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Brigantaggio del Matese

da: " Dai Sanniti all'Esercito Italiano" - Stato Maggiore Esercito " di: Flavio Russo

I prodromi

Il 6 settembre del 1860 Re Francesco II, con una discutibile decisione, lasciava Napoli alla volta della munitissima piazza di Gaeta, dove contava di poter prolungare ad oltranza la resistenza in attesa di significativi successi militari e soprattutto di aiuti dall'estero che riteneva immancabili. La nascente insorgenza popolare faceva fondatamente sperare in una generale ed indomabile sollevazione legittimista, che come già altrove nel corso della storia del Regno, avrebbe risollevato le sorti della dinastia o per 10 meno cooperato a farlo. Anche le truppe, che ad onta delle ripetute umiliazioni garibaldine - frutto non ultimo della pessima dirigenza militare napoletana -, restavano abbastanza numerose, nello stesso giorno iniziarono a convergere tra Caserta e Capua, lungo la destra del Volturno. Quasi tutti i corpi sbandati, vennero volontariamente a raggranellarsi dietro il Volturno, ed era commovente il vedere come quei soldati, laceri, scalzi, defatigati per il lungo cammino fatto, al fine di schivare i luoghi occupati dall'oste garibaldina, si animavano appena giunti in mezzo ai loro compagni; ed esclamando Viva il Re! chiedevano un arme per combattere, pria di domandare un pane, di cui avevano più gran bisogno. Di quel raccogliticcio esercito ne aveva il comando il Maresciallo di campo Giosuè Ritucci nato a Napoli 1'8 aprile del 1794, ufficiale di vasta cultura militare ma di scarsa esperienza, tratta dalle poche e modeste campagne alle quali aveva partecipato nei 53 anni della sua pur lunga carriera. Le forze borboniche ammontavano a circa 30.000 uomini e disponevano di 70 cannoni oltre che dell'appoggio della fortezza di Capua nella quale, con 7.000 uomini, erano schierate 234 bocche da fuoco, quasi tutte da 24 pollici con qualche pezzo rigato da 6 pollici, un obice da 80 pollici e due da 60 pollici, e mezza batteria di mortai da 12 pollici. (Trattavasi, al di là del numero, di pezzi datati, degni per lo più di figurare in qualche museo, per giunta pessimamente affustati). Esse erano ordinate su un Quartiere generale, tre Divisioni di fanteria e una Divisione di Cavalleria. Il piano borbonico prevedeva, per grandi linee, una risolutiva battaglia campale che ponesse fine all'epopea garibaldina, vanificandone così le neonate istituzioni liberali e filo-unitarie, con una successiva riconquista di Napoli. Al contempo il sovrano incentivò l'azione dei volontari insorgenti al fine di creare pericolosi diversivi, per i garibaldini prima e magari per i piemontesi poi nel caso avessero varcato la frontiera. L'adesione al programma in Terra di Lavoro, Molise e Benevento fu entusiastica e fanatica, fornendo immediati, incontrovertibili riscontri, superiori alle più rosee aspettative. Pertanto pochi giorni dopo: "folti gruppi di cafoni, non di rado sostenuti da militari regi, regolari o che scorrevano la campagna, liberarono i detenuti, attaccarono reparti garibaldini e corpi volontari, misero in fuga i proprietari terrieri, ne saccheggiarono le abitazioni e, in numerose località ristabilirono il vecchio stato di cose. L 'insurrezione del distretto di Piedimonte d’Alife, investì pure e in breve volgere di tempo, l’intera area del Matese. Dal 16 al 21 settembre, contadini armati di scure e falci, percorsero le vie di Caiazzo tumultuando al grido di Viva Francesco II; si sollevarono i montanari di Gallo e di Letino e i valligiani di Capriati; da Roccaromana a Baja Latina a Dragoni, schiere di rivoltosi guidate da un cappellano misero in rotta manipoli di Cattabeni e di Cusdafj". Nel frattempo Ritucci ritenendo ancora Piedimonte in mano garibaldina, e rientrando la cittadina nella sua trama strategica, al fine di garantirsene il possesso vi inviava il giorno 25 da Capua la brigata Polizzy. È interessante ricordare che i garibaldini che avevano occupato precedentemente Piedimonte, facevano parte della "Legione del Matese", pomposo nome che distingueva un raggruppamento di volontari, formatosi proprio a Piedimonte, che operò fra il 25 agosto del 1860 e l'8 marzo del 1861, con un organico complessivo di 403 uomini fra ufficiali e soldati. Già il giorno 24 vedendo avvicinarsi l'esercito regolare da tre diverse direttrici, ovvero da Amorosi, da Caiazzo e da Pietramelara, consci della esiguità delle loro fila, i "legionari" abbandonarono rapidamente la cittadina. Un loro testimone così narra la precipitosa manovra: "Per il soverchiante numero dei nemici dovemmo abbandonare di notte Piedimonte. Sul monte S. Pasquale (cioè sul monte dove sorgeva il convento di S. Pasquale, sopra Faicchio, già fortezza sannita) si fece il primo alt la notte della ritirata, riposando anche qualche ora per terra fra le vecchie mura del convento cadente. Di lì poi si inerpicarono verso l'interno del Matese, risalendo probabilmente l'antica mulattiera che costeggia il torrente Titerno. Con loro fuggivano anche i membri del dissolto governo provvisorio, per paura delle intuibili rappresaglie. Il 27 la reazione giungeva a Cerreto Sannita. "Disarmata la Guardia Nazionale il popolo si recò in massa sotto i balconi dell'episcopio, per acclamare il vescovo, mons. Luigi Sodo, che i liberali ritennero promotore della reazione e che venne successivamente arrestato. Il 30 settembre, al giungere di 400 gendarmi al comando del maggiore De Liguoro scoppiò la reazione a Venafro, dove i contadini si vendicarono della Guardia Nazionale per la repressione seguita al moto del 23 luglio". Il 30 settembre ultimati i preparativi militari per l'imminente battaglia sulla linea del Volturno, conscio e forse gratificato dai crescenti moti insurrezionali legittimisti, che effettivamente lasciavano adito a fondate speranze di reinsediamento. Francesco II proclamava al suo esercito:

