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MONTEFALCONE DI VAL FORTORE

da: "MONTEFALCONE DI VALFORTORE" - Appunti di storia tradizioni folklore -1985

di: Leonardo (P. Serafino o.f.m.) Zeppa

 

FINE DEL FEUDALESIMO A MONTEFALCONE

 

SOLLEVAZIONE POPOLARE

 

GOVERNO PROVVISORIO

 

IL BRIGANTAGGIO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FINE DEL FEUDALESIMO A MONTEFALCONE

Con l'apertura del testamento del Marchese Don Gaspare De Sanctis, avvenuta il 13 settembre 1773, il feudo di Montefalcone doveva essere diviso tra il di lui nipote ex sorore Marchese don Vincenzo Capece ed il Barone Pietro Stravino, erede universale fiduciario, con l'obbligo a quest'ultimo di ottemperare a quanto il testatore gli aveva comunicato ad aures e cioè: "costituire quattro maritaggi all'anno da distribuire a quattro donzelle vergini e povere di Montefalcone" secondo che "sarebbero sortite dal bussolo da farsene dai Parroci di quella terra". Il testamento fu impugnato dagli eredi diseredati e così tutta l'eredità fu portata davanti al S.R.C. Fu fatta causa prima in tribunale e nella Gran Corte della Vicaria e poi nella Real Camera di Santa Chiara, finché si venne ad una transazione. Fu compilato un Alberano col quale si stabilì doversi procedere all'apprezzo e vendita, servatis servandis, del feudo stesso e che dall'eredità burgensatica e feudale si dovevano trarre legati, debiti e pesi perpetui ed il restante dividersi tra gli eredi costituiti. Il relativo Decreto interposto di exeqatur conventio venne approvato. Il Regio Ingegnere Cannitelli, preposto a tanto, apprezzò tutto i feudo per ducati 72.856. Avverso tale prezzo che si suppose "dettato con termini equivoci e maliziosi", insorse l'Università di Montefalcone protestandosi formalmente nel S.R.C. con lunga e ragionata istanza affinché "in qualunque tempo pregiudizio alcuno non potesse provvenirle da siffatto consegnato apprezzo". Purtroppo, non si tenne, in un primo momento, nessuna considerazione di questo ricorso ed il 24 luglio 1777 il feudo venne venduto all'asta e dopo l'estinzione della terza candeletta ne rimase aggiudicatario un tal Don Francesco Antonio Faraone con un aumento di dieci ducati. In seguito a maneggi architettati dal Marchese Don Pietro Stravino, il Regio Commissario Guidotti, assegnò il feudo allo stesso Stravino col consenso del primo aggiudicatario Don Francesco Antonio Faraone. Allo stesso Don Pietro, oltre al feudo, furono vendute anche le rendite feudali e cioè il Corpo della Mastrodattia "che consiste nello esercizio delle prime e seconde cause civili, criminali e miste, il mero e misto imperio, con la podestà di commutare le pene e giurisdizione della Bagliva". Il 19 luglio 1778 prese possesso del feudo e da quel giorno i Montefalconesi incominciarono a subire violenze, angherie ed oppressioni. A frenare tali eccessi non valsero le premure del Sindaco Gabriele Paoletta che si recò personalmente per ben due volte in casa del Barone "a pregarlo" ma non ebbe soddisfazione, anzi le sue preghiere inasprirono l'animo dell'avido feudatario peggiorando la situazione. Dietro un tal modo di procedere il Sindaco convocò, il 24 giugno 1779, tutti i cittadini in pubblico parlamento facendo accorata e dettagliata esposizione delle circostanze proponendo ricorso per il S.R.C.. I Montefalconesi, resi consapevoli delle prepotenze e sovercherie del nuovo padrone e conoscendo l'indole del Marchese per "l'ansia di eccessivo interesse ed oppressione molto afflittive verso quella popolazione", in considerazione che a tenore delle R. Prammatiche competeva all'Università la prelazione jure Demanio nella compra del feudo e poiché non era trascorso l'anno dal giorno del contratto di compra e dal possesso che si era preso, stabilì proclamare il Regio Demanio. Ma anche qui le inique ed infernali macchinazione dello Stravino stavano per capovolgere la situazione facendo "comparire alcuni pochi della stessa terra li quali mossi da privati interessi e specialmente dalle seduzioni dello Stravino e decoratosi dello specioso titolo di ZELANTI CITTADINI umiliarono supplica al R. Trono ed industriandosi di dipingere il Demanio dimandato per la VERA E IRREPARABILE RUINA della loro patria supplicarono S. Maestà (D.G.) ordinare alla detta Camera a non dar luogo alla istanza con cui detto Demanio erasi dimandato". Questa volta le insidie dei traditori non riuscirono ed il Sindaco Paoletta ebbe l'onore di annunziare ai suoi carissimi cittadini: "...... dopo tre anni di litigio strepitoso, dopo tante cavillazioni e dilazioni, che abbiamo dovuto soffrire, dopo tante angosce e dispendi, il Signore ha benedetto la causa del nostro Demanio, imperocché la Regia Corte con Decreto in grado di tutti i rimedi ci ha accordato il Regio Demanio e la clemenza di Sua Maestà (D.G.) si è degnata di deferire alle nostre suppliche con accordarci quel Regio Assenso (Regalis Assensus et Consensus sit-Ferdinandus) che hanno domandato coloro che ci danno a mutuo il denaro pel prezzo del Feudo, essendo da valere anche in caso di devoluzione se si estinguesse la linea del nostro concittadino FILIPPO DI FRANCESCO SACCHETTA, a cui voi miei diletti Cittadini avete risoluto d'intestarlo". Era necessario cautelare gli interessi dei mutuanti ed