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Brigantaggio del Matese

da: " Dai Sanniti all'Esercito Italiano" - Stato Maggiore Esercito " di: Flavio Russo

Deduzioni conclusive

Il tormentato periodo decennale, schematicamente sintetizzato in stretta correlazione con il massiccio del Matese, se da un punto di vista storico ripropose molte delle difficoltà sostenute dai romani per la completa, o per lo meno sostanziale eliminazione della guerriglia terminale prima e del brigantaggio poi, con sorprendenti ed emblematiche affinità estrinsecative - da quello moderno fu fonte di importanti acquisizioni per la dirigenza militare italiana. Si ebbe infatti sull'onda delle successive analisi specifiche tutta una serie di adeguamenti tattici per la contro guerriglia e non ultima una rivalutazione strategica del ruolo della difesa ad oltranza nei teatri montani, specie se precedentemente integrati con idonee opere fortificate. Pur non sapendolo, per carenza di dati archeologici o semplicemente storiografici, così teorizzando si andava tratteggiando l'antico dispositivo regionale difensivo dei sanniti, con la sola variante dell'adozione di coevi sistemi d'arma. È rilevante ai fini del nostro saggio dettagliare meglio queste eccezionali riedizioni strategiche, sebbene rimaste confinate al puro studio. Già nel 1860 i generali Mezzacapo in un approfondito ragguaglio di topografia e strategia nel quale tra l'altro evidenziavano le possibili linee difensive dei regni italici, così affermavano: Le valli dell' Aterno e del Gizio, i quali scorrono in direzione opposte e confluiscono poco al di sopra di Popoli, formano una vasta conca cinta tutt'intorno da alte montagne, non altrimenti transitabili per le artiglierie ed i carri, che per le poche strade rotabili esistenti o per quelle che per la convenienza della difesa converrebbe costruire. Le quali strade, sempre che sieno sbarrate da forti di piccolo sviluppo, e che le difficoltà de' luoghi renderebbero capaci di grande resistenza, non sarebbero di niuna utilità al nemico; mentre che offrirebbero tutte le agevolezze ai difensori, sì per manovrare, che per far comunicare i diversi corpi fra loro. La conca in discorso, qualunque volta fosse da questi fatta centro della difesa, sarebbe come una vasta posizione fortificata, con sbocchi in tutte le direzioni; da cui essi potrebbero liberamente uscire in forze, con tutti i mezzi di guerra, in quella direzione che giudicassero più conveniente, senza tema di compiuta disfatta nel caso l'operazione fallisse, perche assicurate le comunicazioni. L'interno di questa conca montana è frastagliata, ed offre posizioni e gole molto forti; la stessa è al dipresso la natura del bacino del Fucino. Ond'è che il nemico operando per queste vie, si caccia in un paese ristretto, dove un grosso corpo di truppe non può ne operare ne svilupparsi, e può essere invece agevolmente arrestato da piccol numero di soldati risoluti, postati in siti precedentemente fortificati. Il difetto di mezzi di sussistenza per un numeroso esercito, il quale sia costretto a dimorare lungamente in quelle valli per vincere le resistenze, innanzi di procedere oltre, è un altro ostacolo per vincere le resistenze che incontra l’assalitore (e ribadendo ulteriormente il concetto). La conca di Aquila-Sulmona, ben difesa da truppe buone e numerose, e rincalzata nella maniera discorsa, è assai forte, senzache essendo inetta ad alimentare un grosso esercito che fosse costretto a soggiornarvi lungamente, il nemico vi soffrirà penuria di viveri. Mentre che la cosa starà altrimenti pe' difensori, i quali padroni del paese, avranno potuto in tempo prevedere a rammassar viveri, e quant'altro mai potesse occorrere per dimorare lungamente in quella provincia.

