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BRIGANTAGGIO A VALLEDOLMO NEL 700 e NELL'800

da: http://www.vho.org/~granata/valledolmo/Valledolmo-ch10.html

I secoli XVII, XVIII e XIX furono in Sicilia densi di tumulti, di epidemie, di rivoluzioni, di carestie, di stragi e di atti intollerabili di banditismo. Se ad essi aggiungiamo i danni tremendi dei terremoti, i rischi delle strade e delle trazzere, le frequenti incursioni dei pirati algerini e le angherie di non pochi baroni disumani, potremo avere un'idea dell'agitata e sofferente società siciliana di quei tempi. La vita dei campi, soprattutto, era alla mercè dei ladri: i Diari di Mons. Gioacchini Di Marzo parlano spesso di briganti impiccati alle forche o strozzati lungo le vie solitarie dei feudi. Di quasi tutti questi malanni, per fortuna, andarono esenti gli abitanti di Castel Normanno, e ciò grazie alla saggia e forte condotta amministrativa dei Conti Cutelli e dei loro successori i quali con la loro presenza assidua nella baronia e con la loro generosa collaborazione con i valligiani riuscirono a tutelare i comuni interessi positivamente tra l'ammirazione dei paesi dell'intera Comarca castronovese. Non così avvenne nella vicina Alia. "dove sin dai primi anni del suo ripopolamento prevalse un nucleo di accattoni e di gente collettizia. con qualche facinoroso che nel nascente villaggio venne a cercare l'impunità e ne disturbò l'infanzia" (3). Caso unico e clamoroso di criminalità, se tale si vuole considerare e non atto di eroismo, fu l'assassinio del Conte Antonio Cutelli, ........ che a buon diritto dovrebbe giudicarsi "delitto d'onore". Neppure nella seconda metà del secolo XVIII, quando "avvenne l'esodo dei baroni dalle campagne che avevano preso in uggia, e comparve al loro posto il gabelloto, con tutte le prerogative e diritti di feudalità, il gabelloto, personaggio tristamente noto per le colpe e le responsabilità che gli vengono a ragione attribuite e sul piano economico e su quello del costume" (4), neppure allora, quando "i gabelloti badarono ad arricchirsi nel minore tempo possibile, imponendo nuovi contratti più onerosi, concedendo le terre in subaffitto, oppure creando nuove forme di colonia parziaria e materiata con carnaggi, cioè, con regalìe obbligatorie in vino, olio, agnelli e polli ", neppure allora - ripetiamo e sottolineiamo - i contadini di Castel Normanno o di Valledolmo soggiacquero a eccessivi soprusi di marca mafiosa (5). L'aumento costante della popolazione del tempo fa fede d'un benessere sociale ed economico delle famiglie contadine del luogo in continua ascesa: si ricordi col Maggiore Perni che Castel Normanno nel 1792 contava 4252 anime (6) e che i Riveli del Comune presentati alla Deputazione del Regno nel 1811 attestano con chiarezza meridiana che "quasi tutte le famiglie possedevano appezzamenti di terra e per i quali in maggior parte venivano pagati al titolare della baronìa censi in frumento" (7). I gravissimi disordini stessi scoppiati a Palermo nel 1820 e "accompagnati da numerose scorrerie nelle campagne della provincia, che portarono alla rottura delle comunicazioni tra la capitale e le altre città dell'Isola (8), non disturbarono la tranquillità e l'ordine pubblico di Valledolmo. Si dovrà arrivare quasi alla metà dell'Ottocento per imbattersi in un efferato delitto perpetrato nell'abitato di Valledolmo, vogliamo dire nell'assassinio del giovane valente avvocato Valentino Martina, antesignano, lo definisce il Dispenza, dell'indipendenza italiana e collega stimatissimo di Francesco Crispi e suo collaboratore nella fatidica opera del Risorgimento italiano" (9). L'origine del misfatto, a quanto ci è stato narrato da un novantenne degno di fede, deve ricercarsi nell'aria di superiorità con cui il giovane trattava la classe dominante del paese e soprattutto in una sua vera o sognata relazione intima avuta con una giovane avvenente di famiglia che contava tanto nel luogo. L'offesa gli sollevò contro la classe dominante che, a dispetto delle estreme cautele sue, con un perfido stratagemma, per opera di due amici traditori, lo fece assalire in casa e finire a coltellate nella stradetta di casa sua, facendo credere che era stato assassinato così barbaramente perchè autore della peste che mieteva vittime nel paese. A riprova dell'accusa si mostrava a tutti il barattolo dei germi dell'infame epidemia, che, poi, altro non era che un barattolo di sapone per barba! Delitto di mafia? Ci vuole una buona dose di malafede per ingozzarselo come tale. Il Dispenza, che passò sotto silenzio la tragica fine del Martina, scrisse di lui: "Se non fosse morto giovanissimo, la Patria avrebbe avuto in lui un eccezionale rappresentante e strenuo difensore politico" (10). Si era nell'anno di grazia 1848. Dopo il passaggio dal Regno borbonico a quello savoiardo il malcontento e la delusione delle masse contadine per la mancata applicazione della Riforma Agraria garibaldina, aggravati "dall'inerzia e inettitudine del Governo - scrisse Andrea Maurici - fecero esplodere il bubbone del malandrinaggio e della mafia, "il cui epicentro - dice il Pantaleone - era il territorio palermitano", e dove - al dire dell'on. Diego Tajani, la pubblica amministrazione aveva basato la propria autorità sul compromesso con la mafia alla quale chiedeva favori in cambio di protezioni e immunità!" (11). Ben più aderente al nostro assunto e meglio circostanziata è la esposizione della suddetta situazione offertaci dal Di Giovanni e che riferiamo testualmente (12). "Di questi tempi intanto la Sicilia, mentre si arricchiva della costruzione di alcune ferrovie e di altri miglioramenti materiali e intellettuali, veniva contristata da terribili crisi industriali ed agrarie, e da quel malandrinaggio che, dopo il 1860, invase le nostre campagne con disdoro delle riacquistate franchigie, turpemente contaminate da sì lurida lebbra. Celebri nella storia dell'umana nequizia rimarranno i nomi del calabrese Puglisi e dei nostri Cicero e Valvo di Montemaggiore Belsito, Rinaldi e Rocca di San Mauro Castelverde, De Pasquale da Alia, Riggio e Torretta da Burgio, Caprara da Sciacca, Leone da Ventimiglia, Nobile da Partinico, Sajeva da Favara, Alfano da Sambuca-Zambut e di altri che, a capo di ardite e feroci bande armate, misero lo spavento in tutto il paese che corre da Palermo a Girgenti, da Trapani a Caltanissetta, funestandolo con latrerie, ricatti e omicidi dal 1863 al 1877. Se non che alla fine dovettero soccombere, uno per volta, all'azione del Governo che, in qualche occorrenza, dové ricorrere a rimedi estremi" (13). In questa graveolente rosa di nomi, come ognun vede, non figura alcun malandrino o mafioso di Valledolmo dove i Sindaci del tempo, uomini di provata onestà, nulla avevano da spartire con i gerarchi della mafia ancora in erba, e dove non si trovava, con stupore del Prefetto di Palermo del 1863 "un locale anche piccolissimo da destinare ad uso di carcere per i detenuti vallelunghesi di transito" (14).