all'uopo gli Amministratori dell'Università, i Deputati del Demanio e quaranta particolari Cittadini benestanti fra i quali Carmine Romano, Giuseppe Di Stasio, Notar Giovanni del fu Antonio Zeppa, Antonio di Ciriaco Zeppa, i dottori Ricciardelli, Di Stefano, Regina, etc.. nominarono Procuratore dell'Università il "coscienzioso e dotto" DON GAETANO LOTTI, al quale concessero tutta la facoltà bastante "anche coll'alter ego, vices et veces etc." per stipolare i contratti di mutuo. Una parte del mutuo fu concesso da S.E. il duca DON NICOLA DI SANGRO e la rimanenza da Don Vincenzo Maria Carafa Cantelmo Stuard Principe di Roccella "Difensore e Protettore della libertà di quella Popolazione" da estinguersi entro lo spazio di 30 anni con l'interesse "a titolo di mora, lucro cessante e danno emergente alla ragione del 4% e con la accensione delle ipoteche sulla proprietà di tutti i Cittadini" come correi, tanto per li beni presenti che futuri, che li medesimi possedono sì nel tenimento di detta Università come in altri lochi". Si constituì all'uopo il CONSIGLIO DEI SOCI presieduto dall'Arciprete Caruso, da tutti i Preti, dai Dottori del tempo, dal signor Antonio Lupo, Carmine Vecchilla, Mattia Miniello, Michele Coduti, Carmine Antonio Sacchetta, Nicolangelo Paoletta, Angelo Ciarmoli, Janzito e Gabriele Paoletti, i quali si recarono dal Notaio Don Ignazio Coduti di Montefalcone per obbligarsi verso i Creditori ed infatti "tacto pectore et tactis scriptis, ..... giurarono sotto la pena del doppio patto e sotto la clausola del Costituto (Sacchetta)". Col 27 maggio 1782 ebbe fine il Feudo e cessò il ciclo delle violenze, oppressioni e soprusi della tracotanza baronale in Montefalcone, grazie al "Regalis Assensus et Consensus di Ferdinandus", che se non fosse stato disturbato dalle idee rivoluzionarie importate d'oltre Alpi avrebbe finito col dare tutte le riforme che si richiedevano, per il bene del popolo". L'Università di Montefalcone, che non aveva mai subito supinamente il potere che da secoli aveva sulle spalle, colse l'occasione propizia per correre alla riscossa, prima ancora che il regime feudale entrasse in agonia, per annullare del tutto le prerogative ormai anacronistiche e divenute insopportabili, compiendo così un passo coraggioso verso l'abrogazione dei privilegi di classi e d'individui, che già d'allora non potevano più resistere all'ondata di riforme sociali, economiche e politiche. Il grande avvenimento costituì la vittoria finale di una lotta secolare e sostenuta sempre con onore ed ardore, pur nei momenti di depressione. Fu, infatti, una bella vittoria ed una magnifica affermazione dell'autonomia municipale, dell'imprescrittibilità e della inviolabilità dei diritti dei cittadini e della naturale eguaglianza delle leggi. Ma il Comune, toltosi l'incubo dello Stravino, non curò di pagare le somme prese in prestito ed i creditori provocarono l'esproprio dei beni feudali per la somma di 27.936 ducati. Così il Duca di Sangro si rese padrone dei seguenti beni comunali: "Palazzo diruto (il vecchio castello feudale), casa alla Ripilla, territori Stringarelli, Montagna di S. Luca, masseria Vallebona, territori Ferregna, podere Mulino Vecchio e casella dei Porci, Difesa, Porpono, Prato, Ischia, Giardino, masseria Stellara, territori Costa dell'Orso. Apertosi il giudizio di graduazione, per il prezzo di aggiudicazione fu attribuito al Duca di Sangro; ma la Gran Corte Civile di Lucera, ordinando che fossero ridotte le spese di esproprio e di graduazione e che il resto si fosse diviso fra Duca di Sangro e quello di Bruzzano (quest'ultimo, rappresentante il Principe di Roccelle) in proporzione dei rispettivi crediti. L'istrumento fu rogato il 15 marzo 1827 dal Notaio Emmanuele Caputo di Napoli, ed avvenne fra i due suddetti Duchi la divisione degli immobili espropriati. Al Duca di Bruzzano furono assegnati i seguenti beni: Palazzo diruito, casa alla Ripitella, il territorio alla Scomunicata, il territorio ed il mulino adiacente alle Cesine, la montagna di San Luca ed il territorio Stringarelli, tutti gli altri beni furono attribuiti al Duca di Sangro. Quest'ultimo restò ancora creditore di una ingente somma, per cui nel 1828 iniziò una seconda azione legale contro il Comune ed i cittadini obbligati. Non mancarono opposizioni da parte dei debitori e la Gran Corte di Napoli, con decisione del 18 agosto dello stesso anno, condannò il Comune a pagare il Duca Riccardo di Sangro, succeduto al padre, la somma di ducati 30.754, 06, oltre alle spese di giudizio. Questa sentenza fece mettere senno ai maggiorenni del Comune, i quali pensarono di soddisfare il Duca con i beni comunali e, ottenuta l'autorizzazione, fu fatto l'istrumento dal Notaio Benedetto Conte di Napoli il 23 febbraio 1839. Il signor Albenzio Paoletti, nella qualità di procuratore del Comune di Montefalcone, cedette al Duca Riccardo, in soddisfazione del suo credito di ducati 37.079, 29 le tenute Gallizzi, Pagliano, e demani e una prestazione della semenza. Finirono così le contese del comune ed ebbe inizio la proprietà del Duca di Sangro. In seguito il Duca di Sangro vendette i predetti beni ai cittadini di Montefalcone e dei paesi limitrofi; la vendita fu fatta dal Notaio Leonardo Capozzi, quale amministratore del Duca.

