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MORTE DI FERDINANDO II

di: Paolo Mencacci da: "Storia della Rivoluzione Italiana"

 

[...]. Ai 22 di maggio [...] 1859, all’una e mezzo pomeridiane, consolato dai santi conforti della Religione, da lui ricevuti con quell’edificante pietà, che sempre aveva pratticata in vita, il Re Ferdinando moriva [...], lasciando i suoi popoli nel pianto e il giovane suo successore in una delle più difficili situazioni, in che avesse mai a trovarsi un principe nel salire al trono. Ferdinando II era nato nel 1810, e non aveva ancora 50 anni, quando Dio volle toglierlo in tempi così gravi al Regno, che per quasi 30 anni aveva sapientemente governato. Molte parti ebbe il Re veramente grande, delle quali diede luminose pruove e nell’interno ordinamento dello Stato, e nelle esterne relazioni colle Potenze. [...] Sua gloria imperitura sarà sempre la nobile fermezza in faccia ai grandi Potentati europei, amoreggianti con la rivoluzione, e l’affettuosa figliale premura con cui accolse nei suoi Stati, nelle dolorose vicende del 1848, l’augusto Padre dei fedeli, il Sommo Pontefice Pio IX, il quale bel dimostrò quanto lo amasse, quando bandì in Roma pubbliche preghiere per la sua guarigione. Ma circa codesto luttuoso fatto colmo di luttuosissime conseguenze, rechiamo una bella pagina del De Sivo nella sua storia delle due Sicilie: "Nella vigilia dei supremi travagli d’Italia, scrive egli, Re Ferdinando, che per nome e senno poteva far argine alla piena, sentiva aggravarsi il morbo in Bari, lontano dalla Reggia, anco mancando de’ più eletti consigli dell’arte salutare. Fu da principio stimato avesse sciatica reumatica, prodotta dai freddi del viaggio; ma presto andò a miosite, che, trovato guasto il sangue, suppurò, e si stese all’anguinaia ed alla coscia, con tumori e febbri intermittenti, onde gli dettero chinino. Ciò gli irritò l’asse cerebro-spinale, e parve apoplessia e delirio, sicché accorsero con bagni e mignatte. Come si poté, menaronlo il 9 marzo, navigando 50 ore, alla Favorita (Portici); indi per la via ferrata a Caserta, ch’era il primo di Quaresima, a ore 3 ½ vespertine. Andò dalla stazione della strada alla reggia su una barella, tra la mestissima Real famiglia vestita a nero per altro suo lutto: pareva un mortorio; piangeva la popolazione benché discosta, i soldati non poteano rattenere i singhiozzi, ed ei con la voce e con la mano li confortava e salutava. Intristì; né valse, che, punto alla coscia, scaricasse copia di pus; che anzi vi uscirono più seni fistolosi, cui seguitò febbre etica, emottisi e tabe. "Durò malato 4 mesi e otto giorni, con dolori asprissimi; sopportò amarezze di medele, punte di ferri con pazienza; ebbe il viatico a’ 12 di aprile, la estrema unzione a’ 20 maggio. — Piangendo i circostanti ed anche i soldati che teneano i cerei, disse: "Perché piangete? io non vi dimenticherò." — E alla Regina: "Pregherò per te, per i figli, pel paese, pel Papa, pe’ sudditi amici e nemici, e per i peccatori." Sentendosi più male, disse: "Non credeva la morte fosse sì dolce, muoio con piacere e senza rimorso." Poi, ripigliando, aggiunse: "Non bramo già la morte come fine di sofferenze, ma per unirmi al Signore." — La notte precedente al 22, dicendo morirebbe quel dì, ordinò egli stesso la Messa e i più minuti particolari del servizio sacro. — Ebbe la benedizione Apostolica con plenarie indulgenze, delegate per telegrafo dal Pontefice al confessore, monsignor Gallo, Arcivescovo di Patrasso. Al sentirsi mancare notò che gli si scuravano gli occhi; poco stante stese la mano alla croce dell’Arcivescovo, l’altra porse alla Regina in segno di addio, poi chinò il capo sulla mammella destra e finì. — Era la domenica 22 maggio, dopo il meriggio un’ora e dieci minuti." [...]

