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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

LATIFONDO E USI CIVICI, PRAMMATICA 1792, EVERSIONE DELLA FEUDALITA', USURPAZIONI DELLE TERRE DEMANIALI, ADESIONE DEI GALANTUOMINI AL NUOVO REGIME

 di Tommaso Pedio

da: "Brigantaggio Meridionalei" Capone Editore, Cavallino di Lecce, 1997

[…] Come abbiamo sempre sostenuto contro chi, sin dal 1948, ci ha tacciato di "fazioso populismo", esso [il brigantaggio ndr] ha le sue origini in una serie di fattori economico-sociali. Tra essi emergono la concentrazione della grande proprietà terriera nelle mani di pochi, il latifondo, la fame di terra accresciuta dopo le leggi eversive e la insoluta questione demaniale. A ciò si aggiungono lo stato di miseria in cui, privati degli usi civici, versano i ceti subalterni, la posizione assunta dalla ricca borghesia agraria tenacemente unita in difesa dei propri interessi contro le aspirazioni e le richieste dei contadini, il servilismo della classe dirigente impegnata soltanto a lasciare immutate le preesistenti strutture economico-sociali del paese e la cieca politica governativa che ignora i bisogni, le aspirazioni e i diritti dei contadini meridionali e non interviene per sottrarli alla miseria che li opprime. Latifondo ed usi civici hanno sempre condizionato la storia del Mezzogiorno d'Italia: affrontati, ma non risolti dai Borboni di Napoli, regolati in maniera da aggravare le condizioni di vita dei contadini meridionali dalle leggi eversive della feudalità promulgate durante il Decennio francese, lasciati insoluti anche dopo l'annessione delle province napoletane al Piemonte, essi hanno contribuito a rendere sempre più profondo il divario tra il nord e il sud della penisola. Già alla fine della dominazione spagnola nelle varie regioni italiane si presentano profonde differenziazioni nelle strutture economico-sociali che saranno ancora più evidenti nella seconda metà del Settecento anche nei due vecchi domini spagnoli, il Ducato di Milano e il Regno di Napoli. In Lombardia la terra ha subito una radicale trasformazione, la produzione è aumentata e nell'economia del paese si è inserita autorevolmente una nuova classe sociale che ha vasti interessi nell'agricoltura. La vecchia nobiltà feudale non è più parassitaria: pur senza perdere gli antichi privilegi, essa si è imborghesita ed ha validamente concorso alla rinascita economica del paese. A Napoli, invece, dove illuministi e uomini nuovi hanno sollecitato, seguito e collaborato all'opera riformatrice del sovrano, non si sono ottenuti i risultati conseguiti in Lombardia. Eppure Milano e Napoli hanno subito le stesse dominazioni: spagnoli prima e poi austriaci. Milano è rimasta dominio austriaco, Napoli, invece, dal 1734, ha riacquistato con Carlo di Borbone l'indipendenza e l'autonomia. C'è qualcosa, indubbiamente, a Napoli che ostacola l'opera riformatrice del sovrano e impedisce la formazione di una nuova classe sociale che, in altri paesi italiani, ha già assunto posizioni di particolare rilievo. Non è tanto facile nel Mezzogiorno d'italia trasformare le strutture economiche del paese, nè quelle sociali e non soltanto per la posizione che il clero mantiene in questo paese e per i rapporti con la Curia Romana che considera proprio vassallo il sovrano di Napoli. Alla trasformazione della società meridionale si oppone una situazione di fatto che non sfugge, certamente, a chi si chiede perché mai nei vecchi domini spagnoli i principi riformatori abbiano conseguito risultati tanto diversi e a Napoli non siano riusciti a rompere il latifondo che costituisce l'ostacolo maggiore alla ripresa economica del paese. Ad impedire nelle province del vecchio viceregno spagnolo la formazione di una consistente borghesia che possa dare nuovo impulso alla vita del paese è l'istituto feudale che, così come regolato nel Regno di Napoli, mantiene inalterata, anche se in mani diverse, la distribuzione della proprietà feudale. Quando in altri paesi della penisola italiana la proprietà feudale ha cessato in gran parte di essere tale, in Italia meridionale essa rimane inalterata nella sua entità e nella sua struttura: anche se muta padrone, essa non viene dimezzata o polverizzata. Gli antichi e nuovi feudatari, coloro che hanno ereditato il feudo o coloro che lo hanno acquistato non possono modificare o ridurre l'estensione. In Italia meridionale il feudo è indivisibile: il diritto franco, che ne regola la successione e il trasferimento, sancisce che il feudo deve essere trasmesso "unito" da primogenito a primogenito e soltanto "unito" può essere venduto ed acquistato. In altre regioni, invece, dove la successione feudale è regolata iure Langobardorum, il feudo non è considerato una unità indivisibile: esso viene trasmesso non al primogenito, cui spetta soltanto il titolo, ma a tutti gli eredi maschi del feudatario per cui, suddiviso in quote tra i vari eredi, finisce con lo scomparire nel giro di poche generazioni (1). Rilevanti nella distribuzione fondiaria e, quindi, nella struttura sociale ed in quella economica le conseguenze derivanti dal sistema che regola l'istituto