Soldati,

poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di oppugnar paesi dal l'inimico occupati, obbligo di Re e di soldato m'impone di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerarono in brutalità e ferocia quando non sono accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate dunque tutti generosi dopo la vittoria: rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti e prodigate loro, come i1 14° cacciatori ne ha dato l'esempio, quegli aiuti ch'è in vostro potere di apprestare.

Ricordatevi pure che le cose e le proprietà nei paesi che occupate sono il ricovero e il sostegno di molti combattenti nelle nostre file: siate adunque uomini e caritatevoli con gli infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità.

L'ubbidienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e decisa, abbiate infine innanzi agli occhi sempre l'onore ed il decoro dell'Esercito napolitano.

L 'onnipresente Iddio benedirà dall'alto il braccio dei prodi e generosi che combattono e la vittoria sarà nostra.

Gaeta 30 settembre 1860 Francesco II

Poco innanzi l'alba del 1 ottobre, sulla nebbiosa piana del Volturno, l'esercito napoletano ordinatamente prese posizione. Lo scontro, aspro e sanguinoso, si protrasse per l'intera giornata lungo l'intero fronte: soltanto alle 17 Garibaldi fu in grado di telegrafare a Napoli: "Vittoria su tutta la linea". La resistenza organizzata dai borbonici da quel momento si sfaldò quasi completamente, perdurando una difesa più che altro simbolica nelle piazze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Divampava per contro l'insurrezione popolare in un crescendo progressivo, alimentata dai numerosi reduci che iniziavano a rifluire verso le loro comunità. In breve si sarebbe trasformata in spietato brigantaggio, fondendosi le utopie legittimiste con le mire criminali. Già in quello stesso 30 settembre in merito fu affisso nel capoluogo della nuova provincia di Benevento, un allarmato manifesto che drasticamente proclamava:

Ordine del Giorno

Onde tutelare la laboriosa ed utilissima classe degli Agricoltori tormentata bastantemente da uomini di indole facinorosa, i quali a traverso di ogni legge del vivere Civile, e di ogni senso di umanità infestano le Campagne di questa Provincia, invadono le Case Rurali derubando quanto in esse si rattrova, e maltrattando i rispettivi possessori.

