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Brigantaggio del Matese

da: " Dai Sanniti all'Esercito Italiano" - Stato Maggiore Esercito " di: Flavio Russo

Osservazioni militari sulla lotta al brigantaggio

L'esercito piemontese giunse in territorio napoletano militarmente e psicologicamente impreparato a fronteggiare insurrezioni popolari e brigantaggio. Reazioni diffuse si erano avute all'atto dell'annessione, anche in altri Stati preunitari (specie in Lombardia e Toscana) ma sempre contenute nell'ambito della dialettica politica. Nel napoletano invece l'esercito dovette affrontare una vera e propria guerra civile contro masse d'insorti che rifiutavano il regime unitario e grosse formazioni che lo combattevano. Era infatti per tutti inconcepibile, dopo l'entusiastica partecipazione all'epopea garibaldina che lasciava motivatamente arguire radicati consensi generalizzati al programma risorgimentale, il quadro di diffusa intolleranza ed ostilità nei confronti dell'attuazione concreta dello stesso. Lontanissima poi dalla mentalità degli ufficiali piemontesi la logica classista meridionale e le sue arcaiche contrapposizioni, che accentuava 1'intima incomprensione dell'insorgenza. L'impatto perciò sotto il profilo psicologico fu stravolgente: invece della propagandata e quindi attesa accoglienza festosa, spettante ai liberatori settentrionali dalla tirannide borbonica, si ebbe la più spietata, fanatica ed efferata guerriglia, condotta con tecniche inusitate per l'esercito piemontese, per di più in un teatro ignoto quanto impervio ed inospitale. Sotto il profilo militare inoltre era palese l'incapacità ad operare in maniera adeguata, al di là di una brutale quanto deleteria violenza repressiva, che peraltro moltiplicava esponenzialmente la ribellione con rappresaglie a catena. Un indicatore del grado di colpevole approssimazione con cui fu intrapresa la fase militare del1 'annessione, che comunque avrebbe dovuto far ipotizzare allo Stato Maggiore un minimo di resistenza locale e quindi la necessità di azioni di controllo attivo, traspare persino dalla pressoché totale assenza di un'adeguata cartografia del territorio specifico presso i quadri dirigenti. Eppure esistevano ottimi fogli in scala 1:80.000, di molte località infestate dal brigantaggio. Né in seguito si pose rimedio alla gravissima carenza. Dopo l'unità, pur prendendo atto della bontà del lavoro eseguito nel regno di Napoli e della superiorità dell'incisione sugli altri sistemi di produzione, lo Stato Maggiore decise di abbandonare l'impresa della carta in scala 1:80.000. Per recuperare i fogli già realizzati ed in corso d'incisione fu, però, deciso di redigere una carta della frontiera dell'ex regno di Napoli in fogli. Ma negli anni '70 di tale opera non era stato eseguito che un solo altro foglio, quello di Leonessa ed anche tale impresa fu di lì a poco abbandonata. Intuibili pertanto anche solo da questo emblematico episodio le difficoltà, i rischi, e 1'indeterminazione derivanti alle truppe impegnate in perlustrazioni e pattugliamenti in contesti geografici ignoti, non che la loro conseguente circospezione e lentezza negli spostamenti. Intuibile per contro la schiacciante superiorità tattica ingenerata nelle bande dalla padronanza assoluta del territorio. L'esercito piemontese inoltre, come del resto la maggioranza di quelli europei coevi, era stato strutturato ed addestrato in ossequio alla visione clausewitziana della guerra, ovvero in vista di scontri campali, di manovre regolari, magari anche di assedi a piazzeforti, ma sempre in un contesto di contrapposizione a formazioni nemiche analoghe e facilmente identificabili come tali, in un contesto esplicito di belligeranza. Ne valeva molto l'esperienza spagnola ed algerina del Cialdini e del La Marmora, collocandosi queste conflittualità partigiane, indubbiamente irregolari, in un ambito di dinamica unitaria e mai in una frammentazione anche ideologica e spesso divergente, come quella brigantesca post-unitaria. Questi presupposti di natura concettuale si riflettevano su ordinamento e impiego delle unità piemontesi, adatte allo scontro frontale, ma poco idonee alle azioni di contro-guerriglia, forma questa sconosciuta alla dottrina tattica dell'armata sarda. Infatti la fanteria, lenta nei movimenti e condizionata da un limitato raggio d'azione, difficilmente riusciva a prendere contatto con le bande che dalle favorevoli posizioni che occupano possono vedere l'arrivo delle truppe ed evitare lo scontro per ricomparire poi più ardite in altri luoghi. Anche la cavalleria basata sulla forza d'urto della carica, inizialmente apparve disorientata. Le difficoltà accusate sono poi a ben riflettere le stesse in cui si imbatterono da principio le legioni romane, e che provocarono in breve la modifica strutturale in formazioni manipolari, per adeguarle appunto alle sfuggenti azioni di guerriglia. Infatti anche per l'esercito piemontese: la struttura organica delle unità di fanteria era massiccia, compatta, uniforme e perciò poco idonea ad un impiego frazionato dalle forze per compiti autonomi. L'esercito piemontese era entrato nel napoletano con l'ordinamento Fanti che prevedeva battaglioni su 6 compagnie di 150 uomini ciascuna. Questo complesso pesante e di difficile comando fu poi alleggerito con la riforma Petitti del 1862 (battaglioni su 4 compagnie), pur rimanendo concettualmente ancorato alle dottrine del tempo. Non a caso il gen. Cadorna scriveva alcuni anni dopo in una sua "Memoria sulle cause del brigantaggio": si guerreggiavano i briganti con sistemi troppo simili a quelli delle truppe regolari, cioè con operazioni sistematiche quasi avessimo di fronte truppe nelle stesse nostre condizioni. L 'entità e le caratteristiche dell'esercito piemontese che all'alba del 12 ottobre 1860 entrò nel Regno di Napoli, meglio si evincono dalla sua composizione: al comando del Fanti si ebbero due Corpi d'Armata:

1. IV Corpo agli ordini del gen. Enrico Cialdini, costituito da:

a. 4 ° Divisione Fanteria;

b. 7° Divisione Fanteria;

c. 1° Brigata di Cavalleria con i Lancieri di Novara e di Milano;

d. 1° Brigata di Artiglieria;

e. 6°, 7° e 8° Compagnia Genio;

2. V Corpo agli ordini del gen. Enrico Morozzo della Rocca costituito da:

a. 1° Divisione Fanteria;

b. 1° Brigata di Cavalleria con Nizza e Piemonte Reale;

c. 1° Brigata di Artiglieria;

d. 1°,3°,5° e 10° Compagnia Genio.

A questi Corpi principali vanno aggiunti con funzioni fiancheggiatrici, durante la prevista avanzata attraverso gli Abruzzi. Abbiamo avuto modo di ricordare come molte volte nelle identiche regioni e circostanze i consoli romani, tradizionalmente ligi al regolamento, avessero ritenuto indispensabile per il buon andamento del servizio far alleggerire i soldati dell'equipaggiamento non strettamente necessario, limitandolo spesso alla sola spada. Per 1'esercito italiano, invece, tale logica procedura restò appannaggio della discrezionalità arbitraria di qualche comandante che ordinò, sotto la sua responsabilità, che lo zaino si potesse lasciare agli accantonamenti che il cappotto fosse portato qualche volta a tracolla anziché indosso, che venissero distribuiti i viveri in contanti quando non si poteva confezionare il rancio. Si dovette attendere il 1867 ed il generale Pallavicini per avere finalmente ed ufficialmente una più sensata rispondenza fra 1'equipaggiamento individuale ed i compiti specifici. Il servizio di pubblica sicurezza per la natura dei luoghi in cui è eseguito, per il carattere delle varie operazioni, e per i disagi che delle stesse sono inevitabili conseguenze, richiede che per quanto ha rapporto alla tenuta, le truppe si discostino dalle osservanze di prescrizione. Queste, strettamente tenute in vigore, tornerebbero oltremodo pregiudizievoli all'adempimento del servizio. giacche verrebbe di conseguenza tolta ai soldati l'agilità necessaria per riuscire nei loro movimenti ad agguagliare la celerità brigantesca. Lo zaino ed il sacco a tenda vogliono per tal ragione non essere mai usati e che nella guerra del brigantaggio troppo sovraccarico avrebbe il soldato. Un soldato che vada in servizio nella tenuta prescritta per le truppe in campagna, potrà tutt'al più perlustrare i terreni piani ed a breve distanza dagli stradali, ma i briganti non passeggiano lungo le strade, ma si aggirano nei luoghi sparsi d'ostacoli, o si mantengono sulle vette di monti scoscesi. Ciò che vien detto per la bassa forza si riferisce ugualmente alla tenuta degli ufficiali. Se si pensa che le fin troppo ovvie deduzioni del generale richiesero quasi sette anni di gestazione da parte della dirigenza militare, ci si rende conto della incapacità di questa ad adeguarsi alle esigenze della guerriglia, conferma di una insufficienza di fondo dell'apparato, e per quanto aggiungeremo del suo scollamento con la base. Infatti