Caruso e Schiavone, poggianti sui poteri di rapidità delle incursioni di vasto respiro e insieme sulla libertà di azione delle bande locali. Si ordina alle popolazioni di ritirare i cavalli dalle masserie e concentrarli negli abitati. Così la banda di Caruso è annientata e il capo fucilato il 3 novembre a Benevento. Schiavone si rifugia in Lucania. Ma un anno dopo è giustiziato a Melfi. I galantuomini trionfano ma i contadini restano senza una via di uscita. La sola alternativa è quella indicata dal Nitti: briganti o emigranti. La legge Pica chiude la fase acuta del fenomeno brigantesco ma non impedisce la cronicizzazione della malattia, perché non ne sradica le cause strutturali. E lo stato di cronicizzazione dimostra una volta per tutte che la classe contadina meridionale non è diretta contro elementi stranieri, venuti dal Nord a turbare la giustizia del Sud, ma contro la classe dirigente interna, contro i signori o signorotti, che continuano la pratica di sfruttamento tradizionale, senza tener in alcun conto il cambiamento dello stato borbonico in stato nazionale liberate. I nemici sono i maggiorenti e i notabili che continuano a vivere di rendite, che ignorano le tecniche di miglioramento agrario, che disdegnano di intervenire nell'uso dei fittavoli per aiutarli nella lotta quotidiana contro una terra ingrata. Essi non conoscono né il liberalismo politico né il liberismo economico, non hanno idea dei diritti soggettivi, non hanno spirito imprenditoriale, non hanno credibilità. Restano immobili percettori di rendite. Nel ventennio della grande depressione che chiude il secolo, si aprono le rotte della emigrazione transoceanica. E su questa via corre verso il nuovo continente americano la speranza trepidante di un riscatto pagato con lo strazio degli affetti, l'ascetismo della fatica, le lagrime della nostalgia. Sino alla vigilia della I Guerra mondiale il flusso migratorio monta spaventosamente: è un dissanguamento terribile. Eppure, malgrado le rimesse, i risparmi di tanta povera gente. la struttura del Sud non cambia. La borghesia vive la sua belle époque. E danza inebriata sull'orlo di un abisso. Ma la classe contadina affronta il suo sacrificio più grande: la sanguinosa tragedia bellica e postbellica che si esaurisce nella dittatura fascista. I liberali, a questo punto, gettano la maschera e si aggregano al regime fascista. Le campagne ripiombano nel silenzio. Il Risorgimento nazionale non tocca il Sud, mai. Esso resta sempre in una situazione premoderna, sino all'ultimo conflitto mondiale. Il Risorgimento meridionale comincia solo dalla Costituzione repubblicana del 1948 ed è opera dei partiti e sindacati di massa che svolgono un'azione meritoria di mediazione tra le masse contadine e le istituzioni, puntando sui valori democratici di giustizia sociale, di solidarietà umana, di partecipazione attiva alla vita economica e politica. Lo stato liberale e borghese è ormai un ricordo di tempi lontani. Lo stato sociale è invece un'esperienza di vita: una conquista contraddittoria ma reale. E' questo l'esito di lotte operaie e contadine tremende; di trasformazioni profonde dell'economia di mercato, di salti tecnologici sorprendenti, di espansione capillare dell'informazione, in direzione di una società aperta, dinamica, complessa. Questo non significa la fine ma la trasfigurazione dello stato liberale. La sintesi costituzionale di libertà e giustizia è la prova che il liberalismo è un valore che non si è spento nello stato borghese, ma lo ha superato disponendosi alla democrazia, attraverso i suoi apostoli migliori. Rimpiangere oggi il mondo premoderno dei Borbone e vedere nel brigantaggio un referente ideale, anziché una tragedia storica della civiltà contadina, è fare un salto indietro pauroso. Dietro e fuori lo stato borghese di classe ha camminato il destino non solo del capitalismo, ma anche dei diritti soggettivi dell'uomo e del cittadino e le libertà civili sul binario dell'uguaglianza. Ogni qualvolta, oggi, noi parliamo di libertà di coscienza, di parola, di espressione, di comunicazione, di diritti soggettivi, di garanzie costituzionali, di pluralismo, non ci rendiamo conto, forse, che chiamiamo in causa i principi fondamentali dello stato liberale. Essi non sono più un appannaggio borghese, non hanno più un valore di classe, ma sono i punti di riferimento dell'intera società, di tutti i ceti professionali, di tutti i lavoratori, di tutti i cittadini. Vivono la loro stagione migliore in una situazione in cui le classi sociali sono scomparse o si sono alleggerite di tutti gli apparati ideologici e gli attrezzi di faziosità degli scontri violenti. E, pur nell'apparizione di altre ingiustizie, gli aspetti più atroci della tradizione feudale stanno sul punto di dissolversi di fronte alla presa di coscienza dei cittadini. Si può dire che i mezzi di comunicazione elettronici oggi consentano a tutti una partecipazione, un minimo di consapevolezza dei loro diritti e dei loro doveri. Perciò è assurdo ricordare il passato, lasciandosi trascinare da forze di gravità negative. Esso è importante ma solo se riusciamo a trasformarlo in coscienza attiva e operosa, in un senso di identità e di dignità, che si connota di sacrifici e sofferenze, di errori di ogni genere, ma nello stesso tempo si modifica e si trasforma in una prospettiva sempre più ampia e luminosa.

HOME PRINCIPALE

TORNA INDIETRO