Noi Vincenzo Bentivegna Commissario Straordinario facendo uso dei poteri illimitati accordatoci dal Generale Dittatore

Decretiamo

Articolo 1

Sono dichiarati e posti fuori dalla Legge tutti coloro i quali col perverso fine di rubare o attentare alla vita, o all'onore de' pacifici Agricoltori scorrono a mano armata le Campagne di questa Provincia..

Articolo 2

Per effetto di quanto sopra la uccisione de' suddetti malfattori nella flagranza, o quasi nella patrazione degli indicati misfatti, o il di loro arresto viene fin da ora dichiarata Capitale ed impunibile, ed i loro uccisori o coloro che l'arresteranno, saranno premiati dal Governo

Benevento, lì 30 settembre 1860.

Pur nell'approssimata esposizione, il senso generale ed i rimedi prospettati al dilagare del fenomeno, non si discostavano minimamente da quelli di spagnola ideazione. La giustizia ufficiale, incapace ed impotente, delegava a chiunque, e ad ampia discrezionalità, il compito esecutivo, con risultati facilmente immaginabili, specie in tale contesto politico. In realtà l'apparente severità semplificativa del bando, testimonia che la situazione stava rapidamente sfuggendo di mano ai nuovi governi provvisori, e che la paura della ribellione incontrollabile montava. L’intervento dell’esercito piemontese. Con l'intervento dell'esercito piemontese, poche settimane più tardi ad Isernia, l'insurrezione toccò l'apice. Successivamente si sarebbero accertati un migliaio di morti. Se mai l'intervento dell'esercito piemontese era parso necessario quello fu il momento: le reiterate ed inarrestabili atrocità confermarono l'ormai indilazionabile esigenza, ed in ciò concordano molti autori. Il primo documento che costituisce il punto di partenza di quegli avvenimenti militari è infatti il bando cosiddetto di Isernia, pubblicato dal generale Fanti il 10 ottobre 1860 per assicurare i fianchi e le spalle delle truppe che operavano appunto intorno a Gaeta, ed emanato in risposta ed in conseguenza delle deliberazioni che erano state prese nella piazza assediata. L'esercito garibaldino non aveva alcuna possibilità di padroneggiare la situazione, ne meno che mai di pacificare il Mezzogiorno soffocando la contagiosa insorgenza, che rischiava di vanificarne il successo. La storica decisione di varcare il confine del Tronto con l'esercito sardo venne adottata nell'ottobre del 1860 dal governo cavouriano e dalla monarchia assoluta sabauda per preminenti considerazioni di carattere internazionale, ma l'obbiettivo immediato di tagliare la via alla rivoluzione, democratica (mazziniana, garibaldina, liberal-autonomista) nel Sud, anche a costo di una guerra civile. Il progressivo indebolimento relativo dell'armata garibaldina, risultava di giorno in giorno più palese, e non raramente costituivano proprio i suoi reparti il bersaglio elettivo dell'insorgenza come dimostrò ampiamente il tragico agguato alla colonna Nullo. In breve, un contingente di circa 1200 volontari, per lo più appunto garibaldini, al comando del colonnello Nullo partì da Maddaloni per recarsi ad Isernia, col fine manifesto di scacciarne i filoborbonici e domare l'anarchia, prima dell'arrivo dell'esercito piemontese. Nel racconto dei sopravvissuti traspare in pieno la proporzione massiva toccata dalla reazione. Era massima abituale garibaldina di andare sempre avanti, e Nullo vi si attenne. Sul far del giorno 17 fu battuta la generale, e tutta la colonna rimasta in Bojano al comando dei rispettivi capi si pose in marcia per Cantalupo, alla cui taverna ci si fermò per aspettare che i Siciliani e i Beneventani calassero nel paese, tranne cento uomini rimasti a guardia. Si proseguì allora tutti uniti per la rotabile pentrosannitica, che ben presto s'insinua fra la giogaia del Matese a sinistra e i dirupi di Castelpetroso a destra, per dentro una gola che poi digrada in quella dolce vallata d'Isernia circondata dalle alte cime del Matese. Arrivati all'osteria sulla consolare alle falde di Pettoranello, Nullo vi fece appostare il maggiore Caldesi con l'ambulanza e 60 uomini di riserva. Diede ordine a De Marco di occupare Carpinone con 200 dei suoi per disarmarlo. Il De Marco fu il primo ad essere attaccato nella sua mossa su Carpinone perché Regi e reazionari erano già postati in agguato sulle colline dominanti la pianura di Carpinone. In pari tempo un battaglione Regio per massima parte di gendarmi era apparso sulla strada d'Isernia e sui campi laterali, appoggiato da mezzo squadrone di cavalleria, e fiancheggiato da due torme di contadini