feudale: dove questo è regolato iure Langobardorum il latifondo feudale si sgretola e la media e la piccola proprietà caratterizzano la distribuzione feudale e favoriscono più razionali colture agrarie con notevoli vantaggi nella economia del paese. Dove, invece, l'istituto è regolato iure Francorum il latifondo feudale, anche se muta padrone, rimane indivisibile e non consente migliori e più razionali metodi di coltura. Non è possibile, infatti, introdurre nuove colture nei latifondi feudali anche perché gli usi civici non consentono la trasformazione del paesaggio agrario: le terre salde sulle quali i vassalli del barone esercitano l'uso civico di pascolo non possono essere messe a coltura, nè nuove colture possono essere impiantate nelle terre feudali sulle quali si esercita l'uso civico di semina o quello di spigolatura (2). Persistendo il latifondo in tutti i suoi aspetti negativi, il Mezzogiorno d'Italia continua a subire tutte le conseguenze dei mali che, da secoli, caratterizzano la sua vita politica, economica e sociale e che l'assolutismo illuminato prima e poi, dopo le riforme attuate durante il Decennio francese, il paternalismo borbonico non riescono a superare nonostante i vari tentativi diretti a migliorare le condizioni generali del paese. Nonostante il latifondo, contrariamente a quel che hanno sostenuto gli economisti napoletani del Settecento, prima dell'eversione della feudalità nel Regno di Napoli è molto diffusa la proprietà privata e, in particolare, la piccola proprietà contadina ed irrisorio nelle province napoletane è il numero dei mendici, ossia degli impossidenti. Nei paesi meridionali tutti i contadini, fatte pochissime eccezioni, sono proprietari di piccole estensioni di terra e tutti -galantuomini, civili, artigiani e contadini- sono generalmente proprietari della casa in cui abitano. Si tratta, per i contadini, di beni aventi in genere un valore irrisorio e gravati molto spesso da censi bollari, insufficienti ad assicurare ai loro proprietari l'indispensabile per vivere. Nè i contadini possono contare su un lavoro stabile: prevalente la coltura estensiva, la grande proprietà terriera non è in grado di soddisfare la richiesta di lavoro che è sempre superiore all'offerta. Riescono, però, i contadini ad integrare il loro reddito usufruendo degli usi civici di pascolo, di legnatico, di semina, di spigolatura, gravanti sulle vaste proprietà baronali ed ecclesiastiche e sui demani universali. Ma il loro reddito, anche se integrato in misura rilevante dall'esercizio degli usi civici, rimane sempre irrisorio ed insufficiente a soddisfare i più elementari bisogni di vita (3). Non soltanto le miserrime condizioni dei contadini, ma anche l'incuria con cui i baroni amministrano i propri beni feudali e il tenere incolte le vaste estensioni di terreno che non possono essere messe a coltura perché destinate all'esercizio degli usi civici costituiscono problemi che la più evoluta pubblicistica politica napoletana intende affrontare e risolvere. Prevalenti i vasti latifondi e, di conseguenza, la coltura estensiva, non mancano nella Napoli del Settecento voci sempre più autorevoli che sollecitano una più equa distribuzione della proprietà fondiaria. Finchè le leggi restringeranno nella mani di pochi tutta la proprieta... finché le leggi e gli usi feudali non saranno riformati e il contadino sarà costretto a lavorare terra non sua, finché la sua fatica non sarà unita alla speranza di migliorare la sua condizione, non sarà possibile -ritiene nel 1780 Gaetano Filangieri- incrementare l'economia del paese. Necessaria, quindi, per il progresso economico del paese, la formazione di un numeroso ceto di agricoltori coltivatori diretti e non più salariati al servizio di avidi proprietari terrieri e di esosi feudatari (4). La denunzia di Gaetano Filangieri non è una voce isolata. Per creare un numeroso ceto di medi e di piccoli proprietari bisognerebbe -ha sostenuto Antonio Genovesi nella sua nota introduttiva all'edizione napoletana del 1769 de "L'agricoltore sperimentato" del Trinci -livellare o censurare in perpetuo i fondi che sono in mano di coloro che non possono o non debbono coltivare. Bisognerebbe -ripete nel 1789 Giuseppe Palmieri - distribuire a chi vuole e può meglio coltivare le vaste tenute o inculte o mal coltivate (5). Ma ancora oltre vanno Matilde Perrino e Francesco Longano: per incrementare l'agricoltura, sostiene la prima, bisognerebbe cedere in enfiteusi a chi intende lavorarle le terre universali o feudali mantenute incolte (6) o addirittura, sostiene il secondo, imporre ai feudatari di censuare le loro terre incolte o mal coltivate (7). Queste voci non sono isolate: convinto che l'aumento dei proprietari sia il principale oggetto della moderna economia e che la censuazione solamente è la più adatta alla politica perché non distrae, conserva la rendita allo Stato e costituisce tanti proprietari, Giuseppe Maria Galanti sollecita il potere centrale non solo a concedere in enfiteusi tutte le terre feudali che, per incuria dei baroni, rimangono incolte, ma anche ad iniziare una graduale azione diretta all'abolizione del sistema