Testamento

Presso a morire Ferdinando II dettò il testamento cui volle scritto di mano del figlio Francesco, presente la Regina, i due più grandicelli figliuoli, Luigi e Alfonso, e Monsig. Gallo, in questi sensi: "Raccomando a Dio l’anima mia, e chiedo perdono ai miei sudditi per qualunque mia mancanza verso di loro, e come sovrano e come uomo. Voglio che, eccetto le spettanze matrimoniali alla Regina, e gli oggetti preziosi con diamanti al mio primogenito, si facciano della mia eredità dodici uguali porzioni: vadano una alla Regina, e dieci ai miei dieci cari figli. La dodicesima a disposizione del primogenito, stabilisca Messe per l’anima mia, sussidii a’ poveri, e restauri e costruzioni di chiese nei paesetti che ne mancassero sul continente e in Sicilia. I secondogeniti entreranno in possesso compiuti gli anni trentuno; sino a qual tempo, ancorché fossero coniugati, staranno a spese della real casa. Ciascuna quota di secondogenito, sarà a vincolo di maggiorato; e ove si estingua, torni a casa reale. Delle quattro porzioni delle femmine voglio da ciascuna si tolga il terzo, il resto sia loro proprietà estradotale, con vincolo d’inalienabilità; e se maritate finissero senza figli, ritornino a casa reale. Da tai prelevati quattro terzi dono ducati 20 mila a ciascuno de’ miei quattro fratelli, Carlo, Leopoldo, Luigi e Francesco; ducati 15 mila al principe di Bisignano, e ducati 5 mila alla gente del mio servizio. Del rimanente si cresca la porzione dei maschi secondogeniti, ma disugualmente, distribuita in ragione diretta degli anni di età di ciascuno; affinché i minori di età abbiano col moltiplicamento di più anni raggiunta la porzione pari a quella dei maggiori fratelli. La villa Capossele a Mola, come bene libero, lascio al mio primogenito, al mio caro Laso (così per vezzo l’appellava). E voglio questa mia disposizione abbia forza di legge di famiglia, non soggetta a giudizio di magistrato, ma giudice unico ed arbitro ne sia il mio successore e chi lo seguirà." "Questa eredità privata, continua il De Sivo, era diversa dai beni di casa reale, componevasi di rendite napolitane, siciliane ed estere, oggetti preziosi valutati 60,787 ducati, 41,377 ducati trovati in oro, e altre parecchie carte di crediti su casse di difficile esazione. Tutta la eredità disponibile fu stimata 6,795,080 ducati; però ne spettarono a Francesco 566,256 e 69, ed altrettanti alla vedova Regina; 756,521 e 92 al Conte di Trani, e agli altri minori fratelli poco meno, in proporzione delle età. Le Principesse ebbero per ciascuna ducati 377,504 e 46 inalienabili, fuorché la rendita da porsi a frutto. Francesco volle entrassero nella sua porzione i valori di difficile esazione; ma la Regina vedova, gareggiando di sensi generosi, nol sofferse e ne tolse la metà nella sua parte. "Vegga dunque il lettore quanti fossero i milioni lasciati dallo economo Ferdinando in ventinove anni di ricco regnare, risparmiati dalla sua lista civile, e da’ frutti delle doti di due mogli, moltiplicati in tanti anni. E la setta predicavali innumerevoli e rubati alla nazione! Inoltre aveva spesi due milioni per riedificare l’arsa reggia di Napoli, e altri per quelle di Caserta e Capodimonte. Coi beni di Casa reale aveva maritate le sue quattro sorelle, provveduto di maggioraschi i fratelli, ciascuno di ducati 60 mila. Sempre ospitale a Imperatori, a Re, a Papi, aveva con giusto fasto sostenuto il decoro della sua casa e del reame. Dappoi, quando la calunniatrice setta entrò in trionfo nella misera Napoli, confiscò ogni cosa alla Casa Borbone: i risparmi degli orfani, l’economie annose, le doti delle Regine e Principesse, e tutto quasi fosse cosa del regno rapito!" [...].

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