armati, formanti ali a semicerchio, di cui la destra mirava ad investire le pendici di Pettoranello e la sinistra procedeva verso monte Carpinone, con evidente tattica avvolgente.. Nullo s'avvide subito che i difensori di Pettoranello erano stati avviluppati da due fuochi. (e tentò di correr loro in aiuto) ma ben 3000 contadini in armi, e d'ogni sorta, che sbucati come di sotterra e discesi dai monti coronavano minacciosi ogni cresta e sbarravano ogni passo, impedirono loro di congiungersi ai combattenti. La disfatta fu completata da un orrendo eccidio: gli scampati, costeggiando le pendici del Matese, raggiunsero nella notte Boiano, dove vi era pervenuto anche il Nullo dopo 1'infruttuoso movimento. La stima attendibile delle perdite fece ascendere il numero dei soli morti ad oltre un centinaio. L'episodio esplicitava ancora una volta, l'incapacità dei reparti garibaldini ad operare in maniera militare propriamente detta: Nullo ad esempio sapeva già dal giorno innanzi del concentramento presso Isernia di 2000 soldati borbonici e di circa 3000 contadini ma nella sua avventatezza non ne seppe valutare le conseguenze. L'intervento dell'esercito piemontese rappresentava pertanto l'ultima speranza di controllare la situazione: era però indispensabile per neutralizzare le prevedibilissime accuse di aggressione ostentare un valido presupposto giuridico, quale un plebiscito. Fu indetto così per il 21 dello stesso mese. Ci sembra coerente con la trattazione, non fosse altro che per evidenziare la massa, magari passiva, ma non certo ostile, sulla quale poteva contare la reazione, fornire tramite una relazione estera, quindi meno parziale, redatta dall'ambasciatore inglese a Napoli, Elliot, i risultati della consultazione popolare. Ebbene, scriveva il diplomatico al suo governo che le percentuali di afflusso alle urne: "in Napoli e Sicilia rappresentano appena i diciannove fra cento votanti designati, e ciò ad onta di tutti gli artifici e le violenze usate". Pur essendo il dato relativo al semplice afflusso, e non ai consensi, trattandosi di un plebiscito diviene enormemente significativo: e vi è inoltre da osservare che la bassissima percentuale suddetta era la media meridionale, scendendo il suo valore per la Campania al 16%. A partire da quel fatidico ottobre iniziò la durissima impresa dell'Esercito Italiano che: occupando l'ex regno delle Due Sicilie, si addossò tre pesanti compiti militari nonché polizieschi: liquidare la residua forza militare borbonica, guarnire la frontiera con lo stato pontificio e presidiare l'intero mezzogiorno. Al primo di questi compiti provvide il grosso dell'esercito sotto la guida di Cialdini che tallonò la ritirata di Francesco II in Gaeta e poi assediò quella piazzaforte fino alla capitolazione del febbraio 1861. Gli assedi della cittadella di Messina e di Civitella del Tronto comportarono operazioni di carattere secondario e localizzato. Appena conquistati questi baluardi, la massa fondamentale dell'esercito venne richiamata nell'Italia per rafforzare il minacciato confine del Mincio. Nell'aprile di quell'anno, durante la luogotenenza Carignano, venne costituito il VI corpo d'armata col Gran Comando di Napoli, cinque comandi di divisione e comandi provinciali e distrettuali in tutte le provincie meridionali. L 'organico previsto era di 14 reggimenti di fanteria e tre battaglioni bersaglieri, ma si trattava di cifre sulla carta. Sembra che in quel momento non vi fossero in tutto il Mezzogiorno continentale più di 15.000 uomini, in gran parte concentrati per ragioni politiche nella sola Napoli. È singolare il fatto che nell'inverno 1860-61 i maggiori dirigenti politici moderati nonché gli stessi capi militari, da Farini a Fanti, da Della Rocca allo stesso Cavour, si dichiaravano convinti che, una volta allontanati e dispersi i garibaldini e conquistata Gaeta, l'obiettivo di pacificare il Mezzogiorno e di restaurarvi 1'autorità statale sarebbe stato praticamente conseguito. D'altra parte, la pregiudiziale e la discriminazione antidemocratiche impedivano l'elaborazione da parte loro di una politica più articolata (provvedimenti economici accanto ad efficaci misure repressive). Essi incorsero perciò in un vero e proprio errore di calcolo, confidando nella sola via repressiva, ma senza avere forze sufficienti per attuarla. Tralasciando di addentrarci nella diatriba relativa alla migliore politica di pacificazione del Mezzogiorno, sotto il profilo militare l'azione repressiva può schematicamente dividersi in tre periodi:

1. Il primo esteso a tutto il 1861 va riguardato come illogico completamento della campagna '60- ' 61.

2. Il secondo spaziante tra il '62 ed il '66, con finalità di pubblica sicurezza, fatte salve le grandiose dimensioni operative.

3. Il terzo infine come conclusione e disinfestazione irreversibile dal territorio della piaga del brigantaggio.

È evidente la sostanziale simmetria delle suddette fasi repressive con quelle estrinseche del fenomeno, precedentemente esposte, pur non potendosi attribuire a nessuna delle due schematizzazioni il ruolo di variabile indipendente in assoluto. Agli errori politici, si aggiunsero anche quelli puramente procedurali da parte della dirigenza burocratica italiana, che avrebbero prodotto ulteriori nefaste conseguenze. Uno dei principali fu lo scioglimento dell'esercito napoletano, con una totale indifferenza circa il destino materiale e morale dei suoi componenti, che si ritrovarono da un giorno all'altro ridotti all'accattonaggio. Questi almeno in numero di 10.000, infatti, cifra che prese ad aumentare con i graduali rientri dallo Stato Pontificio, trovarono non solo coerente politicamente ma addirittura privo di alternative esistenziali, confluire nelle bande brigantesche, adesione che se non altro garantiva loro un minimo di paga, onde mantenere in qualche modo le rispettive famiglie. A dispetto degli sforzi dell'Esercito Italiano la frontiera con lo Stato Pontificio rappresentò, per 1'impunità di cui godevano al suo interno i sudditi di Francesco II, la via osmotica per antonomasia del brigantaggio centro meridionale. La sorveglianza ininterrotta che tale impervia e selvaggia linea di demarcazione imponeva ai militari era logorante ed al contempo esasperante. Le bande infatti erano moltissime, dotate di grande mobilità essendo generalmente montate e conoscendo alla perfezione il territorio, spesso poi formate da pochi individui, che sembravano dissolversi quasi nei loro veloci e continui spostamenti. Riuscivano così a varcare il confine sgusciando con destrezza e facilità tra le pattuglie e le postazioni, e per le antichissime mulattiere ed intricati sentieri, pervenivano indisturbati ed inosservati sugli obiettivi prefissi, compiendovi sanguinosi colpi di mano, a spese per lo più dei piccoli abitati e dei distaccamenti isolati della Guardia Nazionale. Quindi mimetizzandosi durante il giorno nelle boscaglie attendevano nuovamente l'oscurità per rientrare in zona franca, sotto la tacita protezione della Chiesa. Le truppe abitualmente male informate ed in ritardo per giunta, lente ad operare per inadeguatezza tattica, raramente intercettavano comitive brigantesche, esaurendosi in vane ed estenuanti perlustrazioni, che per di più le esponevano ad imboscate ed agguati. Per far fronte a tale stato di cose le forze italiane dovettero assumere uno spiegamento assai frazionato e disperso, nel tentativo di controllare il più possibile il territorio, proteggere i centri abitati e le vie di comunicazione, ottenere informazioni, impedire per quanto possibile il vettovagliamento ed i movimenti delle bande. Si cercò quindi di estendere in profondità la zona occupata dispiegando i reparti in tre linee successive. La prima delle tre linee correva immediatamente a ridosso del confine, da Monticelli (Monte S. Biagio) a Tagliacozzo, la seconda, più arretrata, si estendeva da Gaeta ad Alvito, attraverso Pontecorvo e San Germano (Cassino); terza linea infine da Picinisco, alle falde delle Mainarde, attraverso la forte posizione di Mignano, scendeva a Sessa- Traetto. Era come si può rilevare un