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La Valle Caudina in età risorgimentale 1799-1850:

dalla "Repubblica Partenopea" al "Processo di Montesarchio"

da: Valle Caudina Net - Senza Filtro

Approfondimenti di storia locale sviluppati dagli studenti del Liceo Classico di Cervinara (Istituto d'Istruzione Superiore "L. Einaudi") - Anno Scolastico 2000-2001 - coordinati dal dott. Enzo Cioffi del Dipartimento di discipline storiche dell'Università di Napoli "Federico II" nell'ambito del progetto "I Caudini" finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Studenti del Liceo-Ginnasio "L. Einaudi" - Sezione di Cervinara - partecipanti: Abate Serena, Amatiello Mario, Bizzarro Vita, Campese Myriam, Casale Angela, Casale Mario, De Dona Maria, De Toma Anna, Florimo Marianna, Fuccio Antonella, Giordano Livia, Marro Manuela, Merola Elena, Monetti Antonio, Miranda Tamara, Mainolfi Pasquale, Pirozzi Augusta, Perrotta Esterina, Tagliaferri Daniela e Taddeo Saveria.

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INDICE

Introduzione

Il Brigantaggio all'inizio del 1800

Fra Diavolo a Cervinara

Dal 1820 al 1848: la setta della Carboneria in Valle Caudina

Il 1848: lotte contadine ed azione politica

La Guardia Nazionale

La paura del Comunismo anche in Valle Caudina

L'azione liberale

Conclusioni

Bibliografia

 
 
 
 

Introduzione

Alla fine del 1700 il Regno di Napoli era caratterizzato da tensioni e da conflitti sociali. Fino a questo momento il movimento riformatore non era riuscito ad intaccare l'immobilismo delle strutture economiche-sociali che risultavano ormai fuori tempo, così come risultava fuori tempo il sistema feudale. L'insieme delle vicende, dei fatti che si verificarono durante il 1848 nel Mezzogiorno d'Italia, quindi anche in Valle Caudina, si può comprendere soltanto conoscendo gli eventi che negli anni precedenti prepararono il campo alle istanze che poi si sarebbero tradotte in forma violenta nelle rivolte contadine. Anche la Valle Caudina versava in una situazione generale di povertà e di arretratezza: scarsa era la rete stradale, impoverite tutte le province a vantaggio di una Napoli enorme, burocratica e parassitaria, che, per mantenersi, assorbiva tutte le sostanze del Regno. Il panorama sociale andava visto nella stessa ottica: l'elemento più dinamico era costituito da gruppi di "nuova borghesia", che però avevano una fisionomia terriera e, chiusi negli orizzonti locali, cercavano di acquistare le posizioni di potere lasciate vuote dalle vecchie classi dirigenti. La nobiltà era stata completamente assorbita e domata dai vice-re spagnoli, le plebi esasperate irrompevano continuamente in inutili sommosse. Restavano soltanto i gruppi intellettuali e i soldati che erano gli eredi di quella tradizione illuministica e riformatrice che con pensatori come Filangieri e Genovesi si era aperta agli stimoli della scienza europea. Le riforme, che avevano espresso nel pensiero degli intellettuali una volontà di profondo rinnovamento, fallirono o furono compromesse dalla contraddittorietà del governo regio, dall'indebolimento del potere statale e dalla svolta reazionaria che la monarchia si diede negli anni che prepararono il 1799. Nonostante questo fallimento alcune èlites di intellettuali continuarono a perseguire il sogno del cambiamento, in una serie di contraddizioni e tentativi tra cui è anche possibile individuare linee politiche e culturali chiare che portarono da un lato alla rivoluzione del 1799 e, quindi, al tentativo della costituzione della "Repubblica Partenopea", dall'altro alla costituzione di un movimento giacobino che si ispirava a quello europeo. Tutti comunque, cioè sia coloro che volevano soluzioni progredite e democratiche, sia coloro che volevano mantenere l'assetto tradizionale si trovarono d'accordo sulla necessità di avviare un'opera di rinnovamento, che, mantenendo il legame con il passato, affermasse tuttavia il progresso nelle forme della continuità e dello sviluppo. Questa linea era caratterizzata soprattutto da Vincenzo Cuoco e Mario Pagano, mentre pensatori come Vincenzo Russo appartenevano alla via radicale, cioè volevano realizzare il progresso mediante la negazione di tutto il passato. La rivoluzione del 1799 ebbe una grande importanza non tanto per i provvedimenti eversivi del governo repubblicano, quanto per lo sconvolgimento che provocarono nel paese la propaganda rivoluzionaria, la lotta delle fazioni, il mutamento del regime, l'azione delle masse sanfediste. Il 1799 fu la prima grande esperienza politica della borghesia meridionale, non solo degli intellettuali giacobini ma anche dei "galantuomini" che ne furono trascinati, sia pure malvolentieri, ad uscire dall'indifferenza e dall'inerzia politica su cui avevano fondato la loro fortuna economica e sociale. Oltre a ciò agiva anche il risentimento provocato dalle persecuzioni dalle quali erano stati colpiti quei "galantuomini", in gran parte di giovane età, che avevano partecipato all'attività cospirativa precedente il 1799 e le cui conseguenze erano ricadute in molti casi sui loro familiari, nonostante la loro sicura lealtà monarchica.