 

 

SOLLEVAZIONE POPOLARE

Con la invasione francese del 1806, il Re Ferdinando si rifugiò in Sicilia (30/3/1806), e salì sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte, sostituito dopo una paio di anni da Gioacchino Murat che dichiarò abolita la feudalità, le sue prerogative ed i suoi attributi. "Era un processo di fatale decadimento, fatale e perciò generale", dice lo storico Gioacchino Volpe, e così la scena finale del dramma accelerava il suo ritmo per le straordinarie vicende dei tempi e le cose, nei riguardi del regime feudale, precipitarono ed ebbero l'ultimo colpo ed il definitivo tracollo. I discendenti del Consiglio dei Savi di Montefalcone sfruttarono tale processo di decadimento, che fu lento nei tempi normali, ma terribilmente accelerato negli anni torbidi, e profittando della pubblicazione della legge del 2 agosto 1808, vennero meno agli impegni assunti dagli avi nel 1782. Interessi e capitale non furono pagati né al Duca di Sangro, né all'unico figlio del Principe Roccella: Don Gennaro Maria Carafa duca di Bruzzano. Dati i tempi non favorevoli, tanto il Principe che il Duca non si sentivano la forza di resistere alla pressione cui erano sottoposti, anche perché nuovi avvenimenti si prospettavano all'orizzonte e la Monarchia non aveva volontà di proteggerli. Con la caduta dell'Impero Napoleonico, che travolse nelle sue rovine anche Gioacchino Murat, e col ritorno di Ferdinando IV dalla Sicilia, il Principe ed il Duca per sostenere i loro diritti e per non perdere del tutto i loro titoli di creditori, colsero l'occasione propizia per iniziare gli atti coattivi contro il Comune ed i cittadini firmatari, dando così principio ad un giudizio civile, ricco di masse di documenti e memorie. La causa fu agitata davanti il Tribunale di Capitanata e si risolvette con la vendita all'asta dei beni di parecchi cittadini e con la corresponsione della mezza semenza a beneficio dei creditori instanti fino alla totale estinzione del debito. I Montefalconesi accusarono il colpo ed attesero tempi migliori. Dopo aver pazientato per oltre 40 anni, la mattina del 7 maggio 1848 scoppiò la sollevazione popolare, causata da cattiva interpretazione della circolare ministeriale del 22 aprile, con la quale si "richiamava i Comuni a rivendicarsi i fondi già stati Demaniali o Feudali ceduti ai creditori, Baroni, Principi, per debolezza, per miseria, ignoranza o raggiri degli amministratori". Animati da questa notizia tutti i popolani corsero alla casa del Sindaco Michele Marcantonio, minacciando la vita, se non avesse fatto proclamare il bando di proibire la misurazione dell'agro semenzato e l'espulsione dell'agrimensore, per non pagare la mezza semenza ai Duchi di Sangro e di Bruzzano. Il Sindaco "atteso i clamori del popolo e premendo vieppiù le minacce", visto che non poteva dissuadere la plebe dal criminoso proposito e ridotto a mal partito, gli fu forza concedere quello che non poteva "est quidam humanarum virium modus, qui nulla virtute reparari potest" e di concerto con il Capitano della Guardia Nazionale, ordinò al servente comunale Michele Abatessa di pubblicare il bando richiesto. Dopo una tale legalità la ciurma credette lecito invadere i terreni e per conseguire i suoi presunti diritti si affidò all'arbitrio e alla violenza "id quod deberi sibi putat non per judicem reposcit". .......... e corse, con tamburo e fanfara in testa, che colà trovandosi in occasione della festa di S. Michele, a porre i termini lapidei nei possedimenti dei Duchi "che da più tempo, dice il Sindaco, si erano ceduti ai creditori, stimando in simil maniera riconquistare il loro perduto diritto di padronanza ed antico lor patrimonio". Sul fare della sera tutto il popolo si radunò nel largo S. Vincenzo fuori l'abitato, per attendere l'arrivo del corriere postale e sequestrare la corrispondenza, nella speranza di impadronirsi di quella famosa circolare ministeriale. Appena arrivato prelevarono il procaccia e lo condussero in paese, ma giunti al largo della Croce si fece innanzi nuovamente il Capitano apostrofando aspramente quei tumultuanti e così il procaccia rimase libero e fu accompagnato al Comune, ove alla presenza del Sindaco, di tutte le Autorità Civili ed Ecclesiastiche e di tutto il popolo fu aperta la valigia e letta la corrispondenza ad alta voce. Non rinvenutasi la circolare "la ciurma vieppiù inferiva verso gli amministratori e gli impiegati archivari, supponendo che questi tendevano defraudare i loro diritti con l'involamento di essa". Il Capitano "dopo lunghi e pericolosi contatti avuti col popolo", si obbligò a rintracciarla o richiederla dalle rispettive autorità poi presentarla il dì seguente". In quel tafferuglio due dei dimostranti furono feriti ed uno perdette la vita per mano di Don Pantaleone Corso. Alla vista del sangue tutti i galantuomini scapparono via cercando riparo e salvezza, ma una parte del popolo inseguì l'Arciprete, lo maltrattò e malmenò, ed il di lui fratello Don Giuseppantonio Palazzi, con viva forza fu portato a casa dell'esattore della fondiaria don Claudio Sacchetti per rintracciare la diabolica disposizione. L'altra parte della moltitudine si recò in folla, per rappresaglia, a scassinare la farmacia di don Pasquale Corso, padre dell'uccisore, devastandola in pieno ad onta della resistenza opposta dall'Ufficiale di settimana signor Ricciardelli, ivi destinato con una pattuglia a serbare l'ordine pubblico. Non seguirono altri eccessi per la "prudenza, zelo, compromissione e attività del Capitano che non desistette tuttavia sorvegliare contro i perturbatori e garentire sempre più i diritti del pubblico e del privato". All'alba del giorno 9, punto dimenticandosi le pretenzioni della antecedente sera, l'intero popolo, sempre armato come nei giorni precedenti, prelevò il Sindaco e lo condusse davanti la casa del Capitano per ricevere la famosa circolare, che non essendosi rinvenuta fu supplita da una copia del Giornale Costituzionale della stessa data e con la lettura del medesimo si pacificò l'animo irato di quella gente rimanendo finalmente soddisfatta. Non contenti i tumultuanti di quanto avevano per l'innanzi abusivamente praticato, vollero essi stessi, non per loro particolare profitto bensì per garantire sempre più gli interessi del Duca di Sangro, fare apporre i sigilli di ceralacca per mano del Sindaco sui magazzini in modo da estromettere i famelici amministratori. Poi il ciclo delle tre giornate, recandosi, sempre armati con i più svariati arnesi agricoli, alla contrada Stellara e Vallebona per prendere anche il possesso di queste zone, come pure s'impadronirono delle chiavi dei mulini che consegnarono al Sindaco insieme all'estaglio della Montagna in ducati 480 dovuti dal fittavolo don Vincenzo Riccio al Duca di Bruzzano. Dopo questa breve pausa di completa anarchia torna la calma e la tranquillità. Dal verbale redatto dalle Autorità Comunali ed Ecclesiastiche si rileva che la causa principale di questa sollevazione popolare va ricercata nella fraudolenta amministrazione degli agenti ducali. "La pace, dice il Sindaco, che serbavasi in questo Comune, quantunque oppresso dalla miseria, era invidiabile, proveniente dalla docilità, buona indole ed affabilità che sempre ha distinto questi cittadini. Ella però era cosa di pubblica conoscenza, nonché causa originaria di tanti subbugli popolari, che l'agente del Duca di Sangro don Giuseppe Maria Cirelli di Castelfranco, nel giro di 18 anni ha depauperato questo Comune, usando sempre atti abusivi ed arbitrari, ecc... ecc." e continua che è un voto pubblico allontanare subito il Cirelli dal Comune e "i molti soprusi commessi a danno di questo popolo, che l'hanno soverchiamente vilipeso, ha cercato finalmente rimuoversi da quel gioco, che da più tempo l'aggravava, avendo perduto in simil modo tranquillità, roba ed onore". Il verbale a firma del Sindaco, del Capitano Tutolo, del 1^ Tenente Grassi, del 2^ Tenente Mansueto, degli alfieri Ricciardelli e Pasquale Tutolo, del Conciliatore Sacerdote don Nicola Tulino, dello Arciprete Palazzi, di Antonio Doto, Alessandro Paoletti, Giuseppe Miresse, Giovanni Dimperio, Agostino D'Alessio, Giuseppe Zeppa, del Segretario Giuseppe De Luca e di molti altri, così conclude: "possiamo intanto assicurare ogni Autorità che questo popolo fin dalla sera del giorno 9, ha ripreso la sua primiera quieta e speriamo perduri nella risoluzione intrapresa". Dopo qualche giorno l'agente Cirelli denunzia il fatto a S.E. Federico Campobrin, Sottointendente del Distretto di Bovino, incriminando il popolo, il Sindaco, Decurioni, Parroci, Autorità Civili, Comunali e Pubblica Sicurezza. Si inizia cosi una lunga e voluminosa procedura che durò parecchi anni per atto arbitrario contro i diritti civili dei Duchi di Sangro e Bruzzano di Napoli ed alla fine, come in quasi tutti i processi di tal genere, dopo una dotta requisitoria del procuratore Uva che si riporta alla notissima legge Julia "De vi pubblica et vi privata" la Gran Corte applica l'Art. 38 delle leggi p.p. e "dichiara non esservi luogo a procedimento penale contro tutti gli imputati". È uno dei tanti processi che traggono origine da moti proletari: dalla sempre viva aspirazione degli agricoltori nullatenenti di possedere un pezzo di terreno senza tener presente il "facimus sed in iure facimus".

