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VITERBESE (Tuscia)

Risorgimento e Brigantaggio

Il Risorgimento

da:http://www.isa.it/tuscia/storia/oggi2.htm

Anche se può stupire, la Viterbo dell'800 è stata una città "rivoluzionaria per eccellenza": prima della definitiva annessione al Regno d'Italia la città si affrancò dal governo pontificio per ben tre volte nel '49, nel '60 e nel '67. Centinaia di viterbesi combatterono nelle guerre di indipendenza o furono costretti all'esilio ad Orvieto, Perugia, Siena, Firenze, Bologna ogni volta che, svanite le speranze di libertà, veniva restaurato il governo pontificio. Anche tra gli esuli viterbesi si erano delineate due diverse tendenze: quella sabauda a favore di una via diplomatica all'unità d'Italia e quella democratica che auspicava l'azione dei volontari. Una delegazione di viterbesi si recò fino a Parigi per sostenere l'ammissione della città all'Italia e un plebiscito per l'unificazione fu tenuto clandestinamente durante l'occupazione dei francesi e dei pontefici. Si possono citare nomi di famiglie patriottiche come Mangani, Bazzichelli, Vanni, Papini, Carnevalini, Battaglia e Polidori. Ed è testimonianza di questo fermento, forse poco spettacolare ma che serpeggiava nella città, la persecuzione che finiti i brevi periodi di libertà, colpiva parenti e amici dei patrioti esuli. Lo stesso vescovo Cardinal Pianelli, dopo i fatti del '60, fu richiamato a Roma ed assegnato ad altro incarico "a causa della eccessiva remissività nei riguardi dei rivoltosi". Il 1848 è l'anno delle Rivoluzioni in Europa e in Italia, dove il fallimento della guerra federalista prima, e di quella sabauda di Carlo Alberto poi, favoriranno la ripresa del partito democratico in Sicilia, in Toscana, a Brescia e a Roma. Qui il triunvirato Mazzini, Armellieri, Saffi proclama il 9 febbraio la Repubblica Romana. Contro la repubblica convergono subito tutte le potenze cattoliche cui Pio IX ha fatto appello. Dopo una disperata resistenza la repubblica cade il 4 luglio '49. Viterbo è coinvolta solo marginalmente nell'avvenimento, ma alla difesa di Roma partecipa un pugno di viterbesi fra cui Prospero Selli, Giustino Giustini, Evaristo Casanova. Muore a 26 anni Francesco Caprini, mentre "fu caldo repubblicano", pur senza compromettersi con una attiva partecipazione, anche Angelo Mangani. A ricordare gli eventi del '49 ci sono documenti molto interessati. Nel giugno il geometra Arciari chiede aiuti per la battaglia di Roma "agli abitanti delle Provincie della Repubblica Romana". Ancora in giugno Ricci nominato Preside della Provincia di Viterbo trascrive la lettera che Prospero Selli invia al padre " i cannonieri viterbesi con altri hanno loro (i francesi al servizio del Papa) smontato quattro pezzi di artiglieria". Ma già il 10 luglio '49 un proclama del generale francese Moreis annuncia la sua venuta a Viterbo per ordine del generale Oudinot ed è del 20 luglio l'ordine bilingue del generale Moreis "Il governo del Sovrano Pontefice è ristabilito, tutte le insegne della Repubblica daranno immediatamente luogo a quelle di papa Pio IX". Il 10 agosto una commissione è incaricata di "provvedere al disarmo dei viterbesi". Il 30 agosto la Compagnia dei Carabinieri Pontifici segnala che in Viterbo nel "caffè al Corso n. 101" e in case private si leggono giornali "incendiari" quali l'Opinione di Torino e l'Avvenire Toscano. Il 7 settembre "Si proibisce al Teatro Genio la continuazione dell'opera lirica La Vestale, perché le allusioni all'antica Repubblica Romana avevano dato (il 6 settembre) eccitamento a qualche disordine dal lato di alcuni individui di ancora troppo calda reminiscenza della estinta ultima