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BENEVENTO E LA SUA PROVINCIA

Benevento: un palinsesto di memorie

di Gianni Verginio da: "Benevento fascino di un'antica città" V. Gramignazzi Serrone - Electa Napoli, 1990

COLONIA LATINA: STORIA DI FEDELTA'

CAPITALE DELLA LONGOBARDIA MINORE: LINEE DI AUTONOMIA

DOMINIO PAPALE: "LIBERTAS CIVIUM" E "SUMMA POTESTAS"

FEUDO IMPERIALE: SOVRANITA' DEL DIRITTO

DELEGAZIONE PONTIFICIA: PAURA DELLA FINE

CAPOLUOGO DI PROVINCIA: FUGA DALL'ISOLA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COLONIA LATINA: STORIA DI FEDELTA'

 L'immagine urbana della città si delineò nel 268 a.C. nella forma di una colonia latina, sullo schema ortogonale di un'organizzazione castrense. Da questo punto la preistoria divenne storia. Prima non c'era altro che il mistero della città sannitica (irpina o caudina?): il "malus eventus" del nome primitivo, Maleventum, convertito nel "bonus eventus" del "nomen" sterminatore di Pirro: Beneventum (Plinio, N.H., III, 11). Durante le guerre sannitiche era apparsa nel 314 sullo sfondo, mentre accoglieva tra i suoi due baluardi fluviali i Sanniti scampati ad una strage (Livio, IX, 27). E nel 297 aveva assistito allo sbaraglio degli Appuli accorsi in aiuto del Sannio, nei suoi dintorni (Livio, IX, 27; X, 15). Non sappiamo altro: assente persino nell'episodio delle Forche Caudine. Tutto pare suggerire che non si fosse mai lasciata coinvolgere nel duello sannitico con Roma, se non marginalmente; ma avesse seguito un suo autonomo percorso, favorita dalla stessa barriera protettiva del Sabato e del Calore, rivelando la diversità tipica di un "pagus" fluviale, avente nell'acqua insieme la sicurezza e la ricchezza: un vallo difensivo e un tramite di relazioni. Non sappiamo molto neppure sul punto di ubicazione: probabilmente vicino alla confluenza dei due fiumi; ma niente di sicuro. Solo nel 268, dunque, la città, entrando nella storia, si salda per sempre sul luogo in cui la vediamo ancor oggi, si circonda del perimetro murario, rimasto pressoché uguale nei secoli; si riempie di monumenti, di opere d'arte, di storiche testimonianze: esempio di lealtà e di fedeltà verso Roma. Nei momenti di crisi in cui le ribellioni sannitiche misero a repentaglio il nome romano, Benevento non si trovò mai coi ribelli. Nella seconda guerra punica, per la sua fedeltà, fu vittima di saccheggi cartaginesi nel suo fertile territorio, anche se non subì mai occupazioni urbane, per l'inaccessibilità del sito. Nel 216 Annibale devastò l'"agrum beneventanum" (Livio XXII, 13); ma non riuscì a toccare la città; nel 214 Annone si accampò presso il Calore a tre miglia dal centro abitato; ma Tiberio Gracco lo affrontò e sconfisse in campo aperto. Dopo la vittoria, i beneventani accolsero i vincitori, uscendo in gran folla per incontrare i soldati sino alle porte, abbracciandoli, congratulandosi, invitandoli nelle loro case (Livio XXIV, 14-16). Circa due anni dopo, Annone ebbe bisogno ancora di cereali e minacciò di nuovo Benevento. Ma i cittadini chiamarono in aiuto i consoli impegnati a Boiano, e la città fu salva: in questa occasione essa rivelò più che mai la sua natura di capisaldo, chiuso al nemico, ma aperto in tutte le direzioni all'esercito di Roma da una rete stradale ampia ed efficiente. Nel 209 la prova di fedeltà venne premiata da un atto di glorificazione del senato romano (Livio, XXVII, 10). In occasione della guerra sociale, nella generale sollevazione dei "soci" italici, tale prova si rinnovò. Municipio della tribù Stellattina, con lo stesso "cursus honorum" di Roma Benevento divenne presto un centro sempre più ricco, popoloso, attivo. Nelle guerre civili patì forse qualche duro colpo. La deduzione della colonia triumvirale, nel 42, guidata da Munanzio Planco, e poi la ristrutturazione augustea con l'aggregazione dell'area caudina (Julia Concordia Augusta Felix), furono episodi che probabilmente non avvennero senza traumi dolorosi. Ma la posizione felice continuò a giocare in suo favore nel recupero dell'equilibrio vitale. La via Appia e la via Latina ne fecero il punto più importante di passaggio per l'Oriente: di uomini, merci, eserciti. Per l'Appia arrivarono a Benevento, nel 37, Orazio, Virgilio, Mecenate, diretti per una missione diplomatica a Brindisi. Per l'Appia, Augusto vi accompagnò Tiberio diretto nell'Illirico. Per l'Appia Nerone vi giunse ad esibirsi nell'anfiteatro cittadino (che forse è quello scoperto recentemente da Johannowsky) nel '64 d.C. E tutti entrarono in città attraverso quello che oggi si chiama ponte Leproso, la cui forma rende testimonianza del suo passato. Per questo fenomeno di accentramento e di smistamento di uomini, mezzi e merci Benevento poté essere anche un veicolo di culture diverse: i suoi templi e monumenti, di cui si ammirano ancora i resti imponenti, lo attestano. Lo attesta il tempio di Iside (88 d.C.) segno di una religiosità mediterranea incentrata sul culto della Grande Madre e del suo paredro Bue Apis, ma piegata da Domiziano alla deificazione del potere imperiale. Lo attesta l'Arco Traiano, porta aperta sulla vecchia via Minucia, poi via Traiana, verso l'oriente. Lo attesta il monumentale teatro adrianeo, le terme, le basiliche, i fori, i cui frammenti architettonici e figurativi occhieggiano oggi in strutture di edifici e contesti diversi, a perpetuare una linea di continuità tra l'antico e il moderno; un piano di coesistenza di tempi, culture, stili molteplici, eppure familiari; un clima di incantesimo che trasforma magicamente il testo di ieri nel contesto di oggi. Provata periodicamente da insulti sismici, la città rinacque sempre sulle stesse orme, recuperando i gioielli, i ricordi, i tesori di famiglia, devotamente, per conservarli negli angoli delle sue case. Il Correttore della Campania Aurelio Simmaco in una sua visita rimase stupefatto proprio di questo slancio di rinascita dei cittadini di fronte agli effetti del terremoto del 369 (la città non faceva parte più del Sannio ma della regione Campania). Lo slancio rilevato dal magistrato romano sembra che prorompesse dalla fede cristiana, accesa forse da un vescovo leggendario, considerato dai beneventani non solo il loro pastore per eccellenza ma anche il loro figlio più caro: san Gennaro. L'intelletuale pagano si stupì anche di questo: che la città fosse piena di cristiani (Simmaco, Ep. I, 6): che stesse per morire il suo mondo pagano, pur così ricco di valori, e prendesse principio un nuovo verbo e un nuovo corso, che quel mondo si accingeva a recuperare e redimere dallo sfacelo barbarico, pur celebrando la sua nascita nelle tragedie di sangue e di fame della guerra gotico-bizantina, nel caos delle migrazioni germaniche, nello strazio di un parto cruento di distruzioni e stragi, nel clima apocalittico di un tramonto di sangue.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITALE DELLA LONGOBARDIA MINORE: LINEA DI AUTONOMIA