 

 

GOVERNO PROVVISORIO

Mentre il Governo Dittatoriale di Garibaldi emanava proclami e decreti, raccomandando a tutti "che questo stato transitorio passi con calma, con prudenza, con moderazione", in attesa dell'arrivo di Vittorio Emanuele che da Ancona aveva già annunziato che la sua politica in Europa "non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli con la stabilità delle monarchie, formando nella libertà la forte monarchia italiana", in quasi tutti i paesi del Molise e Sub-Appennino avvenivano accessi, tumulti e reazioni. In Montefalcone, approfittando che la truppa di stanza in provincia fu fatta ripiegare su Napoli per accorrere a Gaeta, i rivoltosi ne colsero l'occasione per creare quello stato di anarchia, eccitando i proletari a prendersi la rivincita sui fatti del 1848. Il 12 agosto 1860 ci fu un nuovo tentativo di sollevazione popolare capeggiato dai germani Pietropaolo e Antonio Altobelli fu Giambattista e Pietro Tudisco fu Bartolomeo "i quali si resero promotori del tentato disordine a comunismo che fino a tre ore di notte non cessarono di esternare disegni di reazione, promettendo che tutto avrebbe eseguito col grido di Viva Francesco II! Si fotte la Guardia Nazionale! Il 15 agosto, mentre le autorità erano intente a presenziare alle sacre funzioni, "quei perturbatori si conferirono arbitrariamente nella tenuta erbifora di S. Luca dei Sig.ri Filiasi e Frascolla e con modi violenti cacciarono dal pascolo gli animali e gli stessi proprietari. Ritornati in paese si recarono nell'abitazione dell'Agente del Duca scassinando tutto, rubando e bruciando quanto vi era, dopo si condussero nel magazzino dei cereali ove praticarono lo stesso". Il giorno dopo si recarono ad occupare anche i terreni del Demanio tenuti in fitto da Saverio Sgalia. Al povero Cirelli, Agente del Duca di Sangro e proprietario della Difesa di S. Luca, già duramente provato durante i moti del 1848, dopo essersi messo al sicuro in Castelfranco insieme all'altro Agente Bozzuto Salvatore, non rimase che ricorrere al Ministro Segretario di Stato per l'Interno al quale indirizzò un dettagliato rapporto sottolineando che "in quel Comune si era risvegliata l'infame idea del Comunismo" ed implorava misure di rigore contro i colpevoli. Il Ministro dette subito disposizioni all'Intendente "perché la Autorità Civile tenesse in una mano la forza per farsi rispettare". L'Intendente, però, privo di una forza repressiva, emanava circolari ai Comuni per assicurare e tutelare la pubblica tranquillità dalle mene dei reazionari, imponendo a tutti i Sindaci di mobilitare una parte della Guardia Nazionale e spedirla nei centri di raccolta per tenersi pronta ad accorrere dove il bisogno lo richiedeva e dove le libere istituzioni erano attentate da incauti anarchici e reazionari. La Guardia Nazionale non bastava perché era stata divisa un pò da per tutto in quanto quasi contemporaneamente ogni comune era insorto e l'Intendente stesso fa rilevare questa lacuna dicendo di non aver "alcuna forza disponibile meno quella dei Dragoni, decimata dalla malattia, e che debbono accorrere al bisogno di due altri Distretti importantissimi ed alla conservazione dell'ordine pubblico in questo Capoluogo" e così ogni paese creava la sua avventura. Fu sollecitato il Giudice Simonelli da Castelfranco a prendere provvedimenti contro i sobillatori e rei di Montefalcone; ma questi in data 8 settembre 1860 rispondeva all'Intendente di aver fatto il suo dovere informando tutte le Autorità Governative ma certo non poteva però esporre la sua persona ad un sicuro pericolo "per procedere all'istruzione dei reati ivi commessi". E dichiarava pure che non "credeva opportuno il concorso della Guardia Nazionale di Roseto Valfortore per non assumersi responsabilità di qualche fatto di armi che potrebbe avvenire fra i due Comuni" però assicurava che non appena "si sarebbero pacificati gli animi" avrebbe proceduto "rigorosamente contro i colpevoli di Montefalcone". In risposta l'Intendente fece sapere che "dopo la distruzione è inutile il rimedio. La giustizia punirà i colpevoli ma non riparerà i danni essendo i rei tutti proletari" e raccomandava caldamente al Giudice ad "agire con la possibile sollecitudine, eccitando almeno lo zelo della Guardia Nazionale". Tutte le persone probe e di provata fede liberale si erano rifugiate in luoghi più o meno sicuri, dai quali facevano pervenire ricorsi infuocati all'Intendente domandando giustizia. Così l'Arciprete don Carlo Palazzi, che era stato designato come vittima da sacrificare insieme al Sindaco ed al Capo Plotone della Guardia Nazionale don Carminio Goduti, da accorto buon prete conservatore si rifugiò in Roseto Valfortore da dove rapportò che l'ex Capo Compagnia della Guardia Nazionale sig. Sacchetti si era eretto a "protettore della plebe disseminando nel volgo mille falsità, arrivando fino a dire che Montefalcone sarà tra un giorno all'altro elevato a GOVERNO PROVVISORIO". Il 7 settembre mentre si festeggiava Garibaldi a Napoli, si sparse la notizia che una banda di insorti dei paesi limitrofi bene armata si sarebbe recata a Montefalcone per assecondare i turpi desideri dei rivoltosi e così tutta la plebaglia si rimise in movimento con a capo Pietro Maffia al grido: "all'armi! all'armi! che giunge la truppa amica" minacciando la vita a chi avesse pronunziato o festeggiato il nome del Dittatore. La Guardia Nazionale e quella parte sana della popolazione, a suon di campana, fu mobilitata per difendersi dall'assalto che sarebbe venuto di fuori. Ad un'ora di notte, infatti, si presentò alla porte del paese una ciurma urlante, ma venuta a conoscenza che quasi tutto il popolo era contro, stimò allontanarsi immediatamente. In questo frattempo il rivoltoso Maffia "si avventò contro il Primo Tenente don Carminio Goduti tirandogli un colpo di scure dal quale si difese ed indi con lo stivale che fu anche sbalzato senza essere punto offeso". L'attentato impaurì don Carminio a tal punto che immediatamente ricorse all'Intendente affinché facesse arrivare "un'importante armata, onde far riconoscere il nuovo Governo e ripristinare l’ordine, non tralasciando disporre il disarmo di coloro, che non essendo facoltati a detenerle, se ne sono provvisti dai soldati borbonici sbandati, che per qui transitavano". Non mancò pure far rilevare, forse per ragioni personali, che tutta la Guardia Nazionale si cooperò per il bene della Patria ad eccezione del solo Secondo Tenente don Pantaleone Corso che "tradendo il suo sacro mandato si teneva tranquillo e chiuso in casa di suo suocero don Claudio Sacchetti", per cui fu destituito per espresso. Fu ordinato al Capitano DE PEPPO di Lucera di abbandonare la sua città "poiché per la sua avanzata civiltà è immune da perniciosi pericoli di comunismo" e di recarsi a Montefalcone per reprimere con energia quei disordini ed arrestarne i responsabili, "il maggior utile che Ella trarrà dal disagio che le cagione questa spedizione sarà il bene del Paese". Contemporaneamente all'ordine del Governatore della Provincia arrivò pure un telegramma del Dittatore che invitava il DE PEPPO a partire subito per Napoli e così della cosa si interessò il Capitano don Gaetano De Troia il quale affermò che "i Lucerini abbenché pronti ad affrontare ogni pericolo per il pubblico e privato interesse, sono però affatto estranei e conoscitori di Montefalcone e quindi non potrebbero dirigere l'azione e prendere di mira quei luoghi richiesti da una sana strategia fissando il punto da cui muovere alla sorpresa dei facinorosi comunisti". Intanto a Montefalcone si viveva nella più completa anarchia, tanto che il Sindaco Palazzi all'oscuro di qualsiasi disposizione governativa, scriveva a tutte la Autorità ma non aveva mai nessuna risposta fino a che si decise denunziare al Capo della Provincia per fare arrestare una quarantina dei suoi più accesi amministrati quali fautori e responsabili degli eccessi rivoluzionari. Nel contempo pregava il Governatore affinché si compenetrasse una buona volta "del deplorevole stato di quel disgraziato paese che invece di smorzarsi il fuoco dell'anarchia si sta riaccendendo con minacce di vita nella mia persona e di pochi galantuomini che vi sono rimasti. Se si indugia altro tempo si avranno a deplorare fatti irresponsabili che certo la di Lei coscienza non potrà mai tollerare". E così finalmente fu spedito da Bovino una forza non indifferente la quale dopo aver "approfondito con ogni zelo le indagini sugli autori del disordine e raccolti gli elementi procedette all'immediato arresto dei medesimi" che furono tradotti alla Sotto Intendenza di Bovino per indi istruirsi a loro carico la corrispondente processura a termini di legge. Dopo una tale operazione punitiva tornò la calma e la tranquillità in Montefalcone. Questo movimento popolare chiamato RIVOLUZIONE - SOLLEVAZIONE BANDITISMO ANARCHICO sarebbe un pò come ieri, come oggi, come sempre l'eterna guerra della parte proletaria contro il ricco, che a differenza del BRIGANTAGGIO, il cui scopo pratico era senza dubbio la rapina, l'appropriazione delle ricchezze altrui e la mania di distruggere per sfogo di vile e feroce vendetta personale, aveva di mira conseguire le proprie secolari esigenze, sia pure sotto il velo della difesa del trono. La secolare aspirazione di questa gente, la loro vera libertà sarebbe stata la spartizione delle terre ed il possesso della cosa pubblica nelle mani dei contadini e perciò nulla di più naturale che per realizzare i propri disegni tutti i popolani approfittassero dello sconvolgimento nazionale per inscenare la propria rivoluzione. Ma, purtroppo, doveva passare ancora molto tempo prima che queste moltitudini campestri potessero cercare la via del loro riscatto non in endemici sussulti, ma entrando attraverso i partiti dei lavoratori nel libero gioco delle forze pubbliche, facendo valere i propri interessi col metodo democratico, sul piede di una effettiva eguaglianza, in uno Stato espressione di tutte le classi.

 

 