feudale (8). In questo sistema, che caratterizza ancora la struttura economico-sociale della società napoletana, e nell'esercizio degli usi civici sulle terre salde del demanio feudale o universale sono, infatti, a giudizio di molti, le cause della decadenza dell'agricoltura. Ormai a Napoli si è convinti che per dare un effettivo incremento all'agricoltura occorre spezzare il latifondo e mettere a coltura le vaste estensioni di terra salda alla cui trasformazione si oppone il diritto di chi su esse esercita l'uso civico. Nessuno, però, propone una radicale riforma: il sistema feudale -sostiene il Galanti- va distrutto con quella moderazione, però, che si conviene alla dolcezza del nostro Governo (9). Si è ormai preparati a Napoli alla abolizione del sistema feudale ed allo smembramento del latifondo per consentire una più equa distribuzione della proprietà fondiaria. Convinti, inoltre, che per incrementare l'agricoltura sia indispensabile legare il contadino alla terra per indurlo a coltivarla meglio, si intende non escluderlo dalla nuova distribuzione fondiaria trasformandolo da salariato in piccolo coltivatore diretto. E' troppo noto -aveva rilevato il Genovesi nel "Ragionamento intorno all'agricoltura" nelle sue "Lezioni di commercio"- quanta differenza passi tra il coltivare un podere proprio e lavorare gli altrui fondi. I feudi incamerati dalla Corona consiglia il Galanti - non dovrebbero essere rimessi in vendita nella loro unità con la giurisdizione e con i privilegi feudali. Mutata la loro destinazione da beni feudali in beni allodiali, liberati da ogni peso e da ogni servitù e, quindi, anche da usi civici, e frazionate in più quote, le terre dei feudi incamerati dovrebbero essere cedute in enfiteusi. Per l'incremento dell'agricoltura andrebbero anche aboliti gli usi civici perché il loro esercizio non consente la messa a coltura delle terre salde gravati di tali usi. Ma, allo scopo di salvaguardare i diritti acquisiti si sostiene che, a risarcimento della perdita degli stessi non più esercitabili sulle terre messe a coltura, debba essere destinata ai naturali parte della terra corrispondente al valore degli usi civici non più esercitati sulle terre salde destinate a coltura. Questa quota, separata dalle terre del feudo in cui la Corona dispone non più come beni feudali, ma come beni allodiali liberi da pesi e da servitù, dovrebbe essere suddivisa ed assegnata in enfiteusi ai naturali, contadini o borghesi, titolari dell'esercizio dei soppressi usi civici (10) . Questa voce è accolta dal sovrano: Ferdinando IV si convince che per incrementare l'economia del paese occorre innanzi tutto migliorare le condizioni dell'agricoltura mediante uno sfruttamento più razionale della terra. Il che è possibile soltanto riducendo il latifondo e creando un numeroso ceto di piccoli e di medi proprietari terrieri trasformando i contadini da salariati in piccoli coltivatori diretti. Anche dopo l'esperimento della Cassa Sacra in Calabria (11), si continua ad insistere perché il sovrano adotti provvedimenti per consentire la formazione di una piccola e di una media proprietà contadina e borghese: l'accrescere il numero de' proprietari é il principale oggetto della moderna economia, afferma Giuseppe Maria Galanti nel sostenere l'opportunità di concedere in enfiteusi terre che, per incuria dei proprietari, rimangono incolte o mal coltivate (12). Riconosciuto il danno che all'economia del paese arrecano l'incuria con cui i grossi proprietari amministrano i loro beni fondiari e l'abbandono in cui vengono tenuti i vasti demani universali e feudali, con la prammatica XXIV De administratione Universitatum del 23 febbraio del 1792, Ferdinando IV consente di censire i terreni demaniali di qualunque specie, universali o feudali, e di assegnarli in enfiteusi ai contadini meno provveduti di terra... nella misura che possano coltivarli colla propria opera. I naturali non saranno danneggiati per la perdita degli usi civici non più esercitabili sulle terre salde demaniali destinate ad essere cedute in enfiteusi e, quindi, ad essere coltivate: l'uso civico -si sancisce nel par. XI della prammatica- si potrà valutare e compensarsi con una porzione delle terre del Demanio medesimo che sarà d'intiera proprietà delle Università. Salvo diversa valutazione dell'uso civico, potrà soltanto il Barone fare uso della quarta parte del Demanio suddeto per uso de'suoi animali e cultura, e le altre tre parti si dovranno censuare. Questa prammatica non viene accolta favorevolmente nè dai baroni, che si vedono privati dei loro demani, nè dalla borghesia provinciale la quale mal sopporta di essere posposta ai contadini nella concessione in enfiteusi delle terre demaniali sulle quali anch'essa ha esercitato ed esercita gli usi civici. Ad ostacolare l'attuazione di queste norme non è soltanto il barone, ma soprattutto la borghesia provinciale che, per il pascolo dei propri animali, ha interesse a mantenere salde queste terre per continuare ad esercitarvi gli usi civici. Di queste norme, però, si avvalgono nel 1799 i radicali per immettere, in alcune province, i contadini nelle terre feudali allo scopo