Mentre l'istinto di conservazione, messo a nudo dal crollo della civiltà di Roma, spingeva la popolazione a spogliare i pubblici monumenti superstiti, o caduti, o cadenti, per gli usi dei bisogni primari, e a disperdere, fuori dai contesti originari, l'immenso patrimonio di colonne, statue, sarcofagi, arredi, nelle destinazioni d'uso più disparate, la stirpe Longobarda prese possesso della città. Siamo nel 571, se la datazione muratoriana è esatta. Paolo Diacono (III, 33) indica come primo duca di Benevento Zottone: un nome che non si trova nelle genealogie dinastiche delle stirpi gentilizie di Alboino e lascia perciò il sospetto che si tratti di un personaggio indipendente dall'invasione del conquistatore di Pavia: forse di un condottiero dei Longobardi assoldati da Narsete contro gli Ostrogoti (Paolo Diacono, II, 1; Procopio, IV, 33) e rimasti probabilmente, almeno in parte, nella Campania. Altrimenti non si capirebbe perché il re Autari venne a Benevento scendendo per Spoleto tra il 584 e il 590, vivente ancora Zottone (Paolo Diacono, III, 32). La spiegazione più logica è che intendesse sottomettere al suo regno questo conquistatore anomalo. Ma forse non ci riuscì. Zottone proseguì nella sua linea di autonomia. Solo dopo la sua morte, il re di Pavia Agilulfo prese formale possesso del ducato designando alla successione un suo uomo nel 591: Arechi I (P. Diacono, IV 18). Ma anche il nuovo duca continuò a svolgere una politica di autonomia. Benevento conquistò Capua e Salerno, minacciò i ducati costieri, i temi bizantini, i confini romani, dilatò il suo dominio; ricostruì le chiese, i monasteri, i pubblici edifici; ristrutturò l'impianto urbano sul modello antico; riorganizzò l'economia e la società. Il ritmo di ricostruzione della civiltà progredì a passo costante. Toccò il culmine con Arechi II, proprio quando il regno di Pavia cadde sotto i colpi della potenza carolingia. La cinta muraria, ritratta all'interno al tempo della crisi gotica, si estese al tracciato antico sino a comprendere la cosiddetta "città nuova" di Arechi. La sede dei dinasti, centro ideale non solo del Piano di Corte, ancor oggi impregnato di echi longobardi, ma di tutta la città, articolata in contrade e porte contrassegnate dai nomi gentilizi delle "fare"; la cattedrale, dal nome significativo di Santa Maria di Gerusalemme, un'altra Grande Madre, che continuò sullo stesso tempio antico della dea mediterranea il ricordo di Iside (Muller); il tempio di Santa Sofia, poema della Sapienza divina col suo chiostro d'amore, sintesi meravigliosa di motivi riecheggianti arie di lontananza, che resta fonte di stupore ai nostri occhi immemori, con le sue suggestive strutture simboliche; la cappella del Salvatore, cioè di Cristo Sapienza incarnata (ricordo forse della lotta combattuta dal ducato, accanto al papa, contro l'inococlastia di Bisanzio, e quindi contro lo stesso re di Pavia), che, nelle sue colonne, conserva ancora il filo del lontano passato; tutti gli edifici pubblici, politici, religiosi, costituenti ai tempi di Arechi II il diadema della città, accolsero nei loro organismi le sparse membra dei secoli trascorsi, fuse in una profonda ispirazione cristiana che era la stessa fede del leggendario vescovo san Barbato, sterminatore di idoli e glorificatore di Cristo: quella che ispirò al cuore di Adelchi II la triste sapienza dell'Ecclesiaste, che vede nei fastigi della gloria del mondo la vanità delle vanità e nello splendore della corti la fragile esistenza di miseri mortali che passa come un fiore: "quasi flos decidit", e solo nell'esempio di Cristo trova senso e conforto. La "fides" cavalleresca e la "fides" cristiana si convertirono reciprocamente nei gesti, nelle parole, nelle opere d'arte. Il potere s'integrò nel servizio. L'acclimazione culturale favorì una compenetrazione così intima che vincitori e vinti finirono col sentirsi una sola realtà. La funzione politico-nazionale del clero e dei monaci si formò in questa atmosfera di fusione spirituale. Nel momento del pericolo la Chiesa si strinse intorno ad Arechi II contro Carlo. Il vescovo