IL BRIGANTAGGIO

Il brigantaggio fu un fenomeno generale di tutta l'Italia del Sud e quindi anche della nostra terra. Pasquale Villari dice: "Il brigantaggio non nasce da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. Diventa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie". Anche se tanto è stato scritto sull'argomento, è opportuno, sia pure brevemente, puntualizzare la situazione per poter meglio capire il movimento. La situazione economico-sociale della nostra penisola era costituita quasi in un doppio profilo: un'Italia cittadina e un'Italia rurale o agricola, con due diverse ideologie e con due diverse strutture economiche. L'Italia settentrionale era caratterizzata prevalentemente da una civiltà urbana, cittadina, industriale, ad economia aperta (economia di mercato o finanziaria); da un'ideologia liberale che si traduceva sul piano politico nelle forme della monarchia costituzionale. Nel sud, invece, la situazione era ad un livello precapitalistico, preliberale, premoderno (economia agraria, chiusa, di consumo) ed era strettamente connessa con forme politiche ancora feudali o semifeudali. Questa diversità sostanziale era la ragione prima di tutte le difficoltà in cui venne a trovarsi la nuova classe dirigente. L’incontro e lo scontro delle due strutture politiche ed economiche si risolse evidentemente a danno di quella più debole e più arretrata. Prima dell'unità nel meridione la situazione aveva un suo equilibrio interno quantunque ad un basso livello di civiltà: la deficienza dei beni economici era compensata dalla presenza di istituzioni civili e religiose (confraternite assistenziali ed opere caritative) legate al demanio comunale o alla mano morta ecclesiastica; inoltre, i ceti specialmente più umili erano esenti da imposizioni fiscali e da obblighi civili, come la leva militare. Il vecchio stato se nulla dava, nulla pretendeva. Dalla letteratura verista, che è regionalistica e meridionalistica, possiamo capire meglio la situazione: nei Malavoglia di Verga la intromissione dello stato italiano nella povera famiglia, mediante la leva militare e le imposizioni fiscali, determina il tracollo della già stremata economia: "'Ntoni dopo il servizio militare diventa contrabbandiere e ribelle, la casa del Nespolo è sequestrata, il vecchio patriarca va a morire in uno squallido ospizio. Nei Viceré di De Roberto comprendiamo un altro aspetto della questione meridionale: il trapasso delle vecchie famiglie baronali alla nuova realtà politica, il che ci dice che le classi dominanti rimasero le stesse sotto nuova forma e le classi subalterne subirono un aggravamento di oppressione e di sfruttamento. La rapida trasformazione politica e l'atteggiamento assunto dal governo piemontese, che si avvalse di uomini che non conoscevano le reali condizioni delle province meridionali, suscitarono ovunque risentimenti e malcontenti non solo negli esponenti della vecchia classe dirigente borbonica, ma perfino negli stessi liberali, molti dei quali ritenendo che la libertà e la nazionalità siano sinonimi di ricchezze ed impieghi, lamentano di non essere chiamati a ricoprire incarichi remunerativi. Mutato il governo, le condizioni delle nostre zone rimangono le stesse, anzi si aggravano: oppressi dalla miseria, tormentati dalla fame e dalla disperazione, non si vede alcuna via di uscita ed i vinti e gli oppressi guardano con odio coloro che si sono avvantaggiati degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche e nuovi guadagni. "Questo stato di cose, come dice Anianello li sconvolge, li esaspera, li rende facili vittime di chi mal sopporta di essere stato sostituito dai fautori del nuovo ordine politico. Nella miseria che avvilisce le plebi, nel risentimento di coloro che sono tenuti in disparte dalla vita del proprio paese, nell’incomprensione del potere costituito e dei suoi rappresentanti in provincia, si sprigionano le prime scintille del brigantaggio". A favorire questo movimento si aggiungono anche la pusillanimità e l'avidità di guadagno del ricco proprietario di terra, il quale, non sentendosi protetto dai rappresentanti del potere centrale, cede al brigante, lo accoglie nelle proprie terre, lo protegge, lo favorisce, lo sfrutta. Ad accrescere il malcontento che serpeggia tra le masse contadine per la mancata risoluzione della questione demaniale, nel 1860 furono chiamati in servizio tutti i soldati dell'esercito borbonico e questo mentre il prezzo del pane e dell'olio erano in aumento, così come la miseria. A queste cause si aggiungano poi gli oidi ed i rancori personali, la prepotenza della nuova classe dirigente e si comprenderà come era facile divenire ribelle, e per sfuggire ai tutori dell'ordine si cercava riparo nelle boscaglie, ci si riuniva in comitive ed il brigantaggio era in atto! Nel meridione abbiamo avuto due periodi in cui il brigantaggio ha fatto sentire maggiormente il suo peso ed entrambi legati alla caduta borbonica: il primo al principio dell'800 con la conquista napoleonica e quindi col governo di Murat ed il secondo a metà del secolo lo con la conquista dei Savoia e quindi di Garibaldi. Entrambe le conquiste - come sempre avviene - portarono malcontento, rapine, soprusi e questo fomentò il banditismo, che veniva pure stimolato e protetto dalla stessa corte borbonica. Lo scopo che si prefiggevano i Borboni era quello di sabotare il rafforzamento del nuovo governo e di mostrare all'Europa, ancora perplessa ed in parte ostile, che lo stesso, non aveva l'autorità e la forza di imporre il rispetto della legge e di garantire la tutela della vita e degli averi di pacifici cittadini. Naturalmente il brigantaggio ebbe a diffondersi più rapidamente, rinnovandosi di continuo in quelle province dove lo stato economico e la condizione sociale dei contadini era più infelice. Montefalcone per la sua posizione geografica a cavaliere tra la Capitanata ed il Principato Ultra, con un imponente castello che lo dominava, ed essendo la sua Signoria, come del resto la maggior parte del popolo, fedele al Reame Borbonico, non poteva rimanere estraneo a questo fenomeno che, ripetiamo, è da considerarsi non solo come semplice manifestazione di criminalità, ma anche e specialmente come manifestazione politico-sociale. Le prime manifestazioni di brigantaggio le troviamo a Montefalcone già nel 1809; infatti leggiamo nel Cirelli: "Nel 1809 detto castello fu demolito da un'orda di assassini, della quale era antesignano un tale Tommaso Quartucci, naturale di Montefalcone. A ciò fu indotto dal timore di poter essere da quel sito offeso o turbato nei suoi criminosi disegni. Egli nutriva un sentimento di vendetta contro la famiglia de Matteis ed altri suoi compaesani. Simulò amicizia ed affetto alla patria, ai parenti, agli amici. Ebbe quindi libero accesso nel paese, e dopo un banchetto che rassomigliava ad un'orgia, togliendo dal viso la maschera della simulazione, si recò di filato, in unione dei suoi depravati compagni nella casa de Matteis, dove al saccheggio unirono ogni altra maniera di misfatti. Uccisero barbaramente il capo di famiglia a nome D. Vincenzo, e lo gettarono nelle fiamme delle quali era già preda l'intera casa. Portarono seco loro due altri fratelli dello ucciso, uno Minore Conventuale, l'altro Sacerdote secolare, che in compagnia di altri compaesani furono moschettati infamemente in luogo fuori l'abitato, dopo aver posto a sacco le case delle famiglie più agiate del paese. Coloro che furono trucidati, invano chiesero i conforti della religione: efferata barbarie della quale ben doveva essere imminente il castigo del cielo; e infatti dopo pochissimi giorni il Quartucci e suo cognato Salvatore Pauletti, che erano i più formidabili assassini e motori delle operazioni dell'Orda, furono catturati e trascinati appesi alla coda de’ cavalli per le strade del vicino Comune di Baselice, dove trovavasi il Colonnello Galloni, lasciando la vita infame tra le ripercosse dei ciottoli di quelle angustissime vie". Si ignorano le cause di tanto odio da parte dei Quartucci verso la famiglia de Matteis; ed è tradizione che gli eredi di questa, spaventati per tanta tragedia, si siano trasferiti in altro centro della Valfortore. In questo stesso periodo operava nelle nostre zone la terribile banda dei Vardarelli, "la più famosa e la più temuta a quel tempo in tutto il regno - come attesta Mario Monti -. Ne facevano parte tre fratelli: Geremia, Gaetano e Giovanni Vardarelli che avevano passato ai seguaci, temibili scorridori del brigantaggio pugliese e molisano, come Bartolomeo Minotti, Giuseppe Primerano, il loro soprannome, tolto dalla professione della famiglia, da anni dedita a fabbricare selle, cioè Varde in vernacolo. Avevano stabilito il loro quartiere generale nella vallata del Fortore, densa di boscaglie e scavata di dirupi ma, montati sui migliori cavalli, scelti nei pascoli del Tavoliere, si spostavano come lampi nelle province vicine di Campobasso, Benevento, Potenza, Bari e Lecce. Dappertutto erano ospitati dai padroni delle masserie, timorosi delle loro terribili rappresaglie, imponevano taglie, balzelli e fermavano i procaccia che portavano alla capitale i profitti delle tasse, distribuendo spesso migliaia di ducati tra i contadini più miseri che, in cambio, li tenevano informati dei movimenti della truppa e aprivano ai briganti i più sicuri rifugi dei loro villaggi, circondando don Gaetano dell'aureola del vendicatore e del giustiziere". A conferma di quanto asserito dal Monti, circa la zona di operazione della banda Valdarelli, riportiamo integralmente una lettera circolare del Segretario Generale, N. Ucci e pubblicata sul Giornale dell'Intendenza di Capitanata "n^ 29 luglio 1816 p.268-270.

2^ DIVISIONE Foggia, lì 11 luglio 1816

Oggetto: Sulla luminosa bravura degli abitanti di Montefalcone

L'INTENDENTE DI CAPITANATA

Ai Signori Sotto-Intendenti, Sindaci, Eletti, Decurioni, Parochi, Giudici di pace, Comandanti Legionari della Guardia d'interna sicurezza, ed Amministrati tutti della Provincia.