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Il Brigantaggio all'inizio del 1800

Il fenomeno del Banditismo sociale affonda ataviche radici nel tempo e nei secoli XVII e XVIII trovò massima diffusione nelle zone del Mezzogiorno d'Italia. Le cause che ne determinarono la nascita e la diffusione sono da ricercare nel tessuto economico, sociale e culturale tenendo presente anche la struttura geografica dei luoghi. Tale fenomeno (come ci ha illustrato più volte il Dott. Cioffi, facendo riferimento al libro di Eric J. Hobsbawn "I banditi") si sviluppò soprattutto nelle zone rurali dove le popolazioni stentavano ad unirsi all'ordinamento socio-amministrativo del viceregno, dove l'economia, prevalentemente agricola e pastorizia, non era in grado di dare lavoro a tutti gli uomini validi che risultavano così in eccedenza. Fu naturale, dunque che questi uomini tendessero a crearsi i propri sbocchi alternativi come l'emigrazione stagionale, l'arruolamento dei soldati, le scorrerie ed infine il brigantaggio. Nell'universo sociale pre-industriale il bandito era una figura particolarmente frequente. Il nome che meglio lo definisce è quello di fuorilegge con cui bisogna intendere un movimento volontario di porsi al di fuori della legge e al di fuori di un ordine istituzionale considerato come oppressore. Già durante il 1500 le popolazioni di Principato Ultra, quindi anche la comunità caudina, erano (insieme alle calabresi) quelle che più stentavano ad inserirsi nell'ordinamento socio-amministrativo del viceregno. Esse ne facevano parte senza partecipare alla vita del resto del paese: la loro indomita fierezza le portava ad emarginarsi con frequenza dalla collettività ed a vivere nelle selve, in lotta con il mondo circostante da cui si sentivano respinte. Il brigantaggio, va poi sottolineato, preesisteva alla stessa dinastia borbonica ed al viceregno spagnolo (dalla lettura del libro di F. Barra, Storia del brigantaggio politico nell'Irpinia e nel Sannio durante il Decennio Napoleonico. 1806-1815), risalendo, nella sua forma endemica, alla fine del XIII secolo, quando le campagne meridionali furono sconvolte dalle selvagge lotte politiche e sociali che seguirono la conquista angioina. Infatti, (come abbiamo potuto constatare attraverso la consultazione del materiale messoci a disposizione dai funzionari dell'Archivio di Stato di Benevento - rivista "Samnium" del 1975, pag. 83), già "nel 1295 si ordinarono misure repressive contro i briganti scorrazzanti tra Cervinara, S. Martino, Montesarchio, Airola, Arpaia e Forchia, cioè per tutta la Valle Caudina". Il distacco sociale e culturale, comunque, si realizzò intorno al 1400, quando le masse contadine si rivoltarono contro i soprusi perpetuati da parte del padrone di turno; tali movimenti di rivolta erano organizzati secondo codici guerreschi che si manifestavano attraverso ruberie di ogni sorta, rapimenti o richieste di riscatto. A favorire ulteriormente la diffusione del banditismo sociale fu, come già detto, la geografia dei luoghi. A questo proposito va sottolineato come i briganti prosperassero nelle zone isolate e inaccessibili come le montagne, le pianure prive di vie di comunicazione, le foreste e fossero attirati dalle strade commerciali e dalle arterie dove in epoca pre-industriale i viaggi erano lenti e scomodi. Tale era la situazione alla fine del secolo XVIII in Valle Caudina come in tutto il Mezzogiorno. Il 1799 significò anche per la comunità caudina la fine di un'epoca e l'inizio di una nuova e più dinamica fase storica. L'Ancien Règime, prima di essere definitivamente scardinato dalle riforme del "decennio napoleonico" fu in realtà scosso dai fatti del '99. La conseguenza più chiara fu la sconfitta umiliante della nobiltà locale. Quindi, paradossalmente, la vera rivoluzione fu fatta non dai giacobini, ma dalle masse rurali che in una situazione generale di confusione e di anarchia abbatterono tutte le barriere sociali e le tradizionali gerarchie. Ma, nonostante la vittoria ottenuta dallo scontro con i francesi ed i giacobini meridionali, le plebi videro deluse le proprie aspettative sociali. Di qui, consapevole della propria forza, il popolo rurale iniziò a manifestare il proprio malcontento con azioni feroci e violente soprattutto contro esponenti della borghesia terriera, visti come traditori del Re e della Fede, aggregandosi alle forze filoborboniche. Così nel 1804 (leggiamo sempre nel già citato libro di F. Barra) grosse comitive di briganti si formarono anche in Valle Caudina, in particolare a Cervinara e a San Martino Valle Caudina. Tutto il Principato Ultra fu in questo periodo caratterizzato da violenze, soprusi, estorsioni, odii tra famiglia e famiglia, lotte di classe, da un brigantaggio cronico. Quando, infatti, il 7 marzo 1806 giunse in Irpinia il primo "Preside" del regime napoleonico, il colonnello Mazas, i problemi più gravi erano quelli dell'ordine pubblico e del brigantaggio. Le bande erano formate da criminali abituali, da evasi dalle galere, da contadini disperati ed affamati che non trovavano di meglio che darsi alla macchia, soprattutto dopo il gravoso servizio di leva obbligatorio imposto durante il regno di Gioacchino Murat. Le già precarie condizioni economiche e sociali delle campagne meridionali vennero ulteriormente aggravate dal regime napoleonico, che per tante cose apparve come il regime dei proprietari. Requisizioni, perquisizioni, violenze, restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori e le altre eccezionali misure di sicurezza si accentuarono sempre più fino a culminare col "proclama" del Generale Manhès del 1811; proclama che suscitò polemiche nello stesso governo e provocò anche in Irpinia tantissimi orrori. Già nell'estate del 1806, infatti, si verificarono scontri aperti anche in Valle Caudina tra le masse rurali ed i proprietari. Pure da noi era tutto il mondo contadino che si scagliava contro i suoi antagonisti di classe e contro il nuovo regime con azioni che i francesi chiamarono "brigantaggio", accomunando così in un unico quadro legittimisti, sanfedisti, insorgenti, malviventi, disertori e banditi.

