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LA BANDA DEL MATESE E IL PROCESSO DI BENEVENTO

 

da "Storia di Benevento e Dintorni" di Gianni Vergineo, Ed. Ricolo, Benevento, 1987

 

[...] la banda del Matese si costituisce nel 1877 per iniziativa dei due più famosi e generosi internazionalisti meridionali: Enrico Malatesta e Carlo Cafiero...... Il sogno dell'anarchia è questo: un uomo-dio quale meta ultima del travaglio storico. Il suo comunismo non conosce quindi le contraddizioni della realtà: la tremenda prova delle miserie umane, delle angoscie esistenziali, dei dubbi, dei disinganni, dei tradimenti: l'esperienza del Getsemani, dove l'uomo-dio suda sangue; la via del Calvario, dove cade sotto la croce degli schiavi tra sputi e sferzate. L'apostolato anarchico vede solo i trionfi del Tabor e la luce della Resurrezione. Non vede il processo intermedio di macerazione. Perciò il suo sogno è un salto miracoloso. Di qui il dissenso da Marx. Di qui anche l'entusiasmo religioso per l'idea di uguaglianza, che spinge i ribelli a vedere nella distruzione degli archivi municipali, nella distribuzione del danaro pubblico, nella spartizione egualitaria del grano, nell'occupazione collettiva della proprietà privata i segni di una messianica palingenesi. Ma questo vibrante idealismo, tanto generoso quanto astratto, va a infrangersi contro l'apparato militare del nuovo stato. La banda è sgominata. E con essa il movimento anarchico subisce un duro colpo. "Gli avventurieri del Beneventano, racconta Andrea Costa, diedero al governo il pretesto di sciogliere l'Internazionale. Dappertutto, dove i socialisti erano numerosi e pericolosi, avemmo lo stato d'assedio, ammonizioni, arresti e condanne a domicilio coatto" I capi d'accusa contro la banda del Matese sono tali da far prevedere una condanna oscillante tra l'ergastolo e la pena capitale. Come se questa prospettiva non bastasse, il ministro degli Interni, Giovanni Nicotera, già compagno d'armi di Carlo Pisacane nella spedizione di Sapri, sembra propendere per un giudizio sommario, affidato ad un tribunale di guerra. Ma l'intervento di Silvia Pisacane, la figlia dell'eroe di Sapri, adottata dal Nicotera, riesce a fermare il ministro, in nome dell'antica comunanza di idee e sentimenti tra la banda del Matese e le vittime di Sapri, su sollecitazione di un avvocato intimo di Bakunin. E forse la stessa Silvia intercede presso il giovane re Umberto I a favore dei detenuti di Benevento, se è lei, come sembra, la donna che sale le scale del Quirinale, per presentare al nuovo monarca una supplica per gli imputati della banda anarchica, secondo la rivelazione fatta dall'avvocato difensore Nardoneo al processo di Benevento. Gli anarchici comunque riescono ad evitare il tribunale militare. Ma, in ogni caso, la prospettiva resta preoccupante. Le imputazioni sono quanto mai gravi. Basta considerare quella di omicidio, anche se in realtà i fatti si riducono al ferimento di due carabinieri, di cui uno morto successivamente per "causa sopravvenuta". Ora, secondo il codice penale allora vigente (quello sardo-piemontese imposto all'Italia meridionale dopo l'Unità), "l'omicidio volontario è anche punito con la morte quando è stato mezzo o conseguenza immediata del delitto di ribellione". Le accuse sono indiscriminate e quindi tutti gli imputati ugualmente responsabili di delitti capitali. La sorte è dura per tutti. L'amnistia concessa da Umberto I il 19 gennaio 1878 estingue la maggior parte dei reati, ma non cancella il ferimento dei due carabinieri. Perciò sono liberati i cospiratori di Solopaca e di Pontelandolfo non coinvolti in questo ferimento. Gli altri ventisei imputati sono sottoposti a procedimento penale per omicidio conseguente ad atto di ribellione contemplante la pena di morte. Il processo contro la banda del Matese ha inizio il 14 agosto 1878 per concludersi il 25 dello stesso mese. Da una nota giornalistica si ricava l'idea di una simpatia spontanea della popolazione beneventana verso gli accusati. La città, certo, è dominata da una classe politica che ormai fa pienamente corpo con la borghesia nazionale, anche se in funzione subalterna per la sua più arretrata condizione economico-sociale. E una classe che trova nelle strutture del nuovo stato gli stimoli di una competizione fatta spesso di colpi bassi e