Signori,

La comitiva degli assassini Vardarelli che da più mesi infesta di bel nuovo la vostra Provincia, e le confinanti, la sera del 28 del prossimo scorso giugno osò avvicinarsi al Comune di Montefalcone nel distretto di Bovino dando a divedere di voler penetrare nello abitato. Accortosi di ciò quel Sindaco, il Comandante Civico, e l'altro della Guardia d'interna sicurezza, animati da vero zelo, e risoluti di voler liberare la loro patria dagli orrori ed eccessi che quei masnadieri vi avrebbero portato, riunirono sul momento Legionari, Guardie di sicurezza e tutti i Cittadini bene intenzionati. Armati in buon'ordine colla più singolare intrepidezza, e sangue freddo uscirono coraggiosamente dalle loro mura ad affrontare gli assassini. Questi però benché soliti a mostrarsi altre volte forti, ed audaci ad incontrare, e battersi con chiunque ha cercato attaccarli, spaventati dal voto unanime di quei bravi Cittadini stimarono abbandonare l'impresa, e dirigersi altrove. Siffatta mossa de’ buoni abitanti di Montefalcone sono stati da me ricevuti dall'arrivo in questa Provincia, ed indi dal zelantissimo Maresciallo di Campo Cancellier Commissario del Re colla podestà dell'alter Ego per impegnarsi ad uscire da ogni minima indifferenza nel muoversi contro i nemici dell'ordine. Sono stati i primi a dare il segnale del modo, come la masnada, ed orde di fuorbanditi debbano affrontarsi, se vilmente non salvansi colla fuga. È inutile il dirsi, che percorrendo quella de’ Vardarelli francamente le vaste pianure, e campagne della Puglia, dove passando da un luogo all'altro commette degli orrendi atti di ferocia, ed enormi delitti, senza esser stati finora distrutti, od assicurati alla giustizia, sia difficile cosa il vincerli. Sono voci di simil fatta sparse da vili, da vagabondi dagli oziosi, e dà pastori, che profittando del prodotto de’ di loro ricatti, e si affaticano a scoraggiare i buoni. Essi però quali corrispondenti, e fautori saranno una volta scoverti dalla Polizia, e puniti col massimo rigore delle leggi. Già da ogni dove numerose forze militari di cavalleria, fanteria, legionarj, ed armigeri a cavallo posti a disposizione del prelodato Signor Maresciallo di Campo Camcellier vanno in cerca degli scellerati per incalzargli, ed estinguerli. In momenti così fortunati proprj delle cure paterne del nostro adorato Sovrano, con esempj tanto luminosi dati dai Montefalconesi, ne starete voi nighettosi, permetterete voi, che i Vardarelli continuino a macchiare del sangue de’ vostri concittadini, de’ pacifici abitanti delle campagne il vostro territorio, facciano ulteriori ricatti, ed assassinj e distruggano le vostre proprietà certamente no? Alla semplice loro apparizione continuate a passarne subito l'avviso, ajuti, e soccorso à Capi, à Comandanti della forza pubblica, e delle colonne mobili. Unitevi allora colla rapidità del fulmine ricordatevi, che la forza consiste nell'unione, cercate di affrontare come quei di Montefalcone gli assassini, fategli conoscere di essere voi degni nipoti degli antichi Dauni, e Sipontini. Date prove che non avete che cedere alle popolazioni delle Provincie di Campobasso, e Basilicata, dove i Vardarelli non trovando alcun favore sono stati costantemente battuti, e messi in fuga. Essi non essendo invulnerabili, resteranno atterrati, e distrutti. Supererete così di valore le gesta degli abitanti di Montefalcone, che rapportati da me a S. E. il Segretario di Stato Ministro della Polizia Generale, in riscontro nel ricolmare di lode, che giustamente si hanno meritato que’ zelanti, e coraggiosi Cittadini, mi ha incaricato di manifestarli la sua piena soddisfazione per l'interesse preso contro i nemici della quiete pubblica, e delle vostre sostanze. Intanto, affinché un esempio di sì singolare bravura possa essere di stimolo agli altri Funzionarj locali, e tutt'i miei buoni amministrati, se pur ne hanno bisogno, invito i Signori Sindaci, e Parrochi di dare allo stesso la più estesa pubblicità, acciò ognuno penetrato dalla circostanza, possa nelle occorrenze, gareggiando di zelo, spiegare la maggiore energia contro un pugno di miserabili, che attesi i continui movimenti della forza pubblica non può sfuggire la pena, che gli è dovuta. Felice però, e degno dell'indelebile elogio sarà quel prode mio amministrato, che ben guidando i suoi buoni concittadini riuscisse di attaccare il primo, battere, o sbaragliare i masnadieri suddetti. Egli avrebbe la gloria di aver contribuito a far riacquistare alla Provincia di Capitanata quella calma, che per i medesimi è stata da più tempo, ed è tuttavia agitata. Ho l'onore di salutarvi con distinta stima.

Il Principe di Monteruduni Il Segretario Generale

N. Lucci

Su lo stesso "Giornale dell'Intendenza di Capitanata" n.77 del 3 maggio 1817 p.228 con data: Foggia lì 25 aprile 1817, troviamo un'altra circolare dell'Intendente di Capitanata a firma dello stesso Lucci in cui parla di un altro brigante:

Signori,

Il Signor Direttore del Ministero della Polizia Generale del Regno con suo foglio del dì 12 del corrente mese mi perviene: che S. M. si è degnata con Real decreto del dì 7 di accordare il premio di ducati duecento alla forza pubblica, che esterminò il Fuorbandito Filippo Tutisco, o Tudesco del Comune di Montefalcone. Nel passare tutto ciò alla di loro intelligenza, si compiacciano di dare a questa Circolare la più estesa pubblicità, onde far conoscere ai loro Amministrati, che la prelodata M.S. non lascia senza ricompensa i servizj che si prestano pel bene dell'ordine pubblico, dietro i rapporti che le vengono assegnati dal prelodato Sig. Direttore.

Al secondo periodo appartiene la figura del brignate Michele Caruso. Questo personaggio che ancora oggi vive tra la fantasia e la realtà, nacque il 30 luglio 1837 a Torre Maggiore; ma di questo brigante non si riscontra nessun atto di vero eroismo o di pietà, non rari nel brigantaggio, ma solo atti di brutalità. Quando nel 1860 in Torre Maggiore fu inalberato il vessillo Tricolore, Michele Caruso, che contava ventitré anni, godeva già fama di ladro emerito. Nessuno aveva avuto il coraggio di denunziarlo alla giustizia, essendo a tutti noto che era capace di qualsiasi vendetta contro i delatori. In seguito, però, quando si mise a capo di un gruppo di masnadieri e pensò di intervenire per scuotere il prestigio delle istituzioni, provocare disordini ed infrangere il principio di autorità fu arrestato con la seguente motivazione: " Per associazione in banda armata avente per mira di cangiare e di distruggere la forma del governo, accompagnato da altri reati". Venne rinchiuso nelle carceri di S. Severo da dove evase, e per non ricadere nelle mani della giustizia si dette alla macchia. Dopo l'evasione, Caruso lasciò parlare poco di sé, perché ebbe bisogno di farsi delle amicizie nelle province in cui operava: Foggia, Benevento e Campobasso, per garantire la sua incolumità. Durante questo periodo, che potremmo dirlo di preparazione, ebbe ripetuti abboccamenti con alcuni emissari della casa Borbone, i quali gli proposero, per farsi dei proseliti, il seguente programma che il Caruso accettò senza alcuna modifica:

1) Tutti gli iscritti e quelli che vorranno iscriversi alla compagnia comandata dal Colonnello Caruso, hanno l'obbligo di restaurare sul trono Francesco II e di combattere con tutti i mezzi i liberali, che sono nemici provati della Santa Chiesa e del Santo Papa Pio IX;

2) di amarsi fra loro e di garantire la vita del loro colonnello che Iddio guardi per mille anni;

3) chiunque diserta dalle fila , dopo aver giurato sul Crocifisso, sarà fucilato;

4) chiunque muore in battaglia, la famiglia del defunto avrà un forte vitalizio da Sua Maestà Francesco II;

5) chiunque vorrà in seguito arruolarsi nell'esercito di S. M. occuperà il grado di ufficiale;

6) chiunque, per sue speciali ragioni non vorrà far parte dell'esercito di S. M. avrà un impiego ben remunerato.

firmato: il Colonnello Michele Caruso.