Davide salvò il ducato con un gesto altamente patriottico, che indusse il re dei Franchi a desistere dal proposito di sferrare l'attacco, e Arechi a continuare la sua politica d'autonomia al prezzo modesto di un omaggio formale, e persino a proclamarsi principe: "si fece chiamare principe - dice un cronista di Montecassino - E si fece ungere dai vescovi, imporre la corona, e ordinò che negli atti pubblici si aggiungesse la formula: scritto nel nostro sacratissimo palazzo". Il ducato divenne principato, cioè dominio assoluto. E anche quando perse Salerno (849), non abbandonò la sua linea tradizionale. Non esitò, difatti, ad allearsi con i Saraceni contro la crociata pontificio-impenale (871). Adelchi, che capiva quale piano di sopraffazione si nascondesse sotto il pretesto della spedizione antimussulmana, non si lasciò prendere in contropiede e prevenne le mosse ostili catturando l'imperatore Ludovico II, ospite sacro del suo palazzo: "scelus", che sgomentò l'intera cristianità. Il senso della patria comune, romana, cristiana, longobarda, aveva il suo punto forte nella continuità. I 32 "philosophi" di cui parla l'Anonimo Salernitano, al tempo di Adelchi erano poeti e umanisti di formazione classica, cioè radicati nel mondo antico. Il sovrano stesso si sentiva "princeps Samnitium": non solo dei Longobardi e dei Latini, ma anche dello strato preromano italico. E queste ascendenze non erano radici immerse nella selva, ma nel terreno coltivato del Sannio e di Roma. Il mito del Sannio svolse, così, contestualmente con quello di Roma, una funzione storica di civiltà, per cui la "gens" venuta dal Nord non ebbe più la nostalgia delle foreste ma si sentì integrata nell'humus culturale dei nostri strati e sostrati nei quali attinse copiosamente il succo nutritivo essenziale. Nessuno sapeva nulla di certo sulla storia dell'antico Sannio, ma bastò il ricordo di un mondo sentito non nelle sue diversità tribali, ma nella mitica unità nazionale; perché questa era la base di sicurezza su cui la Longobardia minore poté durare in vita ancora tre secoli dopo la catastrofe di Pavia (774). Nell'acme dell'espansione la città si costituì capitale di una regione di oltre 30 gastaldati (i gastaldi qui non erano i rappresentanti del re, ma i capi delle singole circoscrizioni amministrative) senz'altri legami che il sangue e il giuramento (solo nel secolo X si avvertì l'influsso del feudalesimo franco). Intorno alla linea di confine brillavano constellazioni di vario splendore: a Nord i ducati di Spoleto e di Roma, a Sud le provincie bizantine, sulle coste le città marinare più o meno legate a Costantinopoli, le stazioni e teste di ponte delle varie stirpi mussulmane, i ducati autonomi di Napoli, Amalfi, Salerno... Con questa pleiade di culture circostanti gli scontri, i conflitti, gli urti erano continui, ma anche gli incontri, gli scambi, i prestiti reciproci, dei quali si hanno le prove nelle miniature della scrittura beneventana e nelle opere d'arte ancora vitali, dove l'eredità classica si sposa con le suggestioni arabe, bizantine, carolingie, dando spesso all'ingenuità dell'intuizione "barbarica" un grande spessore culturale. Senza un processo intenso di reciprocità interetnica e interculturale, non si capirebbe nulla: né il fulgore della corte di Arechi II insignita dalla bella scuola di Paolo Diacono e da ministri colti e intelligenti; né l'umanesimo di Ilderico perla di una fulgida corona di sapienti (IX secolo); né la luce intellettuale dello storico e poeta Erchemperto (IX secolo); né la scuola grammaticale del vescovo Ursus; né il potere culturale dell'abazia sansofiana; né la erezione della chiesa locale a sede metropolitana (969). L'eredità del sincretismo longobardo, elaborazione originale e autonoma, aggiunse un'altra pietra miliare sulla strada della continuità classica, pur in un quadro "barbarico" denso di ombre e di misteri. Nella coltre di tenebre dell'alto medioevo questo è un raggio di luce che accende la fede nel futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DOMINIO PAPALE: "LIBERTAS CIVIUM" E "SUMMA POTESTAS"