di sordi rancori e tuttavia ispirata ad una comune ideologia di conquista. Ma questa è la città legale. La città reale invece sembra incline a concepire per gli anarchici un moto di approvazione. "In questa piccola e remota città del mezzogiorno, scrive il Masini, soffocata dalla calura estiva e da una non meno pesante coltre di arretratezza, il dibattimento riuscì ad interessare e commuovere le popolazioni locali, suscitando grande simpatia intorno agli imputati e alle loro idee. Anche perché in quel mese di agosto del 1878 l'eco di drammatici eventi - come l'uccisione avvenuta ad Arcidosso il 18 agosto del "profeta" Davide Lazzaretti e di tre contadini suoi seguaci ad opera dei carabinieri - si ripercuoteva nell'aula di Benevento confermando una situazione sociale carica di rivolta, sia pure espressa da briganti o da visionari, alla quale gli internazionalisti avevano cercato di dare con la loro iniziativa uno sbocco politico rivoluzionario. Il giorno di inizio del processo la città è attraversata come da un brivido di commozione. C'è una grande animazione nelle strade; un trascorrere di voci e sussurri; la gente si incontra, si intende, si agita. L'impressione è quella di un pericolo, che il dispiegamento della forza pubblica rende ancora più sensibile. Il percorso che va dal carcere al tribunale è tutto pattugliato da truppe di linea. Gli imputati lo attraversano, manette ai polsi, tra quaranta carabinieri, con la baionetta inastata, sfilando come dominatori. "Sono tutti vestiti con decenza, si legge in una corrispondenza, qualcuno con eleganza; hanno l'aria di chi vada a festa e sorridono a manca e a destra, dovunque incontrino uno sguardo che li cerchi amichevole, dovunque trovino una faccia commossa di donna o di fanciulla. I ventisei anarchici, quasi tutti giovanissimi, non hanno altri precedenti che una vita di fede, di sacrificio e di coraggio. Carlo Cafiero, alto e bello, elegante ed eloquente, sembra torreggiare accanto ad Enrico Malatesta, di ventiquattro anni, piccolo e bruno, occhi neri, tutto fuoco interiore ed intelligenza. Il processo ha inizio con la lettura dei diciannove volumi compilati dal giudice istruttore: una lettura faticosa e stentata. Il cancelliere inciampa e cade soprattutto nell'impatto con i nomi stranieri. Si ferma ogni tanto, prende fiato, smania, suda. Tanto più che la pazienza dei prigionieri crolla ogni volta che egli è costretto a pronunciare la frase "lascivia di sangue" quale motivazione dell'omicidio. Carlo Cafiero, ad un certo punto, sente la necessità di intervenire. "Ho bisogno di darvi una spiegazione, dice: non è l'aver sparso il sangue dei carabinieri che ci fa onta; ma l'accusa per averlo fatto per lascivia di sangue. Se noi avessimo uccisa un'intera legione di carabinieri in combattimento, noi non ce ne sentiremmo offesi; ma quando ci si dice che abbiamo ucciso pur una mosca per lascivia di sangue la nostra coscienza si ribella a questa accusa". Per questa ragione, tutti gli imputati oppongono al presidente della Corte d'Assise uno sdegnoso silenzio sulla materia specifica degli addebiti, mentre si dicono pronti a fornire ogni chiarimento sulle finalità dell'Internazionale, di cui si dichiarano militanti. Nelle parole di Carlo Cafiero che è il corifeo del dramma processuale la Prima Internazionale si configura come la chiesa del comunismo universale, del quale il primate italiano appare Andrea Costa: il suo scopo fondamentale non è la distribuzione della proprietà, ma l'uso collettivo di essa nella federazione delle associazioni produttive, fuori da ogni sistema gerarchico, lungo una linea orizzontale di rapporti sulla quale non può correre altro ideale che quello della fratellanza, agli antipodi della società capitalistica, che, come aggiunge Malatesta, non dà alternativa agli uomini tra l'essere vittime o carnefici, per cui gli internazionalisti, rifiutando questo tragico dilemma, non hanno altra speranza che la demolizione della causa fondamentale della degradazione umana: l'eliminazione cioè della società degli oppressi e degli oppressori. Questa utopia affascina anche i difensori, ma travolge soprattutto l'avvocato Francesco Saverio Merlino, un giovane di ventuno anni, che penetra così intimamente nel credo dei prigionieri da diventare uno di loro, dando espressione appassionata e coraggiosa