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Fra Diavolo a Cervinara

È in questo clima, dopo la caduta di Gaeta, che la sera del 19 ottobre 1806 uno dei più famosi capimassa del 1799, il colonnello Michele Pezza, meglio conosciuto come "Fra Diavolo", sostò insieme ai resti della sua banda nella frazione "Valle" di Cervinara. Braccati dal colonnello francese Sigismondo Hugo (padre del famoso scrittore Victor) Fra Diavolo e gli altri briganti superstiti (ancora dal libro di F. Barra) attraversarono combattendo Terra di Lavoro, il Molise, il Beneventano, l'Irpinia fino a raggiungere la Valle Caudina. Qui, come abbiamo detto in una frazione di Cervinara, con un inganno riuscì a disperdere gli inseguitori raggiungendo i monti del Partenio. Il passaggio del noto brigante nella Valle Caudina attirò l'attenzione delle autorità sulla situazione politica della nostra zona, particolarmente contraria ad accettare il nuovo ordine di cose. Capo riconosciuto del partito borbonico di Cervinara, fulcro dell'opposizione filo-borbonico caudina, era Scipione D'Orsi, un nobile locale presso la cui abitazione spesso si riunivano altri personaggi avversi al regime francese. Il D'Orsi in più di un'occasione aveva manifestato contro il nuovo regime, fino a strappare e mettersi pubblicamente sotto i piedi la coccarda francese. Altro luogo di opposizione e cospirazione era il convento carmelitano, sempre di Cervinara, dove alcuni Padri esplicavano un'intensa attività sediziosa. Ma questo fermento e questa attività antifrancese, largamente diffusi nei vari strati sociali di Cervinara, ben presto provocò la reazione delle autorità provinciali, che alla fine del 1806 fu fulminea e molto severa. Furono arrestate 39 persone sospette e condotte nelle carceri di Montefusco, Montesarchio e della stessa Cervinara, mentre parecchie altre riuscirono a sfuggire e a mettersi in salvo. Gli arrestati (sempre dal libro di Barra "Storia del brigantaggio politico nell'Irpinia e nel Sannio durante il Decennio napoleonico. 1806-1815"), furono: Scipione D'Orsi, Domenico Pallotta, Biagio Cioffi, Paolo Magnotta, Domenico Paradiso, Pasquale Martino, Arcangelo Moscatello, Gaetano Maiorano, Carmine Pallotta, Rocco Pisaniello, Sabino Cioffi, Francesco Cioffi, Vincenzo D'Orsi, Francesco Miele, Nicola, Giuseppe e Antonio Cioffi (tutti e tre compagni di Fra Diavolo), Padre Carmelo Lisanti, Padre Giuseppe Minicozzi, Padre Angelo Calandra, Padre Giovanni Guarino, Padre Carmelo Vitoli, Domenico e Antonio Costa. Erano inoltre detenuti con il "mandato" presso la Corte locale, perché si erano spontaneamente presentati: Andrea Quaglia, Lelio, Giuseppe e Andrea Finelli, il sacerdote Diodato Ricci, il sacerdote Michele Mazzarelli, Anna Simone-Miele, Pomponio Lapati, Vincenzo Cappabianca, Gennaro d'Onofrio e Raffaele Gioia. I fatti di Cervinara del 1806 significarono soprattutto due cose: la fedeltà al vecchio regime da parte della borghesia agraria di centri rurali come il nostro e la ferma volontà dell'autorità napoletana a colpire con fermezza ogni forma di opposizione politica al regime francese, soprattutto quando essa partiva da quei nuclei della borghesia rimasti legati alla dinastia borbonica, mentre quasi dovunque la borghesia meridionale costituiva la base e la forza più sicura del nuovo regime.