L'ultimo dinasta longobardo, Landolfo VI, spirò senza eredi nel 1077. E la città, ormai ridotta per le continue erosioni normanne ad un modesto retroterra, cadde formalmente sotto il dominio della Chiesa, per effetto di un patto con l'imperatore e di un lungo intreccio di eventi difficili da districare. L'inizio del nuovo tratto di storia è quello di una "res publica" governata da un rettorato elettivo (due Rettori a ricordo dei due consoli romani), espressione insieme della "libertas civium" e della "summa potestas" pontificale: un ordinamento forse già esistente, a mezzadria papale, nell'ultimo scorcio del principato. Gli Annales Beneventani di Santa Sofia, infatti, collocano una "communitas prima" nel 1015 e una "coniuratio secunda" nel 1041, e un documento di Gregorio VII del 1073 impone al principe il rispetto della "res publica". Nel 1077, dunque, dal compromesso il papa arriva al "dominium eminens". Ma l'idillio tra la libertà dei cittadini e la suprema potestà di Roma durò poco. Un tentativo di restaurazione del principato costrinse Pasquale II a una riforma autoritaria, contemplante l'accentramento dei poteri e il governo di un solo rettore. Di qui il principio di una insanabile frattura tra la "libertas civium" e la "summa potestas", che trovò la sua espressione drammatica in due partiti, diversamente nominati nel tempo e diversamente localizzati nello spazio: da una parte un'aristocrazia rettoriale gravitante nell'orbita del potere politico, cioè della chiesa teocratica, in alto, accanto al palazzo; dall'altra parte, la "civitas" del "populus", contadini, mercanti, artigiani, nobili fedeli all'episcopato, gravitante nella sfera del potere religioso, cioè della chiesa pastorale, in basso, accanto all'episcopio. In quest'orizzonte di contrasti è solo un pregiudizio ritenere che il periodo pontificio fosse solo un lungo sonno di decadenza. Tutt'altro: la verità è che la "civitas" non abbandonò mai il campo di battagha. Nel 1128, infatti, fece piazza pulita dell'aristocrazia di Piano di Corte e costituì un ordinamento popolare. E, prima ancora degli statuti del 1202, dove persiste la concezione del diritto longobardo come "pactum" più aperto alla "communitas" che non il diritto romano, come "praeceptum", gli interlocutori del pontefice erano i "consules" e il "populus", aventi nell'arcivescovo, consapevole dei problemi locali, sempre un sicuro punto di appoggio, per la comune avversione alle strutture del potere rettoriale, per cui non esitavano a intrattenere, in caso di necessità, un gioco vario e pericoloso con i "nemici" esterni (Normanni, Svevi, ecc.) diretto allo scioglimento della teocrazia beneventana nel regno circostante, sede delle numerose diocesi suffraganee (24 nel XIII secolo) e speranza di aperture economiche, civili, culturali. E un fatto che, nel periodo di Federico II e di Manfredi, la "civitas", cioè la società civile in lotta per gli ordinamenti comunali, si presentava in veste filo-sveva, compresi i pastori. L'arcivescovo Ruggero, autore della ristrutturazione interna e della facciata del duomo, che assunse con lui l'aspetto tramandato sino ai nostri giorni, non solo sembra volesse dare alla sua Chiesa una dignità eccezionale, ma inclinasse anche verso il ghibellinismo. Analogamente il suo successore, il conte Ugolino, pare fosse amico di uno dei più grandi giuristi dell'imperatore, Roffredo Epifanio, il cui nome si ricorda ancora quando si guarda l'attuale chiesa di San Domenico, frutto della sua fede cattolica e insieme ghibellma. Romano Capodiferro, poi, non fece misteri del suo totale filoghibellinismo né temette di esporsi alle ripetute scomuniche per la sua adesione alla politica di Manfredi. E significativo che, dopo la battaglia di Benevento (1266), Carlo d'Angiò tentasse di giustificare il saccheggio sanguinoso della città col motivo della militanza filosveva. La Chiesa di Roma richiamava all'ordine i pastori ribelli. Ma essi continuarono a difendere la "civitas" anche sotto il sistema più duro: quello guelfo-angiomo. L'episodio di Giovanni Castrocèli (1289), che rovesciò il rettorato e instaurò il regime civico abolito da Martino IV nel 1281, è un