È esplicita nella citata esposizione la proposizione di una regione fortificata montana inglobante l'altopiano aquilano, come ridotto di resistenza ad oltranza per il Regno di Napoli. È a ben riflettere, come anzidetto - fatta salva la diversa e peraltro poco discosta ubicazione - una riedizione aggiornata della concezione sannita da noi ricostruita, con identiche finalità. All'indomani dell'unità italiana, con il divampare del brigantaggio e massimamente dopo le durissime campagne repressive, fu recepito da molti alti ufficiali l'enorme vantaggio tattico offerto dai massicci montani di considerevole estensione. Fu altresì tragicamente sperimentato come in virtù dello sfruttamento della loro morfologia, pochi uomini arditi e risoluti fossero in grado di contrastare quasi indeterminatamente un agguerrito esercito. Nella fioritura di studi sulla difesa nazionale, prodottasi dopo il 1870, le suddette acquisizioni tornarono a comparire, caratterizzando nettamente alcuni piani fra i meno conformisti e tradizionali. Il trasferimento della capitale a Roma infatti impose problematiche difensive inedite ed onerosissime, giustificando e quasi incentivando a dismisura la ricerca di dinamiche alternative, ruotanti per l'appunto intorno alla vicinanza dei massicci appenninici centrali da trasformarsi in ridotti difensivi estremi, o meglio in regioni fortificate montane, riproponendosi così la visione dei Mezzacapo. Ma veniva in realtà riproposta la visione sannita e non ultima la riutilizzazione pratica sia pure rusticana, fattane dalla guerriglia brigantesca dei massicci aquilano e del Matese. Chi si fece maggiormente promulgatore di una simile elaborazione difensiva naturalistica fu il luogotenente di artiglieria Arturo Galletti (parente probabilmente del colonnello Bartolomeo Galletti che comandò nel 1863 la zona militare di Benevento), al punto da ricavarne una interessantissima pubblicazione, comparsa nel 1873 dalla quale è obbligo stralciarne significativi brani: Non è però questa una ragione per non preparare il paese ad una guerra difensiva. Possiamo subire dei rovesci e dobbiamo fare che non riescano irreparabili. Tutti i nostri sforzi, tutti i nostri sagrifìzì di danari e di uomini devono essere intesi a che Roma la nostra gloria o la nostra aspirazione per tanti secoli, il cemento del nostro edifizio nazionale, la prova materiale della vittoria della ragione sull'ipocrisia e la superstizione e la vittima agognata dei nostri nemici i clericali di tutto il mondo e perciò stesso necessario obbiettivo di qualunque Esercito ci combatterà, sia fortificata in modo che secondo le probabilità umane non possa essere presa. Se fosse abbandonata a se stessa, questo necessario risultato non si potrebbe ottenere, per che anche che vi si rifugiassero tutti gli Eserciti Italiani battuti, potrebbe essere investita e in più o meno presa dai vincitori nemici, come è accaduto a Parigi. Ma la natura ci ha favorito anche in questo. A poco più di 60 chilometri da Roma in direzione Nord-Ovest-Ovest si trova l'Appennino che diviso in due rami, i più maestosi ed alti di tutta la catena, ricoperte le cime di neve per sette mesi dell'anno, racchiude in vasta conca oblunga l'altipiano Aquilano lungo 93 chilometri e largo in media 30. Il ramo orientale è più elevato dell'altro, corre poco lungi dall'Adriatico ed è dominato dal Gran Sasso d'Italia alla sua volta signoreggiato dal monte Corno elevato sul mare 2823 metri. Questo ramo è squarciato nel mezzo della Pescara, la quale aprendosi un varco fra il monte Morrone ha separato il Gran Sasso dalla Maiella dominata dal monte Amaro elevato 2707 metri. Il ramo occidentale è un poco meno elevato dell'altro e il monte Velino che 10 signoreggia non supera i 2428 metri, ma ne conserva tutta l'asprezza. L 'altipiano Aquilano è formato dalle valli dell'Aterno e del Gizio e da quella della Pescara, che nata dalla confluenza dei due primi è inguadabile ed ha l'aspetto di un fiume. Queste valli sono generalmente agresti e selvagge, meno quella del Gizio da Pratola sino al disopra di Sulmona. La popolazione, che è robusta ed intelligente è anche abbastanza numerosa; e le principali città sono Aquila, Sulmona e Popoli. Se qui al riparo di questi alti e maestosi monti si riunissero gli stabilimenti e i gran magazzini militari e in tempo