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Dal 1820 al 1848: la setta della Carboneria in Valle Caudina

I moti del 1820, in Valle Caudina come in tutto il Mezzogiorno furono caratterizzati dalla direzione della borghesia agraria. La formazione e lo sviluppo dei cosiddetti "galantuomini" fu accelerata dalla eversione della feudalità. Con la legge del 2 agosto 1806, infatti, si abolirono i proventi, i diritti, gli oneri e i privilegi feudali di cui godevano i baroni. Ma la quotizzazione dei demani feudali che avrebbe dovuto promuovere la nascita di una piccola proprietà tra i contadini, si tradusse quasi sempre in una beffa perché si trattava nella maggior parte dei casi di terreni incoltivabili e anche perché i migliori demani venivano usurpati dai grandi proprietari. Intanto i proprietari terrieri avevano raggiunto una omogeneizzazione sociale e potevano avanzare forti rivendicazioni come la riduzione della fondiaria e la partecipazione diretta al potere politico. Da questo punto di vista, quindi, la rivoluzione del 1820 significa per la Valle Caudina e tutto il Mezzogiorno il momento in cui la borghesia agraria prese coscienza del suo ruolo nell'economia e nella società civile, e cercò di affermarlo in forme politiche con la libera elezione di un Parlamento e la richiesta della Costituzione. Ma per capire meglio il fermento di questi tempi e quindi il movimento politico che scosse il Mezzogiorno nei primi decenni del 1800 bisogna ricordare la Carboneria (come abbiamo potuto rilevare dalla consultazione di alcune pagine dei libri di Vincenzo Cannaviello "Settari Irpini del circondario di Montesarchio prima e dopo la Rivoluzione del 1820" e "Gli Irpini nella rivoluzione del 1820 e nella reazione"), perché in essa si accentrarono e da essa derivarono quasi tutti gli avvenimenti. La Carboneria fu una propaggine di una più antica società politica: la Massoneria, che asservita a Napoleone ed ai Napoleonici diventò per loro un efficace strumento di governo. La Carboneria napoletana mirava all'educazione del ceto più umile della società per informarlo del regime costituzionale attraverso rituali e simboli, e "Vendite" o "Famiglie" si chiamavano le singole società settarie, che si distinguevano in pagane o borghesi e militari; "Buoni Cugini" o "Figli di San Teobaldo" venivano denominati gli affiliati e "Gran Maestro" chi li dirigeva. Nel 1820 in Irpinia si contavano 192 "Vendite", che da un lato professavano devozione a Gesù Cristo (il Gran Maestro dell'Universo, proclamatore delle più elevate e pure idealità sociali) e dall'altro miravano a diffondere i principi di libertà, di eguaglianza, di odio alle tirannie: preparavano cioè le coscienze ad un cambiamento politico. Nella Valle Caudina le più note "Vendite" furono quelle di Cervinara (Il trionfo della Costanza), di Montesarchio (Deucalione-Erennio-San Teobaldo), di Bonea (Dea buona Taburno), di Rotondi (I valorosi Irpini), di Roccabascerana (I seguaci di Iacopo Ortis) e di San Martino Valle Caudina (I figli di Bruto). La maggior parte dei personaggi impegnati in questo periodo nell'azione della Carboneria caudina li ritroveremo attivi nei moti del 1848.

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Il 1848: lotte contadine ed azione politica

"Sopra giacigli di paglia, senza coperture, madre, figliuoli,
padre, tutti agglomerati, tutti ristretti pel freddo,
i vincoli della natura negligono, il pudore non curano,
si abbandonano a istinti pervertiti e,
prima di imparare a pregare, imparano a disperare...
Non temono che i tirannelli, i quali succhiano loro fin
il miserrimo frutto della mercede che all'operaio si deve".