fatto esemplare. Durante la "cattività avignonese", le cose si fecero più confuse, ma l'atteggiamento della "civitas" non cambiò senso. Il rettore rischiò sempre più frequentemente la vita (terribile la rivolta di Simone Mascambruno: 1316), cosicché il pontefice si vide costretto alla costruzione di un palazzo-fortezza (l'attuale Rocca dei Rettori: 1321), perché il palazzo di Piano di Corte non era più sicuro. Ma il popolo non si placò. Nel vortice delle guerre dinastiche angioine la situazione divenne sempre più violenta. Un fioco raggio di luce viene dagli Statuti di Eugenio IV concessi intorno al 1440. Poi con l'avvento degli Aragonesi apparve un primo cenno di Stato di diritto. Alfonso I fu vicario della città sino al 1459, anno in cui il rettore si chiamò governatore: al "ius proprium", statutario, si sostituì il "ius commune", regale. La "civitas" aragonese crebbe culturalmente per i continui contatti con Napoli, del cui umanesimo sentì benefici effetti. Ma questa luce dura sino alla Controriforma. Dopo il Concilio di Trento, si nota una svolta radicale, sintonizzata sul tempo del vicereame spagnolo. La "civitas" non trova più nell'episcopato il suo centro di gravità, perché la nuova linea inaugurata da Giacomo Savelli nel Concilio del 1567 che si esprime nell'imponenza del seminario diocesano, gli conferisce un potere teocratico senza precedenti, incentrato sulla volontà di Roma (Congregazione del Buon Governo: 1592) e non più sulla logica delle esigenze cittadine. Di qui aspri conflitti giurisdizionali con il Comune, che ha nella maestà di palazzo Paolo V il simbolo della sua autorità, e rivolte popolari di sangue, che hanno per bersaglio non più il rettorato ormai ridimensionato, ma l'episcopato che, per il suo primato politico-religioso, rappresenta la somma di tutti i poteri, causa prima di una situazione sbilanciata a totale vantaggio del centralismo romano. Lo squilibrio trovò un contrappeso solo nel carisma della personalità di un vescovo eccezionale, capace di assorbire il potere politico nell'umile servizio del pastore, ponendosi come un paradigma di dedizione, di sacrifici di coraggio, di fronte al terremoto del 1688, che lo vede instancabile ricostruttore della città sulle orme del passato, deciso a piegare il linguaggio dell'architettura civile a rendere omaggio al primato urbanistico degli episodi sacri; e, nello stesso tempo, lo sente pietoso soccorritore degli afflitti. Il centro storico di oggi è la città degli Orsini, dove il cumulo delle memorie antiche traspare da ogni angolo, vicolo, angiporto. Il periodo orsiniano è anche un momento di vivacità economica e socio-culturale, favorita dagli Statuti "popolari" di Sisto V (1588), specchi di vitalità in espansione e insieme fattori promozionali di ceti burocratici e mercantili verso alti livelli di nobiltà: "genus pecunia donat". I nuovi nobili della zona bassa (popolare) si trasferiscono nella zona alta (aristocratica) della città: i palazzi Terragnoli, Mosti, Roscio, De Simone, Coscia... sono testimonianze eloquenti di questo processo evolutivo della nobiltà di toga, voluto dal pontefice ma osteggiato dalla nobiltà di sangue. Poi, morto Orsini, le contraddizioni di fondo riemergono e la conflittualità si esaspera (terribile la rivolta del Masaniello beneventano nel 1741). Intanto, nel Regno di Napoli, finita l'età dei viceré, Carlo III di Borbone dischiuse le porte a un rinnovamento culturale e civile, all'insegna del giurisdizionalismo. Ma il riformismo illuminato napoletano s'infranse contro i bastioni della città dei papi, che solo con l'occupazione borbonica (1768-74), dovuta alla questione gesuitica, conobbe qualche soffio di razionalismo moderno, coefficiente ideologico di una borghesia sempre più insofferente dei teologemi tridentini e avida di stimoli e fermenti illuministici. E' questa la borghesia che credette di chiudere il medioevo nell'anno fatale del 1799 e di aprire le porte al vento tempestoso dei diritti del cittadino, mettendosi al servizio dell'ideologia e della potenza francese, sulla via dell'età moderna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FEUDO IMPERIALE: SOVRANITA' DEL DIRITTO