Dopo l'accettazione del programma il Caruso lo fece affiggere come proclama in tutte le province, riuscendo in tal modo a racimolare 82 seguaci suddivisi in otto compagnie. I componenti delle comitive, secondo quanto narra il professore Abele De Blasio nelle vita di Michele Caruso, da cui abbiamo attinto diverse notizie al riguardo, erano per lo più contadini ignoranti, facili ad essere suggestionati e pronti a commettere qualsiasi delitto. Il Caruso non mostrava per le vittime alcuna pietà. La banda Caruso non agiva da sola, ma altre minori e parimenti terribili, erano alla stessa collegate ed operavano ai suoi ordini. La mattina del 12 ottobre, mentre la giovane Filomena Ciccaglione era intenta insieme ad altri contadini a seminare nella campagna in contrada Decorata nel comune di Colle Sannita, dove i briganti il 1 settembre 1863 le avevano ucciso il padre, volle la ventura che si trovasse a passare Caruso, che alla vista della procace e formosa contadinotta, volle con la prepotenza, farla sua e dovette per forza diventare la sua amante. Dopo numerosi conflitti avuti con le forze dell'ordine la banda si era quasi sfasciata, tanto che il 7 dicembre, dopo un ennesimo conflitto a fuoco, essendo rimasto solo, il Caruso riuscì a scappare insieme ad un certo Testa. Aveva deciso di recarsi in Basilicata per ricostituire la banda, ma, prima di accingersi alla nuova impresa volle recarsi in S.Giorgio la Molara, dove si trovava la sua amante. Filomena Ciccaglione, che già conosceva i rovesci subiti dal suo rapinatore, credette giunto il momento della sua liberazione, di vendicare la morte del padre ed il sacrificio della sua innocenza. Attraverso un confidente, tal Luca Pacelli, fece sapere alle autorità in qual pagliaio Caruso le aveva dato appuntamento. A seguito di tale dilazione 14 militi con a capo il sindaco di San Giorgio riuscirono a catturare il bandito, che poi per ordine del Prefetto fu condotto a Benevento insieme al suo compagno Testa, giudicato dal Tribunale militare e condannato a morte. La Ciccaglione fu assolta al processo; molte famiglie le offrirono ospitalità, ma lei preferì tornare a Riccia presso una zia, le fu assegnata una pensione di 40 ducati annui, ma dopo tre anni, il 31 maggio 1866, moralmente e fisicamente distrutta, morì. In questo stesso periodo operava nella nostra zona il nostro concittadino Carlo D'Addezio soprannominato e conosciuto da tutti come Carlo Catone. Era a capo di una banda di uomini fidati e coraggiosi ed agiva in antagonismo con la banda di Caruso; però mentre questi era un puro sanguinario, come abbiamo accennato, Catone agiva più per un certo ideale e se toglieva ai potenti molte volte beneficiava i poveri, tanto che ancora oggi le sue gesta si tramandano e vivono nel ricordo della nostra gente. Tra i tanti episodi ricordiamo quello del 1870 quando Catone insieme alla sua banda, a Montefalcone prese d'assalto la farmacia del Dr. Carmine Goduti, incendiandola. Il Dr. Goduti, però, riuscì a salvarsi e a catturare sette briganti che furono fucilati al "Largo Arena"; Catone riuscì a non essere coinvolto nella cattura. Molti episodi si raccontano ancora dal popolo sul suo conto, uno infatti lo citiamo anche al capitolo de’ "circoli paesani" e ci piace citarne un altro, che copiamo integralmente dal "Valfortore" del 15 novembre 1949 a firma di Totonn (Antonio Zeppa) col titolo "Fatti di altri tempi - Un brigante di cuore", in cui, anche se in forma novellistica, risulta chiaro il coraggio ed il cuore del brigante. "Il giorno delle nozze, atteso con riserbato contento, alfine era giunto. La sposa era circondata dalle amiche che le facevano festa e che si davano un gran da fare in un armonioso ciarlare a renderla più bella. La madre, Grazia Occhiciello, riceveva i primi invitati e disponeva che nulla mancasse. Tutti insieme erano in attesa dei parenti dello sposo che, con questi, doveva arrivare da S. Giorgio, quattro ore di strada a piedi per la montagna. Il tempo in quell'inoltrato autunno era freddo e uggioso; dalla mattina una densa nebbia ovattava le case e rendeva breve la visuale, una rada neve acquosa scendeva lentamente. Gli invitati in piccoli crocchi chiacchieravano e sul tempo e sulle ultime novità. Carlo Catone era tornato con la sua banda da alcuni giorni. Era risaputo però che quando arrivava lui, Caruso e i suoi sgombravano, e quando non c'erano questi una certa distensione avveniva nell'animo di ognuno: la banda di Catone era più umana; anzi alcuni dicevano addirittura che era bene ci fosse lui perché proteggeva il contado dall'invasione degli altri banditi. L'atmosfera però era sempre gravida di panico. Zia Grazia, nell'accorrere qua e là affinché tutto fosse a posto, chiudeva nel cuore una pena grave che non osava comunicare agli altri. Era sì la pena che sente ogni mamma quando una figlia si marita; la figliuola lasciava la casa, andava in un'altra estranea ove avrebbe trovato nuovi usi e nuove abitudini; la sua poi andava in un paese diverso.... C'era in lei pure l'agoscia di quella uggiosa giornata e dell'accidentato viaggio da affrontare a dorso di animali; ma più d'ogni altro era accorata per il contenuto dei discorsi che quei crocchi facevano. Le funzioni furono accelerate; il tempo stringeva e bisognava partire. Baci, auguri, abbracci, sventolio di fazzoletti, saluti e la carovana si snodò avviandosi per la montagna, stringendosi nei mantelli e facendosi riparo dalla fredda brezza. Si aveva premura di mantenersi in gruppo e per la visibilità scarsa e perché ognuno sentiva nell'animo un certo timore; pure bisognava allungare la fila per l'anfrattuoso sentiero. Era finito un tratto in discesa e cominciava un altro in salita: una sferzata alle bestie accompagnata dalla voce e il passo si fa più spedito, quando di dietro ad una meta di paglia alcuni figuri intabarrati, col fucile alla mano escono di botto: intimano l'alt e ammoniscono di obbedire: pena la morte! I pochi fucili della comitiva vengono ritirati. Grida, pianti, preghiere non valgono a commoverli e sotto vigile scorta li avviano per un sentiero traverso. Era inutile insistere con le preghiere e coi compromessi; uno di essi aveva parlato chiaro: era quello l'ordine, poi se la sarebbero sbrigata col capo. In quelle condizioni era forza ubbidire. I parenti ma le dicevano forse quando s'erano partiti, zia Grazia pensava alle conseguenze che ne potevano derivare; la sposa forse sentiva già il viso ispido di un ceffo contro il suo e sbiancava di terrore; lo sposo in cuor suo, imprecava contro la mala sorte che lo faceva vittima del ius primae noctis. Il massiccio caseggiato della Difesa si distingue tra la nebbia, sulle porte altre figure si affacciano sogghignando ed esprimono con parole poco convenevoli il contenuto della buona caccia; sullo spiazzale vengono fatti scendere e fatti entrare nell'ampio androne. Presso il camino, ove scoppietta un'allegra fiamma, è seduto un uomo che volge le spalle quadrate alla porta. È il capo, tutti lo hanno capito perché il capo drappello fa le consegne. Gli altri indirizziti e atterriti son rimasti impalati. Zia Grazia si butta prone sui piedi di quell'uomo e scongiura di lasciarli andare: implora sui suoi morti, sui suoi vivi, sulla sua mamma, sulle sue sorelle. Ma il capo bandito è immobile e tace. Non si è mosso da quando sono entrati: col viso nascosto tra le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra non udire, e la mamma di quella povera fanciulla, che ormai più non regge, piange e si dispera. Alfine si muove, alza il viso massiccio e barbuto, col naso grasso e poroso e chiama a nome Grazia Occhiciello. La fa alzare e la invita a sedere; la rimprovera con voce nasale e grave perché egli, Carlo d'Addezio, suo parente, non è stato invitato alla festa. Anch'egli, diceva, avrebbe voluto parteciparvi, e lei la mamma, forse volutamente lo aveva escluso. Trovò la povera donna parole di scusa, ma in cuor suo e in quello dei parenti era chiaro che Catone aveva voluto imbastire quella scusa per giustificare il suo atto. La sposa gli va vicino per scongiurare anch'ella, ma Carlo si alza le piglia le mani e la conforta. Se la madre ha trascurato lui, egli non lo farà verso gli sposi, che ora gli sono vicini trepidi e ansiosi. "Voglio, dice, mostrarvi quanto io ci tenga al vostro bene e come mi piace dimostrarvi in modo palese la mia benevolenza". Regala ad essi un anello, fa accostare sedie e sgabelli e fa sedere tutti intorno al fuoco. Fa allargare mantelli e scialli che alcuni guardano forse pensando di non riaverli più. Ed