al loro pensiero. Nato a Napoli da una famiglia di giuristi e uomini d'ordine, educato religiosamente dagli scolopi, insieme con Enrico Malatesta, egli arriva al processo di Benevento come l'arcangelo dell'idea anarchica, tra difensori di mestiere come Nardoneo, Barra, Barricelli, in antagonismo con un pubblico ministero, Eugenio Forni, già questore di Napoli, dalla mentalità poliziesca, per il quale la famiglia e la proprietà, pilastri della civiltà romana, sono la sola garanzia dell'ordine e della giustizia. La tesi del pubblico ministero, a parte la retorica dell'ideologia conservatrice, consiste nel dimostrare che responsabili di omicidio non sono soltanto gli autori materiali del ferimento, peraltro mai individuati, ma tutti i membri della banda del Matese, concorrenti solidarmente nell'attuazione dei crimini, consapevolmente e volontariamente; e che, una volta acclarata questa responsabilità collettiva, il reato non ha nulla di politico, e quindi non è soggetto alla legge dell'amnistia, ma ha tutti i caratteri di un crimine compiuto, non già per scopo di insurrezione, ma per libidine di sangue. Una requisitoria, questa, che è un capolavoro di incongruenza: da una parte si parla di attentati alla sicurezza dello Stato e di reati di ribellione; dall'altra si contesta il fine politico degli atti delittuosi. Perciò i giurati tagliano il nodo delle contraddizioni rispondendo negativamente alla prima domanda sulla morte del carabiniere. Così i prigionieri sono dichiarati innocenti e la morte del carabiniere è attribuita a causa sopravvenuta. La seconda domanda (se l'omicidio rientri nel reato di insurrezione e come tale sia suscettibile di amnistia) cade per effetto di conseguenza logica. Dopo la lettura della sentenza, nella sala scoppia un battimano. Un processo come questo per ogni provincia e il governo si può impiccare con le proprie mani. Gli accusati, messi in libertà, scendono in piazza e si recano al carcere seguiti da una folla di circa duemila persone: "le quali non nascondono la loro simpatia per gli assolti. Alle cinque, sempre in mezzo alla stessa calca, si conducono alla Trattoria del Sannio. La folla li aspetta come li aveva aspettati al carcere. Dopo il pranzo scendono e vengono acclamati nuovamente. Quest'oggi Benevento è in festa. Essa ha smentito la sua fama di città retriva e clericale. E certamente, se si guarda al comportamento del popolo nella sua elementare umanità, è così. La città dimostra un senso di solidarietà per i rappresentanti del movimento anarchico veramente toccante, di cui si fa eco, durante la celebrazione del processo il corrispondente locale del giornale napoletano, "Il Corriere del Mattino", di sentimenti anarchici come un po' tutti i socialisti della Prima Internazionale (Pasquale Martignetti ?). Ma è solo una folata di vento che passa senza lasciar traccia. Il destino del mondo contadino, chiuso il processo, si chiude anch'esso come un cerchio mortale. Prima il brigantaggio senza strategie e senza capi; ora il comunismo anarchico, senza percezione della realtà, apre la porta all'utopia. L'anarchia sembra, indubbiamente, aver capi di alto livello: ma vengono da lontano e vanno ancora più lontano. Quanti nomi di principi russi! Uomini generosi, ardenti, entusiasti, non hanno la percezione dei confini della realtà: sono, per così dire, affetti da presbiopia intellettuale: vedono chiaramente lontano, là dove splende l'isola del sogno, la città dell'avvenire, la Gerusalemme celeste; non vedono la realtà che hanno sotto gli occhi: si lasciano sfuggire i problemi reali per amore dei regni ideali: un sublime tradimento del realismo e dello storicismo marxiano. Ci sono anche le tragedie, ma si tratta di disegni fantastici, creati sull'onda del desiderio da una immaginazione onirica. Eppure è proprio la visione del sogno che suscita un fremito di elevazione nelle plebi beneventane: è l'idea di un'epoca divinamente eroica che accende le speranze più assurde. La città vive di riflesso questa esperienza esaltante; ma, subito dopo il processo, ritorna alla sopportazione rassegnata di un regime che ormai ha imparato a risolvere i problemi sociali con l'uso della forza e a imporre la logica delle istituzioni unitarie come l'unica soluzione possibile dei suoi mali.

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