dispositivo militare imponente, congegnato sia per fronteggiare l'azione di logoramento delle bande che un tentativo di irruzione in forza, sia che provenisse dalla frontiera pontificia che dal Matese. l Sannio infatti con lo scorrer delle settimane prendeva a connotarsi sempre di più come un grande bacino, generatore e difensore, del brigantaggio dell'Italia centrale, proprio per la sua perfetta rispondenza geo-morfologica alla guerriglia, ed anche per la sua comoda vicinanza alla frontiera pontificia, e, non ultimo, per la presenza massiccia di pastori, boscaioli e montanari, che fornivano un essenziale supporto logistico. Nessuna strada, infine, affrontava a quell'epoca il massiccio del Matese, che costituiva un'autentica barriera tra la Campania e l'Abruzzo-Molise. Questo fu uno dei più estesi, importanti e complessi teatri del brigantaggio post-unitario reso peraltro particolarmente delicato dalla presenza del confine pontificio. Un ulteriore aggravio alla instabilità della pericolosa situazione dell'ordine pubblico fu causato dalla smobilitazione dell'esercito garibaldino, che specie per gli elementi meridionali rappresentò una sorta di tradimento ideologico da parte italiana. Un numero insignificante di questi infatti fu ritenuto idoneo per l'ammissione nell'esercito regolare, mentre ai restanti si fece chiaramente intendere che il loro compito era ormai definitivamente concluso e la loro turbolenta presenza non più tollerata. Molti di essi paradossalmente trovarono nella dilagante insurrezione una plausibile continuazione delle aspirazioni rivoluzionarie, andando ad ingrossare le fila del brigantaggio. Il proclama reale di Francesco II dell'8 dicembre del 1860, incentrato sulla tesi della proditoria aggressione piemontese e sulle asprezze conseguenti la dittatura militare legittimava nobilitandole le adesioni alla resistenza brigantesca, neutralizzando ogni diversificazione di finalità.

Popoli delle Due Sicilie questa Piazza dove difendo più che la mia corona l'indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici.

Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indignato consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano.

Ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona.

Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi ne dichiarazioni di guerra.

Non sono i miei sudditi che mi hanno combattutto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l'ingiustificabile invasione di un nemico straniero. Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina si trovano nelle mani del Piemonte. Che à dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia.

Vedete lo stato che presenta il paese. Le Finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l'amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti: invece di libertà, lo stato d'assedio regna nelle province ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s'inchinano alla bandiera di Sardegna. L 'assassinio è ricompensato, il regicidio merita apoteosi; il rispetto al culto santo dei nostri padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono premi che paga il pacifico contribuente. L'anarchia è da per tutto.

Ci è rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri padri. Che l'oblìo copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia pretesto di vendetta, ma per il futuro lezione salutare. ..Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie con parlamenti separati: amnistia completa per tutti i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel Paese, che dispotismo o anarchia. ..