ora, dice, farete festa con me, mangeremo insieme e brinderemo alla salute di questi giovani. Nella stanza accanto è imbandita la tavola. I commensali siedono più per ubbidienza che per trasporto e fanno del loro meglio per mostrarsi convinti della benevolenza di quel capo a cui numerosi e forti uomini obbediscono ad un cenno. Dopo pranzo le bestie vengono imbardate e tirate dalla stalla. Tutti ricevono il saluto di Carlo Catone e l'aiuto a salire in sella. Ora andate, dice, e non abbiate timore, la mia scorta vi accompagnerà fino a S. Giorgio. Era questo il salvacondotto che a quei tempi aveva più valore di quello firmato dal Re. La carovana lentamente si snoda e riprende il cammino. Gli uomini sulle porte e per la via accennano un saluto. Non v'è meraviglia in essi perché sanno che il loro capo, audace e fiero nelle più rischiose imprese, ha atti di bontà di cui non bisogna domandare ragione. Carlo Catone guarda il corteo allontanarsi, lo segue con l'occhio finché la nebbia non lo nasconde. Resta ancora fuori taciturno e pensoso, le mani ai fianchi, la testa china. Forse pensa che la compagnia dei cari rasserena l'animo più della sua numerosa e audace scorta, che un'opera di bene rende più di quanto non renda l'impresa meglio riuscita. Poi si scuote: è tardi, la sua vita è quella. Chiama, raduna, insellano, e gli uomini partono per le scorribande usate. Un giorno però l'ordine sarà un altro, ognuno avrà il suo e anche egli Carlo D'Addezio, il terrore e l'idolo si presenterà alla legge, sconterà la pena. Dopo si formerà una famiglia per vivere con essa, a Montefalcone nel luogo dove è nato, gli anni della sua serena vecchiaia". Prima di concludere queste note sul brigantaggio mi piace riportare un altro articolo apparso sul primo numero di "Valfortore" con la stessa firma di Totonn (Prof. Antonio Zeppa) in "Fatti d'altri tempi", col titolo: "La festa dell'ottava di Pasqua a Montefalcone" dal quale si vede come la nostra terra fosse teatro di gesta brigantesche, ma anche la fede che ha sempre animato e sostenuto il nostro popolo e nello stesso tempo troviamo l'origine di questa festa: "Giorni terribili quelli della primavera del 60. Le piogge finivano, i torrenti cadevano in magra, i boschi rinverdivano. Tutto assecondava i disegni dei fuori legge che infestavano la zona che avevano sgombrata per i rigori dell'inverno. Ora tornavano baldanzosi, con maggiore ira. Le voci correvano su quanto accadeva nelle zone circostanti. I segnalatori avevano fatto i nominativi di quelli che avevano aderito al governo di Vittorio, e poi, essi, i fuori legge avevano da vendicare, e a modo loro, i soprusi che i capi del partito avverso avevano perpetrato durante la loro assenza. Il bottino: compenso agognato alle loro gesta, sarebbe stato pingue: nelle case v'era tutta la provvista; le ragazze: il sogno dei giovani banditi, erano sode e attraenti. Alcuni contadini a guardia del bestiame a pascolo sulla montagna arrivano trafelati in paese. Li hanno visti, sono in molti, tutti armati, hanno pure i cavalli. La notizia si spande rapida nelle case portata dai tanti che sfaccendavano sulla piazza, nel giorno di festa, in attesa del pranzo. Idee, proposte, grida, urla, svenimenti, confusione e in mezzo lo onore delle donne. L'altro? Eh, non conta in simili frangenti! Che fanno gli altri? Meglio unirsi? Sparpagliarsi? Chi può dare un consiglio, in tanto clamore, in tanto sconvolgimento? Ecco il Parroco! Egli ha sempre saputo consigliare per il meglio, egli che pure ha ragione di scappare perché la sua condotta non va a genio ai briganti, dirà quello che si dovrà fare. Appoggiato al platano davanti alla chiesa del Carmine, taciturno e pensoso don Federico Corso attende; sa che i suoi filiani fidano in lui. In silenzio lo hanno eletto capo ed eseguiranno i suoi consigli, ubbidiranno alle sue parole come sempre e più di ogni altra volta. Ma che può fare lui? Inerme, senza via di scampo - Se la sua vita fosse sufficiente la darebbe per tutti i suoi figli. Ma questo dono pur tanto grande non può bastare a saziare l'ira folle, il desiderio di vendetta e di saccheggio dei banditi. E allora che può salvare questo popolo tanto buono, ripieno di ogni migliore sentimento, attaccato alla fede per antica tradizione, per immutato ed educato sentimento? Chi può aiutarci quando tutti i mezzi terreni vengono a mancare? Che, forse la Mamma comune, quella che conosce gli affanni e le aspirazioni di questo popolo tema quei pochi ribaldi che hanno dimenticato l'amore fraterno, che hanno volto il viso dallo splendore e dalla luce? Figliuoli! Io inerme come voi, non posso allontanare il pericolo che ci sovrasta. Nessuna via di scampo abbiamo; tutto ciò che è forza terrena è inferiore a quella dei nostri nemici. Ma la speranza c'è, chi ha fede non disperi. La nostra Madre è qui, ed Ella sola può aiutarci, deve venire in nostro aiuto, ci salverà! Ricorriamo a Lei con fede viva come sempre, ardente come non mai ed Ella non permetterà che sia fatto del male ai suoi figli.- La speranza riaccende i cuori, un grido di amore e di conforto invade tutti e la chiesa poc'anzi deserta echeggia di grida, di pianti, di invocazioni. Anche Tu, o Madonna, corri pericolo, Essi, i ribaldi, non Ti risparmieranno. Vieni con noi, ci proteggerai, ci animerai, o con noi la Tua effigie sarà abbattuta. La statua della Madonna del Carmine, dal volto ilare e materno, che ricorda il suo affetto per i figli nel gesto umanamente divino nell'amplesso del Figlio, è portata a spalla. Dove si va? Ecco là, sulla collina illuminata dal sole, al lato del boschetto che sa di mistico e di conforto, dormono i nostri morti. Forse vegliano e trepidano per la mala sorte che avversa i loro cari. Vecchie croci che ricordano i nomi di quelli che hanno sopportato il duro gioco della cristiana pazienza nell'attesa di giorni migliori, ma che hanno visto il tramonto sanguigno senza l'alba radiosa. Croci fissate sulla terra di fresco smossa che ricordano quelli che nell'entusiasmo di santi ideali hanno immolato le giovani vite per un ideale di benessere, equità, pace e lavoro. Anche essi fremono, i morti: bastino i loro sacrifici, i cari si salvino e godano nel lavoro la serena pace della famiglia. E foste voi, o morti, che la Madonna del Carmine avete per patrona? Furono le grida dei bimbi o il pianto dei vecchi che compì il miracolo? Il viso sereno della Vergine che sovrasta quelli lacrimosi, atterriti e pieni di fede della turba, incuorava i trepidi, dava speranza a ognuno. Bastava guardare il suo viso per sentire nell'animo quell'alito di fiduciosa speranza. I briganti che fan man bassa nei pochi casolari ormai deserti, che incustodito, che trasformano in falò i secchi fieni accumulati con fatica davanti ai rustici casolari arrivano sugli ultimi contrafforti; sono in vista del paese. I cavalli scalpitano, sentono anch'essi l'ansia dei cavalieri. Dalle froge dilatate esce l'ansimare dei larghi polmoni, quasi ira repressa. I cavalieri aguzzano lo sguardo, cercano i sentieri, preparano l'attacco. Ma cos'è quel nereggiare vicino al lungo recinto? - Forse truppa in attesa dell'attacco? Forse popolo fiero, sicuro di aver ragione dei ribaldi, perché armato e preparato? Si calcolano le forze, si scrutano gli uomini che lentamente si raggruppano e paventano il pericolo. Prudenza consiglia di rimandare l'attacco, si avrebbe la peggio. È il consiglio di ognuno, è la decisione dei capi. Inutile attendere, potrebbe sorprenderci un'imboscata. Si girano i cavalli, si tirano le briglie, una folla di spauriti arranca, lascia il bottino per essere più libero, si chiamano per farsi coraggio, si dileguano ringraziando il cielo per averla scampata. Sono cambiati i tempi, son finiti i briganti, ma non le pene, gli affanni, i bisogni. Ogni anno, la domenica dopo Pasqua, la Vergine torna allo stesso colle, il popolo Le è intorno e nel ricordo del pericolo passato, implora per i presenti, per i futuri". Concludiamo queste note sul brigantaggio nella nostra terra riportando ancora l'elenco nominativo di alcuni montefalconesi, e non sono tutti, datesi al brigantaggio, come risulta da note somministrate dal Sindaco in esecuzione al disposto della Circolare Prefettizia del 4 ottobre 1862 e riportati dalla Sangiuolo:

D'Addozio Carlo, di Giuseppe

Marco-Antonio Giovansaverio, fu Antonio

Mansueto Nicola, di Leonardo

Pallotti Giuseppe Antonio, di Raffaele

Sacchetti Biase, fu Gaetano

Tudisco Michelangelo, fu Antonio

Vecchiarella Giuseppe, di Antonio

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