repubblica". Al ritorno del governo Pontificio cominciarono le persecuzioni dei sospetti. Vengono rimossi i funzionari compromessi, perseguiti gli esuli e le loro famiglie. L'Amministrazione Comunale comprenderà due deputati ecclesiastici e quattro canonici. Graverà sui cittadini una sovrimposta di 7000 scudi. A quel tempo la provincia contava circa 128.000 abitanti ed il suo ordinamento, tranne le brevi parentesi del 60 e 67, rimarrà invariato fino all'unificazione al Regno d'Italia. Vanno anche ricordati alcuni nomi del centinaio di viterbesi che già nel '48 erano accorsi ad aiutare le popolazioni insorte del Nord fra i quali: Cesare Bertarelli, Francesco Canevari, Giovanni Pagliacci, Luigi Savini. La politica di Cavour mirante ad indurre gli Italiani a riunirsi, attraverso un'azione diplomatica, intorno ad un programma di monarchia costituzionale, è interrotta nel 1959 dalla II guerra di indipendenza che vede il Piemonte alleato alla Francia. Il conflitto quando ormai le operazioni militari avevano assunto un andamento favorevole è improvvisamente interrotto all'Armistizio di Villafranca offerto da Napoleone all'Austria. Seguirono le annessioni per plebiscito della Toscana e dell'Emilia mentre il Piemonte cedeva in compenso a Napoleone Nizza e la Savoia. Il Papa lanciava la scomunica contro chi aveva occupato i suoi territori e preparava un esercito di mercenari stranieri, comandato dal generale francese Ramosiciere, per difendere il potere temporale. Il 1860 sarà l'anno dell'impresa dei Mille che porterà all'unificazione del Regno d'Italia, proclamata il 17 marzo '61. Dieci giorni dopo un dibattito parlamentare voluto da Cavour porta all'acclamazione di Roma capitale. E' qui il caso di fare la cronistoria di un anno particolarmente tormentato per la Città. Il 17 settembre '60 il comandante militare pontificio proclama lo stato di assedio nella provincia di Viterbo. Il 21 settembre il colonnello Masì comandante di una colonna di volontari detti Cacciatori del Tevere, avendo già occupato Orvieto, entra in Viterbo e annuncia la costituzione di una Commissione Municipale Provvisoria per il Governo della Provincia formata da Emanuele Martucci, Filippo Salvatori, Flaviano Polidori, Carlo Savini, Palemone Giannini, Angelo Mangani, Angelo Viviani. Il 22 settembre il Comitato segreto di insurrezione della Città e Provincia di Viterbo dichiara decaduto lo Stato Pontificio. Il 9 ottobre la Commissione Municipale di Viterbo protesta contro l'intervento delle truppe francesi. L'11 ottobre i soldati francesi rientrano in Viterbo. Seguirà una spietata repressione contro i patrioti, mentre vengono redatte liste di persone sospette di essere "caldi fautori del partito rivoluzionario". Molti prendono la via dell'esilio, passando il Tevere e rifugiandosi nell'Umbria ormai libera. Anche il tentativo di Garibaldi di marciare su Roma nel novembre del 1867, finito con l'infausto episodio di Mentana, ebbe ripercussioni su Viterbo. Dopo la terza guerra di indipendenza, conclusa con l'umiliante pace di Vienna il 3 ottobre '66, i Democratici e il Partito d'Azione ripresero ad agitarsi violentemente per la soluzione della questione romana. Rattazzi, primo ministro del Regno d'Italia, pensò di risolvere la questione dando mano libera a Garibaldi. Intanto a Roma era stato predisposto un moto insurrezionale al comando di Enrico e Giovanni Cairoli, facilmente sopraffatti a Villa Glori, malgrado l'eroica resistenza, dal preponderante numero dei militari pontifici. Garibaldi il 24-26 ottobre si impadroniva di Monterotondo, ma i francesi sbarcati a Civitavecchia e armati di Chassepots, i nuovi fucili a retrocarica, lo sconfiggevano a Mentana il 3 novembre. Proprio