di averli alleati in difesa della Repubblica Napoletana (13). Ma a Napoli, in seno al Governo repubblicano, elementi interessati a non irritare i baroni e la ricca borghesia provinciale, non approvano la posizione radicale che sostiene l'incameramento dei beni feudali e la censuazione dei demani. Essi sostengono, invece, il progetto di Mario Pagano secondo il quale, abrogati i privilegi giurisdizionali ed aboliti i diritti e le servitù personali, i baroni devono essere riconosciuti proprietari e non già possessori dei loro feudi. Non riesce, però, questa corrente ad impedire che nel progetto sia accettato il principio sancito dalla prammatica borbonica del 1792: il Comitato Legislativo propone che dei demani feudali sui quali gravano usi civici, ai baroni sia rilasciata in proprietà una quarta parte soltanto della terra e i rimanenti tre quarti passino nel patrimonio delle Municipalità. Quest'ultima parte viene, però, modificata: la legge del 25 aprile riconosce ai baroni la proprietà delle terre feudali ad eccezione dei demoni detti feudali sopra de' quali i Cittadini...esercitano in qualunque maniera l'uso civico di pascere, di seminare ed altro. Questi demani, ai sensi dell'art. VIII della legge con la quale la Repubblica Napoletana ha abolito la feudalità, appartengono intieramente alle Comuni che dovranno quotizzarli e assegnarli in enfiteusi ai contadini poveri. Ma questa legge non viene osservata: i Comuni non riescono ad ottenere i demani feudali loro spettanti e, dopo la caduta della Repubblica, i baroni rientrano in possesso delle terre che in alcune province i contadini hanno occupato nel marzo e nell'aprile del 1799 (14). Dopo il ritorno dei Borboni a Napoli la questione demaniale continua ad essere regolata dalla prammatica del 1792 ai cui principi si uniforma la legislazione francese nel procedere all'eversione della feudalità (15). Affermato il principio che i beni ex feudali devono essere riconosciuti proprietà di chi ne ha in buona fede il possesso, a compensare la perdita degli usi civici, il cui esercizio non è più consentito sugli ex beni feudali divenuti allodiali, le leggi eversive promulgate dal legislatore francese riconoscono proprietà degli ex vassalli una quota, da un terzo ad un quarto, degli ex beni feudali sui quali i naturali hanno, da tempo immemorabile, esercitato gli usi civici. Questa quota, riconosciuta proprietà degli ex vassalli a risarcimento della perdita degli usi civici, viene affidata ai Comuni perchè questi procedano alla quotizzazione e all'assegnazione in enfiteusi ai contadini meno abbienti con esclusione soltanto di quelle terre che, mantenute o ridotte a bosco, dovrebbero costituire beni del demanio comunale sui quali viene mantenuto l'uso civico di legnatico sul secco e sul morto a terra. Chiusa agli usi civici la terra divenuta, per effetto della legge eversiva, bene allodiale dell'ex barone, i naturali possono ancora esercitare l'uso civico soltanto sulla quota assegnata ai Comuni sino a quando non sarà, provveduto alle operazioni di assegnazione delle quote ai singoli enfiteuti. Dall'eversione della feudalità i contadini non hanno certo tratto alcun vantaggio, nè alcun utile. Erano poveri, oggi sono ancora più poveri. Preoccupato soltanto di non irritare la nobiltà e la ricca borghesia provinciale, il legislatore ha ignorato i bisogni e le necessità dei contadini. Acuito dalla incomprensione della nuova classe dirigente che difende egoisticamente i propri interessi, ha inizio per i contadini meridionali un periodo di fame e di miseria. Lo stato di indigenza li esaspera ed alimenta e rafforza in essi un odio profondo contro chi detiene il potere e che non tarderà a manifestarsi nella lotta armata per il diritto alla vita. Ferdinando IV di Borbone nella sua prammatica del 1792 aveva sancito che ai contadini dovevano essere assegnate, nella misura che potevano coltivarle colla propria opera, le terre più prossime agli abitati. Il legislatore francese, invece, non tiene conto che, per trasformare il contadino in piccolo coltivatore diretto, occorre fornirgli terra sufficiente per il numero dei componenti della famiglia dell'enfiteuta. A differenza del Borbone, che si è preoccupato di assegnare terra sufficiente al contadino per trasformarlo da salariato in coltivatore diretto, il legislatore francese non tiene conto del numero dei componenti della famiglia del contadino: le quote da assegnarsi si aggirano tutte sui 2-4 tomoli e ad esse concorrono i contadini indipendentemente dalla composizione del loro nucleo familiare. Non si chiede, inoltre, il legislatore come farà il contadino assegnatario a vivere sino a quando la quota toccatagli in sorte darà il primo prodotto: nessun provvedimento, infatti, viene adottato per mettere gli assegnatari nelle condizioni di porre a coltura la terra loro assegnata. Non solo essi devono corrispondere il canone enfiteutico e, sin dal primo momento dell'assegnazione, provvedere al pagamento della fondiaria, ma, se vogliono effettivamente dissodare e mettere a coltura le quote loro assegnate, non potranno certo recarsi a lavorare altrove dovendo dedicare molto del loro