di guerra i depositi e il materiale ferroviario delle provincie invase; e se invece di spendere molti e molti milioni a Piacenza-Stradella o Bologna (che potranno divenire delle ottime piazze posizioni, ma mai delle piazze posizioni di ultimo rifugio, se si è in condizione di potere esaurire sul serio tutti i mezzi di difesa), la piazza posizione di ultimo rifugio si stabilisse qui quale ce l'ha data la natura, solo spendendo qualche milione per armare e chiudere le poche gole di comunicazione ed il resto dei milioni per fare e migliorare strade, che pure sono ricchezza e di per se parte ricoprono le spese onde poter facilmente sboccare in tutte le direzioni, non potremmo ritenere la difesa d'Italia assicurata e la perdita di Roma resa umanamente impossibile? Prima di tutto dalla Conca Aquilana saremo sempre in comunicazione con una buona parte del nostro territorio per rifornirci di uomini e di approvvigionamenti; e poi la grande distanza di questa Conca dalle nostre frontiere di terra otterrebbe in grande scala quello che Piacenza-Stradella o Bologna non otterrebbero naturalmente che in modo molto più limitato, cioè, l'indebolimento del nemico vittorioso. Gli Eserciti Italiani abbiano fatto guerra offensiva o difensiva, siano stati battuti fuori d 'Italia e in paese o in paese solamente, avrebbero sempre prima di rifugiarsi nella Conca Aquilana ed in Roma contrastato il passaggio delle Alpi, combattuta qualche grande battaglia nella valle del Po, difese le posizioni di Stradella-Piacenza o Bologna e forse tutte e due, difesi i valichi dell'Appennino e combattuto ancora almeno con combattimenti di retroguardia nella valle dell'Amo e nella valle del Tevere. Il nemico non potrebbe non aver subito grandi perdite e più che le perdite avrebbe dovuto lasciare grossi Corpi per assicurare la sua lunga linea di operazione dagli attacchi dei nostri Corpi locali e guardare, se non assediare, Mantova-Borgoforte, che per la sua bella e forte posizione dovrebbe conservarsi tra le piazze di guerra e migliorare nell'armamento; e la Spezia e Venezia, che come grandi Arsenali marittimi dovrebbero essere efficacemente fortificati ed avere grosse guarnigioni di truppe di difesa e locali. Questo grande indebolimento del nemico unitamente al maggior tempo che gli ci vorrebbe per rifornirsi dalla sua base, sarebbe un vantaggio ottenuto col solo rifugiarsi nella Conca Aquilana, ed anche, che il nemico coi rimpiazzamenti e le riserve riempisse i vuoti, il vantaggio relativo resterebbe sempre. Gli Eserciti Italiani battuti giunti nella Conca Aquilana, fornita come si è detto, potrebbero con tutta sicurezza attendere alloro ricompletamento senza più molestie del nemico vincitore; e ricompletati sarebbero sempre liberi di scegliere il momento e la direzione dei nuovi attacchi. Le sole truppe locali e di difesa, che in forte numero vi dovrebbero essere state raccolte all'epoca della mobilitazione, giovandosi della naturale asprezza e difficoltà dei luoghi e delle opere permanenti costrutte alle gole della Conca e di quelle passeggere, che studiate in tempo di pace, avrebbero avuto tutto il tempo di costruire ed armare per collegare in un solo sistema di difesa i contrafforti che si staccano dalla catena principale e formano come tante opere avanzate della Conca e danno la possibilità di difendersi e di sboccare in tutte le direzioni, potrebbero efficacemente contrastare il nemico vincitore 1 'attacco di questo gruppo di monti. Essi formavano in gran parte la frontiera terrestre dell'ex-Reame di Napoli e solo gli ultimi contrafforti, che si spingono fino a Tivoli e Palestrina ed hanno un seguito nei monti Albani, appartenevano agli ex-Stati della Chiesa. Le mutate condizioni hanno aumentato la forza di questa linea. Tutti i contrafforti e gli sbocchi, non solo quelli sull'Umbria e le Marche e le Provincie Napoletane, ma anche su Roma sono in nostro potere e potremo convenientemente prepararli e servirsene; e Roma fatta gran piazza-posizione di guerra appoggerebbe immensamente meglio che non Terracina la sinistra della linea senza far perdere a questa la grande qualità, che è di avere la destra e il centro sporgente e collegando perfettamente il centro con la sinistra per Corese, Palombara, Tivoli e Palestrina attraverso le vallate del Tevere, del Turano e del Salto.