nel corso di queste vicende Viterbo, per il breve periodo che va dal 28 ottobre al 7 novembre fu libera per la terza volta. Venne costituita una Giunta Comunale composta dal Conte Francescano Gentili, da Francesco Carnevalini, Ermenegildo Tondi, C. Vitarelli, F. Papini, Alessandro Pollidori, Pietro De Rossi e Giustino Giustini. I fatti di questi brevi ma febbrili giorni meritano un più ampio spazio. Il tentativo di Garibaldi venne infatti sostenuto da un contingente di volontari comandati dal generale Acerbi le cui avanguardie nella notte tra il 28 e il 29 settembre raggiunsero Soriano, Bomarzo, Grotte S. Stefano, mentre altri nuclei, occupate Ischia di Castro e Farnese, puntavano su Canino e Valentano. L'unico fatto d'armi di una certa importanza fu quello che tenne impegnati per tre giorni i soldati pontifici a fronteggiare i garibaldini asserragliati in Bagnoregio. La colonna Acerbi tentò di occupare Viterbo il 26 ottobre. Ed è questo un episodio interessante anche perché la cronaca dei fatti è diversa asseconda che si senta la parte garibaldina o pontificia. La rivista Civiltà Cattolica sostiene che i soldati pontifici "se non avessero avuto a fronte le truppe irregolari di Vittorio Emanuele II, fino allora da essi combattute e respinte, non avrebbero certamente abbandonato un palmo di territorio" ed aggiunge a giustificare l'abbandono temporaneo di Viterbo che oltre al progressivo accrescersi dei garibaldini "scorgevasi imminente il passaggio delle truppe regolari per compiere l'invasione cominciata dalle irregolari in nome di quel Re". Una testimonianza di opposta tendenza che ha l'immediatezza della cronaca è quella della Gazzetta di Viterbo del 3 novembre '67 probabilmente redatta da un protagonista dell'attacco dei garibaldini. "Dopo una lunga e faticosa marcia giungemmo a Viterbo a un'ora dopo di notte. Dovevamo girare intorno alle mura ed entrare da un luogo non guardato e indifeso. Questa operazione però venne impedita da una pattuglia di dragoni pontifici usciti da Porta Fiorentina. La pattuglia fu arrestata, e dopo una scarica dei nostri, volse in fuga verso la città, ma i nostri incalzarono il nemico fino alle porte e avrebbero certamente penetrato nella città, se la pattuglia non fosse stato a cavallo. Tosto si chiusero le porte. Non valsero gli sforzi dell'egregio capitano signor Barbieri allora sopraggiunto, per mettere fuoco a Porta Fiorentina imperciocchè, dal di sopra, venivano gli zuavi a spegnerlo con acqua e gittavano sassate sui nostri che lavoravano di sotto. Convenne rivolgersi a Porta Verità e questa fu presto accesa ed arsa, e il signor maggiore De Franchis tentando entrare in città e un frate della Quercia che era sua guida, fu colpito da cinque palle a un tempo. Il generale veduto essersi resa impossibile l'entrata per non poter conoscere le forze del nemico che manteneva un fuoco continuato da tutte le parti , stimò opportuno ritirarsi alquanto per riordinare i suoi e attendere l'alba del 25; ma saputo di poi che sarebbero giunti i presidi pontifici di Montefiascone e di Bagnorea per rinforzare il nemico, onde non compromettere l'intera colonna, stanco per la lunga marcia di tre giorni e i disagi patiti nel cammino, si ritirò". Mentre quindi da parte democratica lo scontro del 24 ottobre viene considerato determinante per gli ulteriori sviluppi, da parte papalina si sostiene la decisione di non abbandonare il territorio se ci fossero state in aiuto le truppe regolari di Vittorio Emanuele II. E ancora una testimonianza viene dal Sommario di Angelo Signorelli la cui edizione fu curata con grande attenzione dal prof. Bruno Barbini nel 1978. Il Signorelli al contrario di quanto aveva fatto nel '60 