tempo e della loro opera alla propria terra. In attesa quindi che la terra loro assegnata dia i suoi frutti, ridotte le loro già scarse entrate, essi non potranno certo provvedere al minimo indispensabile per l'alimentazione della propria famiglia. Ha fissato un termine il legislatore per la quotizzazione delle terre da assegnarsi in enfiteusi ai contadini. Ma questi termini non vengono osservati. Gli intendenti subentrati alla Commissione Feudale nel compito di provvedere alla esecuzione della quotizzazione e della assegnazione delle terre demaniali ai contadini, ritardano tali operazioni per non irritare la ricca borghesia provinciale che intende usufruire anche essa dell'uso civico che non potrà più essere esercitato una volta concluse le operazioni demaniali con l'assegnazione delle singole quote di enfiteusi agli aventi diritto. L'eversione della feudalità e l'incameramento dei beni dei monasteri soppressi che, nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto realizzare una più equa distribuzione della proprietà fondiaria, incrementare la piccola proprietà contadina e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori della terra, hanno come conseguenza, invece, l'immiserimento delle già misere popolazioni rurali. Gli ex beni feudali affidati ai Comuni per essere quotizzati e distribuiti in enfiteusi mutano di fatto la loro destinazione: i Comuni, amministratori di questi beni, anziché provvedere alla quotizzazione e alla loro assegnazione agli aventi diritto, concedono in locazione ai grossi proprietari terrieri parte e, a volte, gran parte dei demani in loro possesso consentendo che i locatori li chiudano all'uso civico. E dal possesso all'usurpazione il passo è breve: nel giro di pochi decenni i contadini meridionali si vedono negato l'esercizio degli usi civici su queste terre che i possessori usurpano trasformandone il possesso in proprietà. Ai contadini non sono destinate neppure le terre degli enti religiosi soppressi incamerati dallo Stato. Il potere centrale, per far fronte alle spese che gravano sul bilancio dello Stato, dà una diversa destinazione a queste terre: anziché segnarle secondo i propositi originari a piccoli e medi proprietari allo scopo di realizzare una più equa distribuzione della proprietà fondiaria, o ai contadini per trasformarli in piccoli o medi coltivatori diretti, pone quote terre in vendita e, soltanto per quelle terre sulle quali veniva esercitato l'uso civico, riserva una quota da assegnare ai contadini meno abbienti. Ma anche queste terre destinate ai contadini rimangono a disposizione della ricca borghesia provinciale interessata a sottrarre anche queste terre a chi su di esse ha diritto. Nessun pratico beneficio, quindi, hanno tratto da queste leggi i contadini meridionali. Il profondo rivolgimento prodotto nell'economia e nei rapporti sociali dall'eversione della feudalità e della soppressione della manomorta ecclesiastica ha giovato all'antica nobiltà e alla ricca borghesia. E' vero che gli ex baroni hanno dovuto rinunziare ad una parte dei loro beni fondiari per conpenso di usi civici, ma la terra che essi hanno mantenuto è ora libera da ogni peso e da ogni servitù e su questa nessuno può pretendere di esercitare gli usi civici. Questi possono essere esercitati soltanto su quella parte che, spettante ai comunisti (16), è stata affidata ai Comuni per essere quotizzata e distribuita tra i contadini meno abbienti. Ma anche questa terra viene di fatto sottratta ai contadini da avidi proprietari terrieri che questa terra usurpano con la complicità delle autorità costituite. Nessun beneficio, inoltre, ha tratto il contadino povero dalla soppressione degli enti ecclesiastici possidenti. Da essi ha tratto vantaggio soltanto chi ha potuto acquistare la terra posta in vendita dallo Stato che non si è preoccupato di formare piccole quote di queste terre in modo da consentire al contadino di partecipare e concorrere alla vendita delle terre incamerate. La perdita degli usi civici ha negativamente influito sulle condizioni economiche dei contadini e ha fatto sparire la piccola proprietà contadina nelle campagne dell'antico Regno di Napoli. Non più consentito agli enti ecclesiastici l'acquisto di censi, i contadini sono ora costretti a ricorrere ai galantuomini i quali prestano volentieri piccole somme ad alto interesse. Il contadino difficilmente ha la possibilità di estinguere il suo debito alla scadenza e il suo creditore finisce presto con l'impossessarsi dei beni del debitore. In tal modo, nel giro di pochi anni, la piccola proprietà, e in particolare quella contadina, scompare assorbita nelle grandi proprietà. Le condizioni del contadino diventano sempre più precarie. Oltre la terra, egli ha perduta, sottrattagli dai suoi creditori, anche la casa nel centro abitato. Egli ora non dispone di nulla: abbandonato nella sua disperata miseria, egli aspira soltanto alla terra che è stata affidata ai Comuni per essere quotizzata e distribuita in enfiteusi ai meno abbienti. Ma queste operazioni ritardano: poiché su queste terre tutti i naturali -siano essi ricchi proprietari o -inpossidenti, galantuomini o