1. La Conca Aquilana comunica con l'Adriatico per la strada carreggiabile e per la ferrovia in costruzione da Popoli a Pescara nella vallata del fiume di questo nome che attraversa il ramo orientale dell'Appennino alla gola di Popoli;

2. con la valle del Fino per tre sentieri che partono tutti da Civita di Penne; il primo ed il più importante conduce a Torre dei Passeri e attraversa la gola di Popoli, il secondo a Colle-Pietra passando il ramo orientale a Forca di Penne, l'ultimo costeggiando il versante occidentale del Gran Sasso ad Assergio;

3. con la valle del Vomano per la strada carreggiabile in costruzione da Aquila a Teramo che discende per Montorio la valle sopraddetta;

4. con la valle del Tronto per il sentiero che attraversa sopra Monte Reale l'Appennino e chediventa carregiabile a Quinto Decimo e conduce ad Ascoli-Piceno e S. Benedetto sull'Adriatico;

5. con la valle del Tevere per il sentiero che per Marano attraverso il ramo occidentale dell'Appennino mena a Leonessa e Temi nella valle della Nera o Spoleto nella valle del Topino, influenti del Tevere; per la strada carreggiabile e la ferrata concessa (seguito di quella da Pescara a Popoli) che da Aquila attraversando sopra Scoppito il ramo occidentale dell'

6. Appennino per la gola di Antrodoco conduce a Rieti nella valle del Velino influente della Nera e quindi in due rami a Temi e a Corese e Roma; per il sentiero in parte esistente che per Fiamignano nella valle del Salto e Orvigno nella valle del Turano influenti del Velino conduce a Palombara e poi divenuto strada carreggiabile a Roma; per la strada che da Aquila pei prati di Castiglione supera il ramo occidentale, passa per Borgo Collefegato nella valle del Turano e poi ad Arsoli nella valle del Teverone influente del Tevere, dove divenuto strada carreggiabile per Tivoli conduce a Roma; per il sentiero che da Sulmona attraversando il ramo occidentale a Forca Caruso conduce ad Avezzano nella conca del Fucino e quindi a Valle-Pietra nella valle del Teverone, dove poco dopo divenuto strada carreggiabile per Palestrina conduce a Roma;

7. con la valle del Liri e Garigliano per la strada carreggiabile e la ferrata progettata che per A vezzano e la valle di Roveto conduce a Sora; per il sentiero che per Pescina Peschio-Asserolo e S.Donato conduce ad Atina;

8. con la valle del Sangro per la strada carreggiabile che da Sulmona attraversando i monti che chiudono la Conca Aquilana tra Roccavalloscura e Roccaraso discende a Castel di Sangro e quindi riesce ad Isemia all’origine del Volturno.

Queste strade dovrebbero essere tutte ridotte carreggiabili emesse in comunicazione tra loro (le comunicazioni in parte esistono) tanto nella Conca Aquilana che nelle vallate del Turano, del Salto, del Teverone e del Tevere; e le vie ferrate in costruzione, concesse o progettate tra Pescara e Popoli, Popoli e Sulmona, Popoli-Aquila-Rieti- Temi, Aquila-Avezzano-Sora-Isoletta, dovrebbero costruirsi con la massima sollecitudine e senza economia per le pendenze; e completare il sistema almeno colla costruzione di quella da Aquila aRoma per Tivoli, che in parte fu già studiata e concessa sotto l'ex Governo Pontificio e possibilmente coll'altra in parte studiata e credo anche concessa sotto il governo borbonico, da Sulmona a Foggia per Castel di Sangro-Isemia-Campobasso-Lucera. Con questo sistema di strade carreggiabili e ferrate gli Eserciti Italiani battuti, rifugiati nella Conca Aquilana, senza perdere punto della loro sicurezza durante il ricompletamento, acquisterebbero, appena ricompletati, una forza offensiva straordinaria potendo sboccare in tutte le direzioni. Gli Eserciti nemici vincitori non potendo senza gravissimo rischio attaccare la destra o il centro della nostra posizione, avrebbero attaccato la sinistra e sarebbero venuti ad urtarsi contro Roma, avendo prima lasciate forze imponenti tra Ascoli e Temi. Roma fortificata con tutte le risorse dell'arte e della scienza, con numerosa guarnigione e convenientemente approvvigionata nella peggiore ipotesi, abbandonata a se stessa, richiederebbe per lo meno, onde esser presa, il tempo che fu necessario per Parigi ed un Esercito di assedio ugualmente numeroso. Che cosa resterebbe al nemico già indebolito, come si è visto per occupare la zona tra Ascoli e Temi? Ben poca cosa sicuramente e i nostri Eserciti ricompletati potrebbero occupare senza grandi sforzi per la loro grande superiorità numerica Ascoli ed Ancona e riportare la guerra al Nord, oppure Rieti e Temi alle spalle dell'Esercito assediante; e nell'un caso e nell'altro, oltre di aver disfatto dei Corpi nemici e separatili dall'Esercito principale si obbligherebbe questo a levare l'assedio e dar battaglia in sfavorevoli condizioni, diminuito di numero, tagliato dalla propria base. Ma Roma con la Conca Aquilana fatta gran deposito dei nostri mezzi di resistenza con la difesa preparata dei monti che fanno gruppo con la Conca e con il rifugio là creato dai nostri Eserciti battuti non è punto abbandonata a se stessa. Le truppe locali e di difesa, che avrebbero costrutto ed armato durante la guerra le opere passeggere studiate in tempo di pace per collegare in un solo sistema di difesa i contrafforti che si distaccano dalla catena principale che forma la Conca Aquilana, potrebbero occupare le forti posizioni di Corese, Palombara, Tivoli e Palestrina situate sugli estremi contrafforti del gruppo verso la valle del Tevere a cavallo delle strade per cui da questa si comunicherebbe con la Conca Aquilana: potrebbero occupare ancora con qualche colonna volante i monti Albani. Padroni noi di questa linea, il nemico vincitore se potrebbe assediare Roma, non potrebbe investirla; e conseguentemente la resistenza di Roma potrebbe prolungarsi indefinitivamente. Tivoli centro della linea è distante appena 21 chilometri dalla cinta attuale di Roma. Anche se le fortificazioni fossero costrutte a soli 5 chilometri, gli accampamenti nemici per evitare il cannone delle fortificazioni di Roma, verrebbero quasi ad essere sotto quello di Tivoli e sarebbero soggetti agli attacchi comminati dei difensori di Roma e delle truppe postate tra Corese e Palestrina che potrebbero con facilità essere sostenute, anche prima che fossero ricompletati, da Corpi dell'Esercito rifugiati nella Conca Aquilana. .Se il nemico venisse dal mare e lo sbarco lo facesse nel Mezzogiorno la nostra difesa sarebbe ugualmente assicurata; ed i suoi sforzi s'infrangerebbero contro Roma e la Conca Aquilana, che anche attaccata di rovescio non perde nulla della sua forza.