e di quanto farà nel '70 in questa circostanza non si impegna in prima persona ma lascia un ampio racconto dei fatti. "Il 23 ottobre il generale Acerbi si incontra a Celleno con una deputazione di progressisti viterbesi che si dichiarano pronti ad insorgere nel Piano di Faul in appoggio al contemporaneo attacco notturno dei Garibaldini. Ma ben pochi cittadini furono presenti al convegno, ne la campana del Comune fece udire, in segno di rivolta, i suoi rintocchi a storno. Scontratisi i dragoni pontifici con i garibaldini sulla via Teverina, quelli ebbero un morto e due feriti: il disordinato attacco ad alcuni punti della città fu respinto a colpi di fucile, dal lancio di pietre e dal getto di secchi di acqua bollente. Allora i Garibaldini incendiarono i battenti di porta della Verità, aprendo una breccia nella sommaria difesa: il maggiore Luigi De Franchis, comandante degli assalitori, inviò i Priori del Convento Minorita del Paradiso e quello Servita della Verità a trattare la resa presso il Cardinale Gonnella. Dichiarata questi la sua incompetenza in merito e rifiutatosi fermamente il comandante della guarnigione pontificia di parlamentare, il De Franchi avanzò tra le rovine dell'incendio preceduto dal trombettiere Gioacchino Illuminati, agitando con la mano sinistra un fazzoletto bianco e stringendo a se con la destra un frate Servita, per dimostrare la sua pacifica intenzione. Fattisi avanti di alcuni passi, il maggiore e il trombettiere venivano uccisi da una raffica di moschetto, il frate ferito moriva dopo 3 mesi all'ospedale mentre alcuni altri garibaldini erano fatti prigionieri. Sembra che il generale Acerbi, rimasto anch'egli ferito, dopo aver constatato l'assenteismo completo dei viterbesi con dolore rinunciasse, sul momento, a proseguire l'azione. Ma, grazie all'improvviso richiamo a Roma della guarnigione pontificia della Piazza, la sera del 28 ottobre, preceduti dalla banda cittadina, i Garibaldini facevano gioioso ingresso a Viterbo. Il generale Acerbi prendeva residenza nel Palazzo di Governo, confermandosi "prodittatore di Garibaldi" con l'invito ai cittadini di pronunciare i loro desideri attraverso un libero voto. Un resoconto anonimo sul plebiscito del 4 novembre attesta che i voti favorevoli all'insurrezione furono 4.697. La questione romana trovò la soluzione dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan. Non sentendosi più vincolato dalla Convenzione di settembre Vittorio Emanuele II scrisse al Papa una lettera invitandolo a rinunciare spontaneamente al potere temporale. Di fronte al diniego del Pontefice il governo italiano inviò a Roma le sue truppe al comando del generale Raffaele Cadorna. Il 12 settembre 1870 le divisioni italiane entrarono nel viterbese . Il corpo comandato dal generale Cadorna entrò da Borghetto, mentre Nino Bixio penetrava da Orvieto e il generale Ferrero da Orte. Dopo pochi colpi di cannone capitolò anche il forte San Gallo di Civitavecchia. Otto giorni dopo il corpo di spedizione sarebbe entrato a Roma da Porta Pia. Il 2 ottobre furono fatte le votazioni per l'ammissione il cui esito fu comunicato al popolo il 3 ottobre dalla loggia del Palazzo del Comune tra suono di campane, sventolare di bandiere e luminarie. Il Plebiscito diede per il capoluogo i risultati seguenti: iscritti a votare 4.54; votanti 4.284; favorevoli 4.251; contrari 32; voti nulli 1. Il 24 dicembre fu eletto primo sindaco di Viterbo Italiano, Angelo Mangani. Il 15 ottobre successivo, con l'aggregazione di quasi tutto il Lazio alla provincia di Roma, Viterbo perdette la qualifica di capoluogo per la seconda volta dopo l'età napoleonica. La riavrà soltanto nel 1927 con la costituzione in provincia.