(F. Petruccelli, in "Mondo Vecchio e Mondo Nuovo", n. 41, Napoli, 13 aprile 1848)

Agli inizi del 1840 nella Valle Caudina, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, le condizioni dei contadini in preda alla povertà ed alla fame erano molto tristi. La miseria, provocata anche dalle carestie, e il susseguirsi delle vicende politiche del 1848 crearono nel Regno una forte tensione sociale che favorì anche nei centri caudini lo sviluppo delle rivolte contadine. Il 10 febbraio 1848 fu promulgata la Costituzione che entrò in vigore il giorno successivo. La Costituzione, che fu redatta dal pugliese Francesco Bozzelli, prevedeva un sistema bicamerale, la formazione della "Guardia Nazionale" e la libertà di stampa. Lo schieramento liberale, la borghesia, che aveva chiesto ed ottenuto la Costituzione, sebbene articolato in due correnti (moderati e radicali), durante i fatti del 1848 fece causa comune nei confronti dei contadini nell'ostacolare le rivendicazioni dei terreni. Dopo la Costituzione, infatti, il problema più grosso che i moderati ed i radicali dovettero affrontare fu quello dell'atteggiamento da adottare di fronte alle sommosse contadine, particolarmente dirette contro la proprietà privata. Nella sostanza l'atteggiamento dei moderati e dei radicali non fu diverso in quanto le due correnti si mostrarono entrambe "anticontadine" perché ferme e decise a difendere i propri interessi. In tutta la Valle Caudina gli inizi del 1848 (leggiamo nel saggio di L. Valenzi "Lotte contadine in Terra di Lavoro e nei due principati. 1848-1850") si registrarono moltissimi casi di "reato forestale", ossia violazione del demanio e della proprietà privata da parte dei contadini che soddisfacevano così bisogni elementari di sussistenza come quelli della legna da ardere. Per questi reati la legge forestale del 1826 puniva "chiunque avrebbe commesso guasto nei boschi con una pena eguale al danno e colla prigione". L'entusiasmo per la Costituzione promulgata fece sì che in tutte le piazze e nei ritrovi pubblici della Valle Caudina si tenessero discorsi di libertà, di uguaglianza e di ordine economico e sociale. I bracciali (termine rinvenuto anche dallo studio degli atti matrimoniali degli anni 1811-1821-1831 presso l'Archivio del Comune di Cervinara. Gli stessi bracciali costituirono la stragrande maggioranza della popolazione come risulta dai matrimoni registrati negli anni presi in esame), come i salariati e i contadini poveri si illusero che il nuovo regime potesse tutelare anche i loro diritti ed assicurare loro migliori condizioni di vita. Affamati di terra, guidati da elementi democratici, convinti di rivendicare ciò che loro appartiene, contadini e bracciali, piccoli proprietari, coltivatori diretti e, con loro, civili e "galantuomini" non possidenti della Valle Caudina, invasero le terre demaniali, occuparono le terre usurpate, invasero i boschi dei Comuni e degli ex feudatari nella illusione di poter finalmente avere la terra e vincere la miseria che li attanagliava da sempre. Questi momenti ed altri particolari sono descritti chiaramente nel saggio di V. Cioffi: "La società della Valle Caudina e il brigantaggio. 1848-1865" e nel saggio citato di L. Valenzi. Durante i momenti di tensione e di lotta vennero alla luce conflitti di diversa natura che andavano dal contrasto con le famiglie dei ricchi galantuomini, che da sempre avevano assunto un atteggiamento oppressivo ed umiliante nei confronti del mondo contadino e di tutti i subalterni, alla strumentalizzazione da parte di personaggi socialmente identificabili che utilizzavano le masse contadine per ottenere le libertà civili. Così nella notte tra il 18 e il 19 febbraio 1848 a S. Martino Valle Caudina, vennero occupate e seminate a grano decine di moggia di bosco comunale. All'invasione dei terreni