Quanto fin qui citato dimostra a sufficienza la nostra ipotesi di invarianza storica e di riproposizione di identiche concezioni, specie se difensive, non necessariamente legate in generale alla logica dei luoghi od alla loro morfologia. Il brigantaggio prima e gli studi teorici dopo sembrano infatti riecheggiare i lontani episodi narrati nella precedente parte del nostro studio. Né peraltro il discorso si concluse lì: sulla falsariga del Galletti anche il già menzionato Spinelli nella sua breve opera relativa alla montagna cerretese, così sottolineava pochi decenni dopo le peculiarità del massiccio del Matese, indicandone sia pure in maniera discretissima potenzialità strategico-difensive tutt'altro che secondarie, avvicinandosi ulteriormente alla realizzazione sannita. Il grosso massiccio del Matese, così complesso, così intricato, col suo alto rilievo, con la padronanza delle alte valli del Volturno, del Calore (pel Tammaro), del Biferno e dell'Ofanto, mentre costituisce elemento separatore delle operazioni, che dalla conca aquilana e dall'Adriatico meridionale dovessero dirigersi in Campania, esercita una azione di fianco sulle operazioni, che dallo scacchiere delle Puglie dovessero avere per obbiettivo Napoli; e per mezzo del Volturno alle operazioni che dalla Campania volessero risalire verso la Capitale. Dalla sua ubicazione centrale nasce quindi la sua speciale importanza, e la necessità della sua occupazione sia per quel partito che voglia avere libertà di manovra offensiva, tanto per chi siasi ridotto alla difesa. Meno vasta dell'altipiano aquilano, più aspra nella sua massa generale, meno ricca di facili sbocchi, questa regione non può esercitare certamente, nel campo strategico, la larga funzione attribuita all'altipiano abbruzzese nella difesa peninsulare italiana: la permanenza di grosse masse di truppe non vi è consentita; il muoverle, il vettovagliarle non è agevole: troppo tarda ad essere costruita l'importante rotabile Pietraroja-Bojano; tuttavia non credo di essere completamente in errore scorgendo in essa una determinante funzione strategica come protezione o minaccia dello scacchiere campano e di quelli ad esso contermini. La conferma delle ipotesi dell'autore non si fece attendere molto: appena 44 anni dopo i tragici eventi della II Guerra Mondiale riproposero per la terza volta nel corso della Storia la regione fortificata del Matese come ridotto di estrema difesa ove al posto dei sanniti e quindi dei briganti vi erano in questa tornata i soldati tedeschi, ed al posto dell'esercito romano e quindi italiano quello multinazionale degli "alleati" nell'ottobre de1 1943.

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