Il Brigantaggio

da: http://www.isa.it/tuscia/storia/oggi.htm

Nell'800 nelle regioni centro-meridionali d'Italia il brigantaggio fu una pesante e problematica realtà con radici e connotazioni diverse a seconda delle condizioni sociali e politiche in cui nacque e allignò. Nella memoria e nella tradizione orale della Tuscia alcune figure di briganti sono entrate a far parte di un certo patrimonio storico e ancora appassiona un giudizio su di loro. Brutali assassini, autori di estorsioni e violenze o una sorta di eroi dei poveri e diseredati contro i ricchi e i potenti ? Sta per certo che il brigantaggio nel Lazio prospera in una società misera e negletta, vessata da tasse e balzelli, oppressa da un governo ottuso e da una giustizia inumana e distorta dominata da pochi nobili e latifondisti. L'immagine di una Tuscia così lontana da quella in cui viviamo, può stupire, ma se ne trova notizia nelle descrizioni di Francesco Orioli che ricorda come, in alcuni paesi, la gente vivesse rintanata in caverne "insieme agli animali bipedi e quadrupedi" e come fossero vizi dominanti "la beveria e l'accoltellare" facendo valere la legge del più forte. Ippolito Taine notava come le dimore dell'alto clero fossero "in contrasto con la negligenza generale e le strade sudicie e impraticabili". Miseria, analfabetismo e superstizione erano mali comuni insieme alla malaria. Il brigantaggio poteva prosperare in una società dove i più elementari diritti erano negati. Solo marginalmente e in rarissime occasioni il brigantaggio nello stato pontificio, a differenza di quello meridionale, toccò la sfera politica. Quasi sempre il primo passo verso la latitanza e la fuga negli impenetrabili boschi era una dura condanna per un furto di bestiame, un delitto d'onore o una vendetta. La popolazione per paura, per legami di parentela o per convenienza, copriva con il silenzio le imprese dei fuggiaschi, braccati da una gendarmeria che non sempre aveva un cuor di leone. Ricorrono nei racconti di Viterbo i nomi di Ansuini e Menichetti, di Erpita, Pietro Rossi e Brando Camilli che ebbero Latera come teatro delle loro gesta, di Fumetta, Bustrenga e Marintacca che seminarono terrore e sangue nel territorio di Castro. Nella zona della Teverina si imposero Biscarini e Pastorini accolti poi nella banda di Tiburzi e Biagini, di gran lunga i più temuti. I fattori dei latifondisti venivano ricattati e costretti a consegnare forti somme di denaro. Altre volte erano presi di mira i ricchi nobili come il Conte Bufalari, il Conte Tomba, il Conte Leali o rapite belle giovani di cui si perdeva notizia. L'audacia dei briganti aumentava tanto più quanto si sentivano sicuri e impuniti. Capitò ad esempio al Conte Leali di vedersi arrivare in villa Biscarini e Pastorini che, tra lo spavento dei commensali, vollero partecipare al banchetto e se ne andarono tranquilli e indisturbati. Né le carrozze che transitavano sulle vecchie strade avevano miglior sorte ed erano di frequente assalite e depredate. Alleato dei banditi nel costringere i ricchi ed i loro fattori a cedere ai ricatti era "l'avvocato Prospero" (fosforo) così erano chiamati i fiammiferi con cui si appiccava il fuoco ai covoni di messi e ai casali con danni ben più gravi del "pizzo". Estirpare la piaga del brigantaggio e per l'omertà e per l'andamento del territorio, non fu né facile, né di breve periodo. Non vi erano riuscite le truppe pontificie e quelle francesi durante l'occupazione, né miglior sorte ebbero le leggi speciali del Regno d'Italia. Certo fu una lotta