è emblematica, nello stesso lasso di tempo, una dilagante fioritura di uniformi non autorizzate presso i reparti operanti, crescente con il procedere della repressione. Le uniformi indossate dalle truppe italiane durante la terribile campagna contro il brigantaggio presentano indubbiamente uno dei quadri più vari e multicolori nella storia del nostro Esercito. Considerando la rigida mentalità piemontese, trasmessa integralmente nelle nuove Forze Armate nazionali, sembra impossibile che tanta libera iniziativa dei singoli o dei reparti possa affermarsi dimostrandosi sorda alle prescrizioni. In pratica dunque l'aspetto esteriore del soldato assegnato alle operazioni antibanditismo segue più o meno le seguenti vicende: all'inizio del turno di presidio nelle provincie impegnate i materiali di vestiario e di equipaggiamento rispondono alle norme; in un secondo momento, l'eliminazione del Kepì, delle monture con le golette rigide delle spallette, delle cordoniere, ecc. privilegia i copricapi e le divise da fatica, sempre più rustiche e funzionali, ed alleggerisce i bottini garantendo soltanto 1 'indispensabile; con il logoramento progressivo e poi accentuato dei materiali vien fatto ricorso alle risorse locali, ricercando coperte multicolori, maglie di varia foggia, ciocie e calzari contadini, borracce e sacchi da cacciatori. Se a ciò si aggiunge la moda, molto diffusa specialmente tra gli ufficiali, di indossare uniformi totalmente fuori ordinanza ed ispirate ai costumi locali e, talvolta, grazie forse a qualche sarto nostalgico, alle uniformi dello scomparso esercito napoletano, l'aver definito straordinariamente vario e multicolore l'aspetto delle truppe non appare esagerato. Un breve cenno conclusivo merita l'armamento in dotazione. La fanteria era armata di fucile ad avancarica mod. 1860 cal. 17.4, modificato nel 1866 tipo Carcano, a cilindro e con percussione ad ago, portata utile 400 metri. Per i bersaglieri era costituito da carabina a retrocarica modello Delvigne, più leggera e di maggiori prestazioni in gittata e precisione. Gli ufficiali erano armati di sciabola. La cavalleria era armata di sciabola (lancia per i reggimenti di cavalleria pesante) e pistola. Solo nel 1863 furono distribuite ai reggimenti operanti nel napoletano le carabine che inizialmente furono accolte con una certa ostilità, in quanto modificarono sostanzialmente l'armamento tradizionale e anche i criteri d'impiego di dette unità. Per assicurare maggior scioltezza e capacità reattiva alle truppe il gen. Pallavicini dispose con successive circolari:

a. per gli ufficiali, di sostituire la sciabola con il revolver o il fucile da caccia perché arma inutile ed incomoda per chi deve perseguire i briganti;

b. per la truppa di portare al seguito il munizionamento da guerra quanto basta a far fronte a qualsiasi eventualità (20-30 cartucce al massimo).

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