cafoni- possono ancora previo pagamento della fida esercitare gli usi civici sino al momento della quotizzazione e della assegnazione delle singole quote agli aventi diritto, a queste operazioni si oppongono quei galantuomini che, arbitri della vita amministrativa nei propri paesi, hanno monopolizzato l'esercizio degli usi civici sulla quota destinata ai contadini indigenti. Quali naturali, i più autorevoli galantuomini ottengono l'assegnazione di queste terre demaniali e, disponendone a titolo enfiteutico, le chiudono all'uso civico e le locano per un canone di gran lunga superiore al censo enfiteutico che corrispondono al Comune. Di conseguenza il contadino perde l'uso civico anche sulla quota dei demani ad essi riservati che l'arbitrario enfiteuta loca come pascolo o anche come terre seminative. Le agitazioni contadine verificatesi nelle campagne meridionali nel 1848 (17) denotano una pericolosa situazione che, ripresentatasi nel 1860 ed acuitasi dopo la caduta dei Borboni (18), minaccia di degenerare in rivolta sociale (19). Pur allarmata dal fermento presente nelle campagne, la borghesia meridionale continua ad opporsi alle richieste dei contadini ed accetta l'annessione incondizionata al Piemonte ed aderisce al nuovo regime perché questo, allo scopo di attirare nel movimento liberale la vecchia classe dirigente borbonica e la ricca borghesia meridionale, assicura di mantenere immutate le preesistenti strutture economico-sociali. Dalle province, dove si teme la rivolta dei contadini, non si chiede di condannare le usurpazioni. Si sollecita soltanto, prima del plebiscito, un espediente che più che allo stesso diritto si appoggiasse alla equita' e che fosse dettato non solo dalla giustizia, ma eletta politica di necessita. Se è giustizia ritorre le usurpazioni e secondo la legge spartire a' nulla tenenti i beni demaniali, sarebbe di necessità politica -tiene a far presente il 6 ottobre del 1860 il pro-dittatore di Basilicata nel rispondere ad un quesito rivoltogli da Napoli- non disgustarsi la classe de' proprietari, che sono pur la forza delle Nazioni, e che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l'attuale ordine di cose. In conclusione i liberali lucani, attraverso il loro governo, chiedono di dividere e quotizzare a' nulla tenenti, col pagamento di un certo canone, i beni demaniali di cui sia il Comune presentemente in possesso di fatto, censire a' proprietari stessi riportati come usurpatori de' demoni, quei fondi che il Comune vorrebbe pretendere come demaniali e per tal modo rispettare lo statu quo e legittimare questo possesso anomalo (20). Dopo il plebiscito del 20 ottobre e il fallimento dei primi tentativi legittimisti borbonici, nessun provvedimento viene adottato per rimuovere le cause che, sia dal luglio, hanno provocato le prime agitazioni contadine. Il nuovo regime, per non inimicarsi la ricca borghesia provinciale, e i galantuomini che ad esso hanno aderito non vogliono rendersi conto che all'origine del malcontento che si profila nelle campagne meridionali sono le condizioni di miseria in cui vivono i ceti subalterni, le delusioni seguite alla illusione che il nuovo regime avrebbe tolto finalmente le terre agli usurpatori e la ferocia con cui sono state represse le prime manifestazioni contadine. Convinti di poter dominare la situazione con la forza dell'esercito piemontese, i galantuomini meri dionali non intendono cedere alle richieste dei paria. Lasciando immutate le preesistenti strutture economico-sociali, il potere centrale non affronta la questione demaniale (21) e non vuole convincersi che le cause della rivolta contadina che minaccia seriamente il nuovo Stato unitario sono da ricercarsi nel non aver provveduto alla reintegra delle terre usurpate e nel ritardare la quotizzazione e rassegnazione delle terre demaniali ai contadini. Rinunziando ad una politica che, se contrastante con gli interessi della borghesia meridionale, avrebbe però soddisfatto quelli dei contadini, il governo mantiene nel Mezzogiorno d'Italia uno stato di agitazione che presto degenera in aperta ribellione. Contro i ribelli il governo adotta la maniera forte: si avvale dell'esercito regolare e ricorre ad una feroce e spietata repressione che acuisce i contrasti e rende inevitabile la degenerazione della rivolta contadina. Nessun uomo politico, liberale e conservatore, democratico o moderato, intuisce il movente che spinge alla rivolta i contadini meridionali, che pur avevano aderito nell'estate del 1860 al movimento insurrezionale nella illusione che Garibaldi avrebbe finalmente tolta la terra agli usurpatori e distribuite le terre demaniali agli aventi diritto (22). In un presunto sentimento di devozione all'antico sovrano la classe dirigente vuol trovare le cause che spingono i contadini alla rivolta. E nei ribelli ravvisa lo strumento inconsapevole di forze politiche che sfruttano la superstizione, l'ignoranza e lo stato di spaventosa miseria in cui versano i ceti subalterni per spingerli ad opporsi al nuovo regime assicurando loro che, al suo ritorno a Napoli, Francesco II avrebbe saputo ripagare chi aveva combattuto per la sua causa.