crudele e cruenta, ancora oggi oggetto di studi e di analisi. D'altra parte il nuovo Regno non aveva apportato niente di nuovo per i diseredati: la terra era ancora in mano di padroni arroganti, la coscrizione obbligatoria toglieva giovani forze al lavoro dei campi, i cavalli erano requisiti per l'esercito, né le tasse diminuivano. Nei Cimini operarono, come abbiamo accennato, molti briganti di cui non è rimasta memoria popolare, ma certo feroci ed implacabili, tanto da essere temuti da vivi e disprezzati e odiati da morti. Meritano un discorso a parte alcune figure che sono entrate nella leggenda che ancora sopravvive e la cui personalità, piena di contrasti, merita una diversa attenzione. Sono questi Biagini e Domenico Tiburzi detto Domenichino le cui attività e connivenze furono sviscerate nel processo di Viterbo del 1893 che coinvolse in modo pesante tutti coloro che, in qualche modo, potevano avere aiutato in particolare Domenichino. Ben 271 abitanti della zona di Castro vennero imputati di favoreggiamento, ma i risultati non furono quelli che il governo Giolitti si sarebbe aspettato. Il Tiburzi, di famiglia poverissima, fin da ragazzo aveva subito lievi condanne per risse e furti di erba da pascolo, allora preziosa. Proprio a pascolare le bestie nei terreni del suo padrone, lo sorprese il fattore del Marchese Guglielmi. Invano Tiburzi lo supplicò di tacere, inginocchiandosi piangente davanti a lui, poi nel timore di perdere, a causa della denuncia, il posto di mandriano lo freddò con una fucilata. Solo un anno dopo, scoperto il delitto, Tiburzi fu catturato e condannato, grazie ad alcune attenuanti, a 18 anni di carcere duro da scontarsi nelle Saline di Tarquinia. Era il 1867. Sottoposto a indicibili sofferenze, lontano dalla famiglia, in cuor suo maturò forse il proposito di non provare mai più il carcere e predispose la fuga. Aveva conosciuto proprio in carcere il Biagini ed insieme tentarono di evadere riuscendoci prima il Tiburzi e dopo un anno Biagini. Si ritrovarono nella macchia dove ebbero come maestro di ribalderie David Biscarini, astuto nel dare scacco ai gendarmi. La presenza dei tre briganti, cui si era unito Pastorini, rintanati in una grotta presso il torrente Paternale, fu rivelata ai carabinieri il 10 dicembre del 1877 per un caso fortuito che merita ricordare. Due pattuglie dei carabinieri provenienti rispettivamente da Farnese e Canino, perlustravano le campagne quando incontrarono due bracconieri che vennero invitati a seguirli in caserma. Quando il brigadiere fece per mettere le manette, alle loro proteste rispose essere questa una normale misura in un paese di briganti. Al che uno dei due chiese che cosa avrebbero avuto in cambio rivelandone il rifugio. Ci fu una breve trattativa, al termine della quale il cacciatore indicò un filo di fumo che usciva nella valle proprio dalla grotta dove i compari si erano rifugiati. I carabinieri accerchiarono la costa, ne seguì uno scontro a fuoco. Tre dei briganti riuscirono a fuggire. Tiburzi, colto di sorpresa mentre asciugava i suoi panni al fuoco, scappò in mutande. Solo Biscarini, il capo, rimase nella grotta deciso a tutto. La scaramuccia sarebbe continuata a lungo e forse gli assalitori avrebbero avuto la peggio se il carabiniere Brunetti portandosi sopra la caverna non avesse fatto fuoco sul Biscarini che rimase ucciso. "Il fianco avea guarnito da una ricca fascia di seta dalla quale spiccavano un revolver e un pugnale forbito e lucente: indossava una camicia a quadri, pantaloni e gilet di panno