L'esperienza francese del 1799, finita tragicamente, riprese nella prospettiva ideologica bonapartista, in cui la tavola dei diritti, interpretata in senso moderato, in direzione classista, e inquadrata nella cornice dell'impero napoleonico, comprendente non più repubbliche, ma regni e principati ordinati in entità feudali, finì col formare un ordinamento, che solo in senso ristretto può definirsi liberale e, in nessun senso, democratico. Il Principato di Benevento (Talleyrand), retto da un governatore sensibile e intelligente come Louis de Beer rivestì questo carattere antigiacobino e conservatore, pur rappresentando per la città una rivoluzione sconvolgente, per l'incompatibilità del nuovo diritto, privilegiante soggetti individuali, col diritto tradizionale, privilegiante soggetti collettivi quali le comunità, per cui l'impatto travolse il sistema degli enti ecclesiastici, corporazioni, confraternite, conventi; e ancora per l'inconciliabilità dell'unico ordinamento giuridico statale con la pluralità delle giurisdizioni comunitarie. Il nuovo organismo, dunque, non era certo un regime giacobino; ma era pur sempre uno stato di diritto, poggiante non sull'arbitrio degli uomini, ma sulla sovranità della legge, formalmente eguale per tutti. Il principio razionale di semplificazione e unificazione giuridica, che pure operò come un fattore di progresso economico-sociale e di civiltà e si tradusse in istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado (esemplare il Liceo nato nel 1810), in provvedimenti igienici e sanitari moderni (rivoluzionaria la vaccinazione antivaiolosa), in ristrutturazioni urbanistiche funzionali e insieme classicamente suggestive (caratteristica la sistemazione di piazza Santa Sofia enfatizzata dalla fontana monumentale dall'imponente obelisco), in lavori pubblici efficienti, in realtà non fu un principio innocente. L'eversione degli enti tradizionali, mentre attivò un mercato di beni immobiliari, che potenziò la borghesia sostenitrice del governo, sbloccando la situazione di immobilismo tradizionale in nome del diritto soggettivo di proprietà che escludeva gli usi tradizionali dei beni civici, comuni, "universali", e che fece del "dominium eminens" il nemico mortale del "dominium utile", spinse contemporaneamente alla rovina l'enorme massa di fruitori degli istituti religiosi soppressi, che persero le loro fonti di sostentamento, senza riuscire ad avere un risarcimento e una speranza di compensazione nel quadro della politica liberista e insieme dirigista del principato. Questo sovvertimento determinò, di conseguenza, un rimescolamento di carte sul piano sociale, malgrado il continuo ricorso a compromessi pratici, come la riforma anziché la coerente eliminazione dell'enfiteusi, e non frenò il corso sostanziale del processo, per cui il tradizionale partito del popolo, prima solidale, poi ostile all'episcopato, rifluì su posizioni "reazionarie", staccandosi nettamente dalla frazione borghese e subordinandosi all'aristocrazia nera che, colpita e frustrata dal riformismo beeriano, attendeva solo il momento opportuno per rialzare la testa e riprendere la sua funzione egemonica: momento che giunse col tramonto della stella bonapartista. Il Codice civile napoleonico, che introdusse il divorzio coniugale, sul piano economico, produsse anche il divorzio tra il "dominium eminens" (proprietà) e "dominium utile" (possesso o uso); e, sul piano sociale, favorì il divorzio tra le due fasce della compagine popolare: lo strato borghese e quello contadino. Così calò nella realtà il principio di una lotta di classe destinata a perpetuarsi, con alterne vicende, nella storia futura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DELEGAZIONE PONTIFICIA: PAURA DELLA FINE