presero parte cittadini di San Giovanni, Squillani, Pannarano, ma soprattutto di Cervinara. Molto forte fu la presenza di donne (fino al 40 per cento) e di ragazzi. Non fu soltanto la insoluta questione demaniale a tenere in uno stato di continua agitazione i contadini della Valle Caudina come dell'intero Mezzogiorno, ma soprattutto la spaventosa miseria in cui essi erano costretti a vivere. Ridotti al rango di plebe e soggetti alle angherie dei "signorotti" brutali, ignoranti, ambiziosi, vani, avidi, i contadini delle campagne meridionali, ancora a metà dell'Ottocento, vivono allo stato di bestie. E gravi ripercussioni aveva la miseria di questa gente sui loro sentimenti e sulla loro morale. L'euforia dei tempi nuovi e gli avvenimenti che si svolsero a Napoli nel febbraio del 1848 entusiasmarono molti giovani caudini che vivevano a Napoli per ragioni di studio o di lavoro. Questi giovani quando rientravano nei loro paesi di origine avvicinavano i maggiori esponenti democratici animati dal proposito di usufruire delle libertà che la Costituzione aveva concesso. A Moiano (leggiamo sempre nel saggio di V. Cioffi) venne arrestato il prete liberale Felice Barilla (membro del Gran Consiglio del Circolo Repubblicano di Montesarchio) per la sua azione "rivoluzionaria" e perché fu sequestrato un suo scritto dove si leggeva: "Bisogna far gustare al popolo, e primamente al popolo basso, il bene materiale della libertà...". Lo stesso Felice Barilla fece un discorso sulla Costituzione concessa, paragonandola alla S.S. Trinità "che uno in tre esistono e governano il creato, perché con la Costituzione governano il Re, il Popolo e le Camere". Bisogna considerare che già agli inizi del 1848, infatti, esisteva in Valle Caudina un forte partito repubblicano, di cui facevano parte, oltre i suddetti personaggi, i vari Paolo Palomba, Nicola Cassella, Gennaro Zincone, Antonio Barretti e Pasquale D'Amelio di Montesarchio, i fratelli Verna, i Del Balzo e Giuseppe Sbordone di Cervinara, i fratelli Imbriani, Luca e Francesco Cicciotti, Ferdinando Gabriele, Antonio Rossi e Pietro Izzo di Roccabascerana, Gaetano Pacca di Pannarano, Francesco Parente di Ceppaloni, Pasquale Donisi di Arpaise, l'arciprete Giovanni Soldi, il barone Francesco Del Balzo di S. Martino Valle Caudina, Giosuè e Gioacchino Francesca di Apollosa, Simone e Nicola Supino di Airola. In particolare il giudice Giuseppe Maria De Ferraris (già noto come agitatore politico per i fatti del 1821), fu annotato nei registri della Gran Corte Criminale di Principato Ultra per il suo dichiarato spirito sovversivo; nel 1848 fu protagonista di episodi simbolici e provocatori nella piazza principale di Montesarchio dove, con a seguito circa 400 persone, bruciò pubblicamente le effigi dei sovrani. Nello stesso periodo i repubblicani Serafino Abate di S. Martino Valle Caudina, Francesco Bove di Paolisi ed altri percorsero in carrozza tutti i centri caudini sventolando una bandiera tricolore e gridando: "Viva Pio IX, Viva la libertà". Si trattava di azioni che non nascevano dal nulla. L'intera Valle Caudina fu investita da episodi di ribellione contro il potere costituito che travalicarono la questione delle terre e si intrecciarono con quella più spiccatamente politica. Questo perché anche da noi non mancarono elementi liberali che compresero i bisogni e le aspirazioni della povera gente abbandonata allo sfruttamento della ricca borghesia terriera tenacemente unita nella difesa dei propri interessi. Infatti, alcuni liberali non appartenenti alla ricca borghesia terriera intuirono quale apporto avrebbe potuto dare alla causa liberale la forza di questo ceto e, nell'azione cospiratrice, furono sempre vicino ai contadini nella speranza di poterli avere con loro nella lotta decisiva per la conquista delle libertà democratiche.