nero e grossi stivali" così un anonimo scrittore di Valentano descrive il cadavere del brigante. Tiburzi diventò il capo riconosciuto dai suoi e dalla popolazione. L'episodio che lo vide fuggire in mutande, spesso ricordato al brigante dal Pastorini per metterlo in ridicolo, indurrà forse Domenichino a sfidare il compagno e, dopo aver buscato una lieve ferita, ad ucciderlo con un colpo di pistola. In breve tempo Biagini e Tiburzi si fecero una consolidata fama di abili estorsori, ricattatori e sequestratori. Le loro azioni non apparivano dettate da pura ferocia, ma dal disegno di accaparrarsi rispetto e timore della gente che certo, sulle loro gesta, veniva tessendo una leggenda. Una sorte particolare, una specie di pubblica esecuzione, era riservata a chi tradiva come accadde ad Antonio Vestri. Nella settimana santa dell'89 rientrava a Farnese con altri cinque legnaioli e due giumenti carichi di legname. Due individui sbucati dalla macchia ordinarono l'alt e lo uccisero con una scarica di fucile, poi lo sgozzarono e gli tagliarono la lingua di fronte agli atterriti testimoni, né risparmiarono i due somari "ceduti dai briganti al Vestri in pegno del suo manutengolismo per dieci anni". Per chi fosse sorpreso a parlare un po' troppo con le forze dell'ordine, giù botte da orbi e botte anche all'amante del Tiburzi sospettata di civettare con altri. Ormai il Tiburzi era il re del Lamone con dimora alla Roccaccia d'estate e in quel che restava dell'antica Castro d'inverno. Di qui partivano concisi bigliettini minatori per i fattori che non si facevano scrupolo di infierire sulla povera gente. Di qui partiva una... giustizia rapida, efficiente, senza processi né avvocati. Così Tiburzi diviene un "livellatore" togliendo a chi ha e dando a chi non ha. Per chi era abituato da sempre a dare lavoro e fatica senza compenso, ricevere qualche moneta o cibo per piccoli servigi era motivo di rispetto e considerazione. Per le ragazze soggette ancora allo ius primae noctis era gran privilegio essere riccamente dotate e debitamente accasate dal brigante. Questi episodi facevano di Tiburzi il vendicatore di tante sofferenze per i poveri, qualcuno in cui identificarsi e di cui essere orgoglioso. I due briganti vivevano così temuti dai potenti, rispettati dagli altri che ricevevano protezione e ricompense mai prima sperate. E' questo il periodo più tranquillo in cui godevano l'ospitalità dei grandi casali dopo 24 anni di vita all'addiaccio che aveva logorato la loro salute. Nell'agosto dell'89 il Biagini era insieme al nipote Luciano Fioravanti nella macchia di Gicciano, tranquilli perché il fattore del Marchese Guglielmi, Raffaello Gabrielli, avrebbe dovuto avvertirli della presenza dei carabinieri che invece li colsero di sorpresa. Il Fioravanti riuscì a fuggire, il Biagini ormai vecchio e malato fu stroncato da un colpo apoplettico. Tiburzi non perdonò il Gabrielli che dopo pochi mesi fu ucciso davanti a circa 120 mietitori. Intanto nel 1893 si celebrava a Viterbo il già ricordato processo, ma i due banditi continuavano a imperversare come prima. Tre anni dopo, nella notte del 24 ottobre '96, Domenichino, che da un lustro spadroneggiava tra la Toscana e la Tuscia, fu ucciso sulla soglia del casale Le Forane, mentre Fioravanti, il giovane gregario nipote dell'anziano Biagini, verrà ucciso nel 1900 dall'amico Gaspare Mancini. Qualcuno sul cadavere di Tiburzi si dice, versò una lacrima. Finiva un'epoca piena di contrasti e di violenze.

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