Il Congresso di Vienna restituì alla Santa Sede Benevento. Ma la città era in condizione di sbaraglio morale e materiale assai grave, determinata dall'occupazione del "traditore" G. Murat avvenuta nel 1814 in un turbinio di rabbiosi partigiani di Beer, di reazionari papali e borbonici, di satelliti muratiani, di settatori del caos. Perciò l'unico trattamento adeguato parve una terapia missionaria diretta da S. Gaspare del Bufalo alla restaurazione sia del regime papale che del costume morale. Riprese quota il rappresentante del pontefice, con un nome nuovo: Delegato apostolico, anziché governatore. Non si trattò solo di un mutamento nominalistico, ma di una svolta effettiva, che tolse al capo politico ogni potestà autonoma, facendone un commissario del pontefice e ridusse ai margini l'autorità comunale. Inizialmente erano in gioco due linee di governo: l'una, dura, di Bartolomeo Pacca; l'altra, elastica e conciliatrice, di Ercole Consalvi. Prevalse a Benevento la prima, favorita dalla nevrosi fobica della "rivoluzione": un mostro da esorcizzare con tutti i mezzi, spirituali e temporali. Per riuscire nell'intento, si organizzò un controllo rivolto all'intero organismo politico-sociale. Il "Motu proprio" di Pio VII (6.7.1816) sull'amministrazione pubblica conferì uniformità e centralità all'apparato burocratico-poliziesco. Niente più giurisdizioni feudali, speciali, privilegiate. Le immunità, i diritti d'asilo, le esenzioni impositive, le consuetudini del passato, tutte le assurdità intollerabili furono riviste o ridotte o abolite. I corpi collettivi, le comunità intermedie, le associazioni varie si piegarono ad una disciplina di nuovo conio. E i patrimoni si assoggettarono ad una normativa catastale subendo il primo censimento e la relativa imposta il 3 agosto 1816. Sembra che il principio di semplificazione dell'ideologia beeriana fosse l'unico a salvarsi nella prassi restauratrice. Tutto il resto era maledetto e ripudiato; il sistema centralizzato, no. Ma era un principio che funzionava come un meccanismo di difesa, regressivo e protettivo. Era la paura della fine che lo attivava. La sicurezza dommatica di un tempo non esisteva più. I Gesuiti ritornarono e riaprirono il Liceo nel 1817; ma l'ubbidienza "perinde ac cadaver", la disciplina totale non tornò più: dalle loro scuole uscivano ora anche carbonari e liberali, preti inquieti, professionisti inaffidabili. L'editto di Bartolomeo Pacca sui beni archeologici e artistici (7.4.1820) nacque forse anch'esso dal senso di paura dominante: gli usi spregiudicati, i trattamenti indecenti, i furti sfacciati di questi beni, non più protetti dal tradizionale alone sacro del passato, imposero una severa disciplina anche in questa materia. La paura non era infondata, naturalmente. Bastava una crisi cerealicola, un cattivo raccolto, per incutere spavento. E, quando nel regno vicino si accese la miccia della "rivoluzione", le fiamme investirono anche la Delegazione. La rivolta carbonara di Andrea Valiante scoppiò il 5.7.1820, in sintonia con i moti di Napoli, e, come a Napoli, mise capo ad un governo repubblicano, che durò in vita un anno, stroncato dal riflusso napoletano. Ma il partito "rivoluzionario" non scomparve: si nascose e, nascostamente, intrecciò trame con i fratelli napoletani, riprendendo la tradizione dell'antico partito del popolo, diretta a risolvere l'ordinamento pontificio nell'ordinamento partenopeo: Napoli o morte: mentre la fascia popolare contadina, che ormai vedeva nel ceto borghese un nemico, si compaginava con la struttura pontificia, in cui delegato e vescovo erano ormai come due pilastri di un ponte, struttura che, con il suo sistema comunitario, enfiteutico, caritativo, consentiva ai più poveri almeno un margine minimo di sostentamento. Come i liberali, così anche gli uomini del potere seguivano una prassi collaborativa con le autorità di Napoli, per la caccia ai soggetti pericolosi, la prevenzione dei colpi di mano, la repressione dei delinquenti politici. Le due internazionali, della rivoluzione e delle reazione, stanno a significare che il mondo era cambiato. E gli uomini della soffitta erano ormai una nazione occulta, pronta a profittare del disagio per sovvertire l'ordine costituito. E il disagio era acuto. Un documento del cardinale Domenico De Simone (1833) fa un'analisi impressionante della situazione, dinanzi all a quale l'ipotesi di riforma sembra un palliativo per un male inesorabile. La religione non basta più a tenere in gabbia il mostro. I suoi stessi ministri ne sono presi e invasi. Dopo la caduta della repubblica carbonara, l'Assessore civile Giacomo Negroni così si esprime in un rapporto del 9 luglio 1821: "Opinerei di far cadere sul ceto ecclesiastico, i di cui componenti sono per circa la metà carbonari, un qualche castigo anche per sola ascrizione alla setta... tutti i familiari dell'eminentissimo arcivescovo Spinucci si dice siano addetti alla setta carbonica, tra cui il caudatario canonico Tucci, il quale nelle trascorse vicende ha figurato segretario dell'Alta Vendita e da sorvegliatore della nobiltà". E l'Assessore criminale Gaetano La Valle, prima ancora dello scoppio dei moti, tradisce l'impressione di una città zeppa di carbonari: "se si dovesse costituire la città di Benevento come luogo di relegazione, si sarebbe sicuri di trovare i relegati nella piena degli abitanti medesimi". Il liberale non è separato dal clericale, il rivoluzionario convive con il reazionario, allo stesso desco, sotto lo stesso tetto, nello stesso ufficio. Non c'è una linea di frontiera che separi i due schieramenti. Il Primato di Gioberti, cattolico liberale, sembrava fatto apposta per coonestare questa coesistenza. Stampato clandestinamente, il volume si diffuse tra gli intellettuali beneventani: divenne un vangelo politico, che, in occasione di una grave crisi agraria (1844-47) scosse la popolazione sofferente. Neppure gli interventi liberaleggianti di Pio IX riuscirono a decomprimere la tensione, anzi, per la loro ambiguità, finirono col complicare le cose e provocare la rivolta di Salvatore Sabariani (15.4.1848), stroncata nel sangue. Anche la successiva visita del papa a Benevento (30.10 - 2.11.1849) fu come un correre ai ripari nella paura di qualcosa di irreparabile. L'aria era piuttosto torbida. La stessa fascia contadina, rimasta sinora fedele al sistema pontificio, cominciò ad agitarsi. Non era il fattore ideologico a muoverla: era la fame, nuda e cruda. E il tragico era che non poteva rovesciare, senza restare sotto le macerie, il sistema in cui sperava; né poteva allearsi col ceto borghese, in cui non credeva. Perciò fece una rivoluzione "reazionaria", pacifica, ma impressionante: la rivoluzione delle frasche, per i rami di acacia agitati nella dimostrazione (1855). I liberali non la compresero: né i moderati, come Carlo e Federico Torre , ne i radicali come Salvatore Rampone. E non potevano comprenderla, perché non aveva obiettivi politici. Era solo l'espressione di una crisi mortale: il sintomo della fine. Perciò questa sollevazione sconcerta gli storici: non ha senso storico. Essa rappresenta l'organismo pontificio che si spezza: una parte non riconosce l'altra e la rigetta. La borghesia deve solo raccogliere l'eredità, e così avviene. Prima che Garibaldi giunga a Napoli, Salvatore Rampone, solo, senza scorta, vestito da colonnello dei garibaldini, in camicia rossa, si porta al castello per comunicare all'ultimo delegato apostolico, Edoardo Agnelli, l'ordine di lasciare la città entro tre ore. E' il 3 settembre 1860. Il pomeriggio dello stesso giorno è proclamato capo del governo provvisorio. E si reca coi suoi garibaldini a render omaggio alla Madre delle Grazie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPOLUOGO DI PROVINCIA: FUGA DALL'ISOLA