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La Guardia Nazionale

In tutta la Valle Caudina, inoltre, si evidenziò una notevole partecipazione alle agitazioni non solo di piccoli borghesi e rappresentanti del Clero come già abbiamo scritto, ma anche della Guardia Nazionale. Anche da noi, in forza dei principi posti dalla Costituzione, avvenne l'istituzione della Guardia Nazionale (milizia civica di composizione borghese, destinata a sostituire la Guardia Urbana a massiccia presenza contadina), con la funzione primaria di reprimere ogni tentativo di rivolta al nuovo ordine costituito. È difficile definire con assoluta chiarezza il reclutamento delle componenti della Guardia Nazionale. La legge del 13 marzo 1848 (ancora dal saggio di L. Valenzi) fissava limiti, sia pure minimi, di censo, e recitava testualmente: "Essa sarà composta di tutti i proprietari, professori, impiegati, capi d'arte e di bottega, agricoltori, ed in generale tutti coloro che avendo i mezzi di vestirsi a proprie spese, presentino per la loro probità sicura guarentigia alla società". La circolare del 22 aprile 1848 del Ministro Conforti riconosceva, anche se in parte, i torti subiti dai contadini e invitava le autorità a quotizzare i demani. La circolare fu fraintesa in quanto sembrava legittimare, in qualche modo, le occupazioni delle terre e quando una successiva circolare fu emanata per rettificare la prima, scoppiarono i tumulti. Ovunque scoppiarono sommosse, non sedate dalla Guardia Nazionale che si trovò, spesso, a fare causa comune con i rivoltosi. Quando, poi, si minacciò lo scioglimento del "Corpo", la popolazione insorse in sua difesa. Tutto il comprensorio caudino fu caratterizzato dalla partecipazione della Guardia Nazionale alle insurrezioni di questo periodo. Infatti, l'azione di Nicola Palomba, capitano della Guardia Nazionale di Montesarchio, trovò consenso unanime da parte dei responsabili degli altri centri caudini quando il 14 maggio 1848 li radunò nella contrada "Campizze" per organizzare la marcia su Napoli per la difesa delle libertà civili. Personaggio di spicco del movimento liberale caudino e avvocato molto conosciuto, Nicola Palomba il 6 aprile di quell'anno fece affiggere a Montesarchio un manifesto in cui invitava i cittadini a ribellarsi e a battersi per una Carta Costituzionale migliore. Dopo essere stato tre anni in carcere per la mancata spedizione su Napoli del 15 maggio, fu accusato di cospirazione per aver fatto circolare in Valle Caudina dei fogli stampati dove si criticava il malgoverno borbonico; dopo otto mesi di reclusione fu di nuovo scarcerato, ma non cessò di subire la persecuzione della polizia e nel 1856 venne ancora arrestato perché accusato di aver tenuto comizi e corrisposto con Carlo Poerio. L'azione insurrezionale di questi primi mesi del 1848 era stata organizzata da Nicola Nisco, pensatore "neoguelfo" di S. Giorgio del Sannio. La presenza di Nisco veniva continuamente segnalata a Cervinara, dove insieme ai fratelli Verna ed altri liberali caudini venne pensata la marcia su Napoli per instaurarvi la repubblica. Con l'arresto di Nicola Nisco, avvenuto a Napoli il 13 novembre, e quella degli altri personaggi del movimento liberale locale, svanirono quasi tutte le speranze del liberalismo caudino. Ormai anche nella Valle Caudina l'assolutismo avanzava sempre più forte. Nei vari paesi del comprensorio dimostrazioni anticostituzionali venivano inscenate dalla polizia borbonica, promesse di fedeltà al regime assoluto venivano fatte da alti funzionari, mentre la censura sulla stampa e le prime avvisaglie di processi politici già iniziavano la loro opera di compressione e di violenza.

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La paura del Comunismo anche in Valle Caudina

Prima del 1848 il nemico dell'ordine sociale costituito era rappresentato dal cosiddetto movimento giacobino. Col sopraggiungere degli anni '40 la paura rappresentata dal termine "giacobino" venne sostituita dal termine "comunista". Si venne a delineare una nuova realtà sociale e politica europea, che corrispose alle prime iniziative della classe operaia. Nell'Europa del 1840, infatti, il comunismo e il socialismo, erano già una corrente politica ben differenziata, all'interno del generale movimento rivoluzionario, dalle correnti democratiche e liberali. In Italia comunque non si poteva parlare ancora di un comunismo o un socialismo come espressione politica del movimento operaio; esisteva tuttavia in Europa e può dirsi che di riflesso esistesse anche nel nostro Paese, perché il movimento più colto e meno provinciale del liberalismo italiano partecipava al generale movimento intellettuale europeo. È in questo quadro che il malcontento contadino nel Mezzogiorno e in Valle Caudina assunse connotazioni più marcatamente rivendicative. A Cervinara il 10 settembre 1848 (ancora dal saggio di V. Cioffi) un nuovo tentativo di appropriazione delle terre fu fomentato da elementi democratici al grido di "Viva il Comunismo, ci dobbiamo dividere le robe altrui, vogliamo dividerci i terreni"; i protagonisti furono i fratelli Verna, Pasquale Del Balzo, Giovanni Gallo, Alessio Vaccariello, Crescenzo Taddeo, Giuseppe Perone, Nicola Capparelli e Francesco De Marco. In queste azioni ed in queste parole andava sintetizzata, anche in Valle Caudina, l'utilizzazione a favore della reazione della paura del comunismo, con una confusione artificiosamente creata a scopo demagogico, un simbolo negativo elevato per la raccolta di tutte le forze contrarie alla rivoluzione. Perché anche nei centri caudini la funzione della paura anticomunista era quella di distaccare la borghesia innovatrice dalle masse popolari e perciò essa era diretta verso la parte più efficiente della classe dirigente, verso i moderati: a loro bisognava far paura e convincerli che, mettendo in moto la macchina della rivoluzione altro non facevano che segnare la loro fine con le loro mani. Questa era la linea chiaramente seguita dalla propaganda clerico-reazionaria.