 

NOTE

(3) LUIGI TIRRITO, op. cit., pp. 473 e 474.

(4) MICHELE PANTALEONE, La mafia ieri ed oggi, Palermo, 1967.

(5) FRANCHETTI e SONNINO, La Sicilia, Firenze, 1876.

(6) MAGGIORE PERNI, op. cit., p. 532.

(7) LUIGI PAGANO, op. cit., pag. 30.

(8) G. DI GIOVANNI, op. cit., p. 89 ;

(9) P. DISPENZA, op. cit., p. 38.

(10) P. DISPENZA, op. cit., p. 38.

(11) M. PANTALEONE, op. cit., p. 9 ; DIEGO TAJANI, Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati il 12 giugno 1875.

(12) G. DI GIOVANNI, op. cit., p. 93.

(13) Sbaglia il Di Giovanni nell'attribuire ad Alia il bandito De Pasquale che, per la verità, era da Montemaggiore Belsito, ed era il terrore di Villalba, di Vallelunga, di Valledolmo, di Alia e di altri paesi vicini. Di lui Giuseppe Cipolla racconta: " Nell'estate del 1864, il Sindaco di Vallelunga don Vincenzo La Duca e il figlio Masi, nottetempo, si recavano a cavallo, armati di fucili, nella fattoria dell'ex-feudo Verbumcaudo, amministrato da don Vincenzo, quando, all'altezza del vallone omonimo, viene ad essi sbarrata la strada dal terribile bandito Gioacchino De Pasquale, il quale, trombone spianato, intima a don Vincenzo di consegnare il denaro richiesto. Il bandito, evidentemente nell'oscurità aveva scambiato il La Duca per un galantuomo di Villalba cui aveva chiesto una cospicua somma di denaro. Inutili le chiarificazioni del Sindaco: un fischio echeggia nella notte e, da una siepe, sbucano due gregari armati e bendati che puntano i tromboni sui due. Masi freme, le mani gli bollono e al grido del padre " Masi, spara! ", il figlio ventenne ingaggia insieme col padre un conflitto a fuoco e poi una tremenda colluttazione. Il De Pasquale cade ferito ad una spalla riverso per terra, i gregari sanguinanti fuggono, e Masi, saltato addosso al Giachino, che cerca d'impugnare l'arma cadutagli a terra, lo immobilizza definitivamente. Albeggia, ed alcuni contadini che si recano al lavoro nel feudo, accortisi dell'accaduto, chiamano in men che non si dica i gendarmi e il bandito viene arrestato. Il Governo di allora decorava della medaglia al valore civile i prodi don Vincenzo e il Tommaso per avere con il loro coraggio, con la loro forza e sprezzo del pericolo, eliminato un malfattore che incuteva terrore nelle nostre contrade attentando alla quiete delle famiglie". G. CIPOLLA, Storia di Vallelunga, Caltanissetta, 1972.

(14) Archivio di Stato di Palermo, Busta Carceri di Valledolmo, prot. 4338.

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