Firmato Francesco II.

Pur nella prudente e larvata esposizione il senso ultimo dell'accorato proclama era esplicito ed allusivo per chiunque e come tale in effetti venne, almeno inizialmente, da molti recepito e raccolto. Pochi giorni dopo, un altro proclama, questa volta di Vittorio Emanuele, determinò un rabbioso malcontento, foriero di ulteriori proselitismi alla causa brigantesca.

VITTORIO EMANUELE

Re di Sardegna

Sulla proposizione del Nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari della Guerra. Abbiamo decretato, e decretiamo quanto segue:

Art. l. Sono chiamati sotto le Armi a far parte del Nostro Esercito attivo tutti gl'individui delle Provincie Napolitane, i quali furono obbligati a marciare per le leve degli anni 1857, 1858, 1859 e 1860 per il già Esercito delle Due Sicilie. Questa chiamata comprende benanche gl'individui che obbligati a marciare per conto delle Leve degli anni anzidetti, non si siano ancora presentati.

Art. 2. Tutti gli altri individui appartenenti al già Esercito delle Due Sicilie non compresi nelle Leve indicate nello articolo precedente, i quali non hanno compito il loro impegno, o che avendolo espletato non possono legalmente comprovarlo, sono tenuti alla continuazione del servizio, ma saranno rinviati nelle rispettive loro Patrie con licenza illimitata, coll'obbligo però di dover marciare a qualunque chiamata. Qualora in qualche provincia o comune si manifestassero mene ostili al Nostro Governo, tutt'i militari di cui è caso appartenenti a quella provincia o comune, saranno immediatamente chiamati sotto le armi.

Art. 3. Tutti gl'individui che a termine dello articolo 1° sono chiamati a marciare, dovranno entro tutto il mese di gennaio 1861, essersi presentati al Deposito Generale di Napoli, e qualora non vi adempissero, verranno le reclute dichiarate refrattarie, ed i soldati disertori, e quindi puniti secondo le leggi vigenti in queste Provincie Meridionali.

Art. 4. Per gl'individui i quali trovinsi già nelle antiche provincie del Regno, o riuniti in depositi speciali, provvederà in conformità direttamente il Nostro Ministro Segretario di Stato per la Guerra.

Art. 5. Rimane a cura de' Governatori, e de' Comandanti militari 10 esatto e sollecito adempimento delle prescrizioni che riflettono i militari tutti i quali si trovano sparsi in queste Provincie Meridionali.

Il Nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari della Guerra è incaricato dell'esecuzione del

presente Decreto che sarà registrato alla Corte de' Conti.

Da Napoli addì 20 dicembre 1860

Firmato Vittorio Emanuele.

Le famiglie contadine sono alla disperazione (la ferma era di 8 anni n.d.A.); il nuovo re nel bando non contempla nessuna eccezione. Da meravigliarsi se rimpiangono i Borboni? Ferdinando II con la legge del 1834 concedeva l'esenzione dal servizio militare ai figli unici e agli ammogliati, accontentandosi che le famiglie con due o tre figli dessero un soldato e le più numerose due. Permetteva il cambio militare in ragione di 240 ducati; Vittorio Emanuele che è avido di denaro, ne chiede ora 729. La renitenza alla leva si trasformò in un nuovo incentivo alla latitanza, e quindi al brigantaggio, apparente rimedio a tutte le afflizioni materiali e morali. Ancora in pieno 1861 si insisteva sulla stessa ottusa incomprensione ed intolleranza, rinforzandone per di più la drasticità. Una circolare ad esempio del 5 luglio così intimava in materia di esoneri, sulla base di una comunicazione alquanto incerta, affermante che numerosi individui: "fan pervenire per mezzo delle Autorità le loro reclamazioni, sullo scopo di ottenere l'esenzione dal marciare, perché sostegni di famiglia. Tale pratica essendo abusiva, non può essere più lungamente tollerata e non dovranno accogliersi alcune dimande di siffatto genere. ..".

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