NOTE

(1) Oltre F. Ammirati, Il puro gius feodale napoletano ossia Raccolta delle leggi feudali del Regno, Napoli, Presso Antonino Verricuto, 1794, da ultimo R. Trifone, Feudi e demani nell'Italia meridionale in AA. VV., Problemi dell'agricoltura meridionale, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1953.

(2) In proposito cfr. Gli aspetti economici e sociali della Questione Meridionale in T. Pedio, Brigantaggio e Questione Meridionale.

(3) Cfr. La Questione Meridionale in T. Pedio, Aspetti della vita italiana dall'Uniti alla prima guerra mondiale (1860.1914), Matera, Montemuno, 1971.

(4) G. Filangieri, La scienza della legislazione.

(5) G. Palmieri, Pensieri politici relativi al Regno di Napoli, Napoli, 1789.

(6) M. Perrino, Lettera ad un suo amico nella quale si contengono alcune sue riflessioni fatte in occasione del sue breve soggiorno in alcuni luoghi della Puglia, Napoli, 1787.

(7) F. Lonfano, Viaggio per lo Contado del Molise e per la Capitanata, Napoli, 1788.

(8) G. M. Galanti, Testamento forense, Venezia, Antonio Graziosi, 1806.

(9) G. M. Galanti, Testamento forense, Venezia, Antonio Graziosi, 1806.

(10) G. M. Galanti, Testamento forense, Venezia, Antonio Graziosi, 1806.

(11) Oltre N. Cortese, La Calabria Ultra alla fine del sec. XVIII in "Rivista Critica di Cultura Calabrese", 1921, ed ora in Il Mezzogiorno e il Risorgimento Italiano, Napoli Libreria Scientifica Italiana, 1965, sulla istituzione e sul finanziamento della Cassa Sacra, istituita nel giugno del 1784 per provvedere alla ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto abbattutosi sulla Calabria nel febbraio del 1783, cfr. A. Placaniza, Cassa Sacra e beni della Chiesa nella Calabria del Settecento, Napoli, 1970.