L'isola pontificia, accerchiata per secoli, periodicamente bloccata, meta di asilo politico e criminale per "confugientes" di ogni classe, oggetto di interminabili vertenze confinane e risse di feudatari prepotenti: enclave sempre contestata e rivendicata dal regno di Napoli, diventa capoluogo di provincia il 25 ottobre 1860, senza determinazione circoscrizionale, sotto la Dittatura di Garibaldi; e riceve la circoscrizione definitiva, salvo lievi variazioni successive, sotto la Luogotenenza generale di Eugenio di Savoia il 17 febbraio 1861 prima ancora della proclamazione del Regno d'Italia (17.3.1861). Il Parlamento nazionale ne riconosce la legittimità il 15 maggio 1861. Dopo appena un mese di governo provvisorio presieduto da un democratico, il governo dittatoriale garibaldino nomina stranamente governatore, poi prefetto, un liberale moderato, Carlo Torre, il che suscita contestazioni e proteste. Ma la destra finisce col prendere le redini in mano, saldamente. Non solo il governo nazionale, ma anche il governo locale, comunale e provinciale, diventa appannaggio di "neoguelfi": Governatore Carlo Torre, Sindaco Celestino Bosco Lucarelli, Presidente della Provincia Michele Ungaro, la compagine moderata sembra presa da una smania frenetica di organizzare il piano di fuga dal medioevo clericale in direzione dell'avvenire: smania appena trattenuta dall'esplosione della reazione e del brigantaggio in tutti e tre i circondari del Sannio, Benevento Cerreto, San Bartolomeo, che sino al 1865 minaccia il capoluogo, difeso per fortuna dalla tradizionale corazza delle mura e porte storiche. Ma, cessato il pericolo, la febbre di novità sale, e l'assillo della fuga riprende ad affannare e agitare la città. La lotta si svolge su due fronti: interno, l'uno; esterno, l'altro. Quest'ultimo riguarda il grande agitarsi per fare di Benevento una città estroversa, rivolta fuori dalla chiusura tradizionale, verso la regione e la nazione attraverso una politica di strade ferrate e rotabili incentrata sulla valorizzazione della Valle Caudina: prima via della libertà. Il successo resta però molto al di sotto dell'agitazione. Così avviene anche sul secondo fronte. Qui agisce, nei confronti dell' "'urbs", il principio di razionalizzazione funzionale, anche in considerazione del ruolo di capoluogo bisognoso di sedi e uffici provinciali e nazionali. La spinta al rinnovamento scatta prima contro le porte e le relative pertinenze murarie, simboli del secolare isolamento, e poi contro la tradizionale morfologia urbanistica, non lineare, geometrizzante o schematizzante, ma complessa come la natura umana, radicata nell'humus culturale della popolazione. Così ha inizio la pratica delle demolizioni e degli sventramenti, per cui il patrimonio urbano che non risponde al principio di efficienza passa per cosa stantia: non antica ma vecchia. Nel giro di pochi anni si piangono i morti. Il cuore antico della città cade in pezzi. Il progresso avanza senza pietà. Ma poi il gioco vale la candela? La risposta non è semplice: è vero che, ad esempio, lo sventramento dell'antica via Magistrale (dai "magistri" di palazzo Paolo V) dà vita all'attuale corso Garibaldi; ma è un "monstrum" intollerabile la sopraelevazione compensativa dei palazzi prospicienti: uno squilibrio irrazionale in nome della razionalità, a parte gli squilibri del bilancio comunale. Su questo esempio si procede senza soluzione di continuità tra destra e sinistra sino al '900. Le perdite dei tesori antichi sono pagati spesso con moneta falsa. Simultaneamente si assiste, riguardo alla "civitas", ad una ristrutturazione dei rapporti di classe. Il declino dell'aristocrazia è fatale, nel quadro di un liberismo senza privilegi, propizio ai ceti dai riflessi pronti. Il partito clericale, invece, in seguito alle leggi eversive del 1866-67, si trasforma progressivamente. Molte famiglie prelatizie entrano in possesso di beni ecclesiastici alienati, avvicinandosi così ai cattolici liberali che, a loro volta, specie quando sale il pericolo socialista, per impulso di classe, si piegano volentieri alla formazione di blocchi conservatori con i cattolici "intransigenti'' per la conquista degli enti locali (il "non expedit" vale solo per il paese legale rappresentato dal Parlamento). I Bosco Lucarelli, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, sono già nei quadri dell'Azione Cattolica o della Democrazia Cristiana di Benedetto Bonazzi. La sinistra risponde con altri blocchi in cui i socialisti di Luigi Basile si aggregano ai democratici di Leonardo Bianchi, riuscendo persino a conquistare il Comune nel 1904 e nel 1920, sotto la costellazione del circolo massonico "Giordano Bruno". Nell'età giolittiana non è quasi possibile cogliere differenze tra conservatori di origine liberale e conservatori di stampo clericale, se non di tipo personale. Sono tutti uomini intraprendenti, e spesso colti, come Almerigo Meomartini, capo della Provincia quasi fino alla morte, o come il repubblicano Antonio Mellusi, amico fedele di ambienti moderati; hanno un forte interesse sociale, come G.B. Bosco Lucarelli, sindaco nel 1911, e poi deputato dal 1919 in poi, o Nazareno Cosentini, parlamentare onnipresente nella vita cittadina; sono pratici conoscitori e manovratori di congegni amministrativi e giudiziari, come Raffaele De Caro; ma le caratterizzazioni politiche sfumano nel vago. Le sole linee nette riguardano il temperamento. Su questa base si spiegano, ad esempio, le violente polemiche tra Basile e De Caro, Basile e Cosentini, Basile e i clericali. Non per niente finiscono quasi tutti nel fascismo, in cui, dopo il primo tentativo anticlientelare di Clino Ricci, si trasferisce anche l'esercito delle clientele. Intanto l'habitat urbano cresce, si espande, diventa eccentrico. Dopo le manipolazioni "razionali" del centro antico, si estroverte nel viale Principe di Napoli, nel Rione Costanzo Ciano, oggi Libertà, nel viale Atlantici sino allo straripamento dell'ultimo dopoguerra nei quartieri periferici, il cui carattere dissipativo, mettendo a dura prova il principio d'identità urbana e civile (l"'urbs" e la "civitas" sono aspetti complementari di una stessa realtà), ha risvegliato, per contrasto, nel corpo civico, il bisogno di un riscatto estremo del patrimonio recuperabile, sul tracciato di una speranza aperta sin dal primo piano regolatore di Luigi Piccinato (1933). Speranza oggi rianimata da un profondo sentimento di pietà del passato, che traspare dalle amorose immagini di questo libro, dove non solo è possibile fantasticare sui monumenti miracolosamente salvi, ma anche meditare sui relitti di una guerra brutale, memorie infrante di un mondo defunto ma non dimenticato; e più ancora piangere sui brandelli di ricordi sfuggiti alla ferrea empietà delle ruspe. "Sunt lacrimae rerum". Certo. Ma non c'è storia se non si raccoglie anche l'eredità di pianto del nostro travaglio antico. E questa eredità che alimenta l'amore dei nostri morti, che garantisce il filo della continuità, che dà al presente lo spessore umano del passato. L' uomo non è la vita in atto: è la vita nella sua continuità. L'identità è la memoria. Perdere la memoria è perdere se stessi. E questo il punto su cui si regge la fiducia che il futuro non diventi un sistema di androidi: il punto al quale possono guardare le contrade della corona periferica, non per un'assurda ricerca di unità materiale, ma per un'esigenza di identità culturale, che non contraddice ad un'articolazione policentrica dello sviluppo, ma anzi è la sola maniera di conservare, nella prospettiva dinamica del futuro, la stabile consistenza di una radice profonda: organo vitale dello spirito.

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