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L'azione liberale

Dopo il 1848 le agitazioni continuarono a sussistere in tutto il Regno, anche se in maniera molto sfumata rispetto agli agli anni precedenti. Stroncata in parte l'organizzazione dei liberali della setta "Unità Italiana", fu necessario intensificare l'azione organizzativa ed in Valle Caudina vennero costituiti due circoli a Montesarchio (queste notizie le apprendiamo sempre dal saggio di V. Cioffi) che continuò così a essere il centro dell'azione liberale caudina. I due circoli di Montesarchio erano presieduti rispettivamente uno da Giuseppe Maria De Ferraris e l'altro da Nicola Palomba e Giorgio Hetzel. L'attività settaria si diffuse rapidamente in tutti i paesi della Valle: cinquanta elementi furono affiliati da Simone Damiano a S. Giovanni di Ceppaloni, Giovanni Corcione ne reclutò quaranta a S. Martino Valle Caudina, Giovanni Pacca trenta a Pannarano. Ma i sogni di riscatto durarono ben poco: qualche mese dopo furono arrestati e imprigionati a Napoli il vecchio Giuseppe Maria De Ferraris, Nicola Palomba e Giorgio Hetzel contro i quali si andò istruendo il cosiddetto "Processo di Montesarchio" che coinvolse altri imputati della Valle Caudina. Possiamo, in definitiva, affermare che gli avvenimenti del 1848-49 palesarono anche nei centri caudini il giustapporsi di una insurrezione liberale, volta alla conquista della Costituzione e dei diritti civili e politici, e di sommosse nelle campagne miranti ad assicurare alle masse rurali una più equa distribuzione delle terre e dei fondamentali mezzi di sostentamento. L'affermazione, anche se temporanea, della reazione monarchica impedì il combinarsi dialettico di questi due momenti. Il processo contro gli esponenti liberali della Valle Caudina per i fatti del '48 si concluse nel 1851. Furono condannati oltre al sacerdote di Moiano Felice Barilla, Nicola Nisco, Carlo Poerio ben 69 cittadini caudini tra i quali vanno ricordati: Francesco ed Achille De Nicolais, Simone e Ferdinando Finelli, Onofrio Verna e Francesco Piccolo di Cervinara; Giovanni Russo, Angelo Canfora e Cosimo Viscione di Pannarano; Giovanni Coscione di Montesarchio e Saverio Vitagliano di S. Martino Valle Caudina. Nonostante le condanne del "Processo di Montesarchio" negli anni successivi le speranze caudine di rinnovamento politico non morirono del tutto. L'azione dei liberali della Valle rimaneva ancora attiva al punto che l'Intendente di Avellino dovette intensificare l'azione repressiva nei centri più importanti come Cervinara, Montesarchio e S. Martino Valle Caudina. Nel 1857 questa fierezza e spirito indomito dei liberali caudini portò alla decisione da parte del "Comitato Napoletano" ad affidare l'organizzazione dei centri e comitati provinciali anche ad alcuni membri attivi ed esperti del nostro comprensorio, al fine di promuovere una sempre più vasta opera di penetrazione politica e di propaganda. A Montesarchio, infatti, venne ordito un complotto per far evadere i condannati politici reclusi nel castello locale; vi parteciparono Vincenzo D'Ambrosio, Carlo De Simone, Stanislao Pignataro e il sindaco di Paolisi Marco Bifani. Un'altra cospirazione fu denunciata l'anno successivo, organizzata questa volta dall'ex Intendente Paolo Emilio Imbriani, dal barone Francesco Del Balzo e dall'arciprete Serafino Soldi di S. Martino Valle Caudina. Al termine dell'Impresa dei Mille, l'avvenuta costituzione di un potere unitario, ma lontano tanto geograficamente quanto idealmente dalla problematica rurale, acuì maggiormente i termini conflittuali in atto nella società meridionale. Alla perdurante ed inevasa domanda di soddisfazione dei bisogni fondamentali che la classe contadina elevava, seguì una risposta più violenta e drammatica delle stesse agitazioni contadine... e fu una novella recrudescenza del brigantaggio.

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Conclusioni

Da questa pur fugace disamina di vicende storico-politiche, ci sembra emerga come costante un indiscutibile e vigoroso connotato di fierezza e di autonomia che distingue la comunità della Valle Caudina e che si ripropone, di età in età, alla nostra riflessione, dalle più antiche vicende di cui la storiografia classica ci ha lasciato memoria (e il pensiero va, inevitabilmente, ai Sanniti di Tito Livio) fino alla stagione risorgimentale. Sentirsi anche oggi partecipi di questo comune sentire, è come percepire il palpito vivente della storia.

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Bibliografia

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