(12) Cfr. T. Pedio, Storia e politica in Giuseppe Maria Galanti in' "Studi Storici Meridionali", 1981.

(13) Sulla occupazione delle terre feudali da parte dei contadini in alcune province continentali del Mezzogiorno d'italia durante la Repubblica Napoletana oltre T. Pedio, Uomini aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799, anche dello stesso a., Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale.

(14) In proposito cfr. T. Pedio, La Repubblica Napoletana del 1799, Bari, Edizioni levante, 1986.

(15) Cfr. T. Pedio, L'eversione della feudalità in AA.VV., Il decennio francese in Puglia (1808-1815) - Atti del 2° Convegno di Studi sul Risorgimento in Puglia, Bracciodieta Editore, Bari, 1981.

(16) Con questo termine sono indicati, nell'art 12 del Decreto 3 giugno 1807, quei naturali... che esercitavano i diritti degli usi civici e tra cui dovrà effettuarsi la ripartizione de' terreni ex feudali costituenti la quota assegnata ai Comuni per essere quotizzata ed assegnata in enfiteusi ai contadini meno abbienti.

(17) Cfr. T. Pedio, I moti contadini del 1848 nelle province napoletane, e dello stesso a., Classi e popolo nel Mezzogiorno d'Italia alla vigilia del 15 maggio 1848, Bari, Edizioni Levante, s.a., 1984.

(18) Cfr. per tutti F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità..

(19) Come già Antonio Mosca, il deputato lombardo che, relatore della commissione parlamentare sul "Rapporto La Marmora", ravvisò nel brigantaggio un atroce antagonismo fra i proletari ed i proprietari terrieri (su questa "Relazione" rimasta segreta cfr. F. Molfese. Storia del brigantaggio dopo, l'Unità) anche nella più recente storiografia non mancano autori (ad esempio il Del Carria, Proletari senza rivoluzione) che nel brigantaggio postunitario ravvisano una vera e propria lotta di classe. In proposito cfr. M. Spagnoletti, Studi e ricerche.

(20) In T. Pedio, Vita politica in Italia meridionale.

(21) Ancora dopo l'Unità la questione demaniale continuò ad essere causa di gravi agitazioni sociali e il nostro legislatore, uniformandosi allo spirito delle leggi eversive promulgate a Napoli durante il Decennio francese ed accettando la soluzione insistentemente proposta a difesa del diritto del possessore del fondo da Giustino Fortunato (cfr. La questione demaniale nell'Italia meridionale in Mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari, Laterza, 1911), ha previsto l'abolizione di tutti gli usi civici mediante un risarcimento in danaro, la cui entità, come già sancito a Napoli durante il Decennio, varia a seconda che si tratti di usi essenziali, ossia necessari per i bisogni della vita quali quelli di pascolo, di legnatico, di fare carbone, di pesca, di fare calce, di estrarre pietra per uso e bisogno familiare, quello di semina mediante un tenue corrispettivo al proprietario del fondo, di spigolatura ecc.; o di usi utili quali quelli di servirsi del fondo in modo da ricavare vantaggi economici eccedenti quelli necessari al fabbisogno personale e familiare. Sui precedenti e sul carattere della legge 16 giugno 1927 n. 1766 regolante la materia degli usi civici e con la quale si istituiva presso ogni Corte di Appello un Commissario per la liquidazione degli Usi Civici e presso la Corte di Appello di Roma, con mansioni di giudice di secondo grado, una Sezione Speciale degli Usi Civici, oltre R. Trifone, La Questione Demaniale nel Mezzogiorno d'Italia, Piacenza, Federazione dei Consorsi Agrari, 1924, cfr. G. Fortunato, Della prescrittibilità delle azioni demaniali nei recenti disegni di legge, Roma, Cuggiani, 1930. Sui precedenti della legge e sulla influenza fortunatiana sulla stessa cfr. R. Trifone, Giustino Fortunato e la questione demaniale in "Arch. Stor. Calabria e Lucania", 1932, e poi in AA. VV., Giustino Fortunato (1848-1932), Roma, 1932, e dello Stesso autore, Altre lettere di Giustino Fortunato (1909-1930), Napoli, Istituto Meridionale di Cultura, 1960. In proposito cfr. anche R. Trifone meridionalista in T. Pedio, Il Mezzogiorno e la Basilicata, Napoli, Società di Cultura per la Lacania, 1964.

(22) Sulla adesione e sulla partecipazione ai moti insurrezionali del 1860 di elementi dei ceti subalterni divenuti poi "briganti" cfr. C. Crocco, Come divenni brigante.

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