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FRANCESCO FERRARI E IL RISORGIMENTO IN MAMMOLA

di: Stefano Scarfò

da: http://www.comunemammola.it/servizi%20culturali/150%20Ferrari.htm

Gentili signore e signori, questa di oggi, potrebbe sembrare, a distanza di 150 anni dal martirio, una alquanto tardiva commemorazione dell'eroe FRANCESCO FERRARI, invece è, a tutti gli effetti, una giusta rievocazione, anzi una vera e propria riabilitazione morale, civile e politica di un uomo coraggioso e leale che la malvagia faziosità del regime borbonico fece di tutto per far passare uno scontro a fuoco a viso aperto, un ardito combattimento, per una vile imboscata perpetrata ai danni di pacifici militari dell'esercito borbonico intenti ad una normale perlustrazione. E questa infame menzogna, purtroppo, ebbe il sopravvento sulla verità storica che presentò Francesco Ferrari come delinquente abituale e cinico omicida. Non si spiega altrimenti il silenzio ordito intorno alle eroiche gesta di questo illustre mammolese dimenticato dai suoi stessi paesani, anche dopo l'Unità d'Italia, e che era tutto, tranne che un volgare assassino. Ma per fare emergere dalle nebbie dell'oblio la vera figura e l'opera stessa di Francesco Ferrari, per apprezzare l'uomo, il patriota, il letterato, è necessario scavare tra le non molte notizie che la storia ci ha tramandato, partendo dalla sua famiglia nella quale si viveva un clima decisamente antiborbonico e liberale. Egli, infatti, nasce nel 1802, in un casato di antico lignaggio che aveva vissuto con entusiasmo partecipativo la nascita della repubblica partenopea e che subì poi le angherie della restaurazione sanfedista. Ovviamente, nel successivo periodo della dominazione francese, con i re Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, pur con le inevitabili sopraffazioni dei transalpini che sono in tutto e per tutto truppe di occupazione, accettano le illuminate riforme che preludono alla conquista delle libertà secondo i principi della rivoluzione francese. E' in questa particolare situazione che Francesco Ferrari getta le basi per la sua formazione politica, ma la svolta decisiva la compie a Napoli frequentando quell'università per conseguire la laurea in legge. Ha appena 18 anni, nel momento in cui i due tenenti dell'esercito, Silvati e Morelli, inalberano a Nola il vessillo della libertà e marciano su Napoli al grido di ""Viva il Re, vogliamo la costituzione"". E' la svolta per il mammolese che viene preso definitivamente dalla piega dei movimenti insurrezionali che con il passare del tempo lo coinvolgeranno sempre più fino allo scontro finale. Non sappiamo con esattezza in che modo si sviluppò la sua effettiva partecipazione, stando alle poche notizie trasmesseci dal prof. Raffaele Agostino, storico mammolese della seconda metà dell’8OO, il suo impegno fu notevole e non pochi furono i viaggi da Napoli a Mammola per propagandare le idee massoniche e della carboneria alle quali aveva aderito frequentando l'ateneo napoletano. Napoli era lo sbocco naturale per la nobiltà, la borghesia e l'artigianato più emancipato di Mammola, gli scambi culturali, economici ed umani erano frequenti e la metropoli campana, allora una delle città più importanti d’Europa, esercitava sui mammolesi un fascino ed una grande influenza, soprattutto politica. Dal vecchio borgo partivano a tarda sera, a dorso di mulo o di cavallo, percorrevano la salita della montagna Scali, arrivavano a Mongiana scendevano giù per Sorianello, Soriano, arrivavano a Pizzo Calabro da dove, alle prime luci dell'alba, si imbarcavano su una goletta e dopo un'intera giornata di navigazione, se il tempo era favorevole, raggiungevano la città del Vesuvio. Come si vede, le comunicazioni erano molto più veloci di quel che oggi si possa pensare, non era molto veloce l’opera di persuazione alle nuove idee di tanti mammolesi restii ad accettare il rinnovamento ideologico e sociale per la ferma opposizione di buona parte del clero. Il prof. don Domenico Zangari, noto filologo e ricercatore insigne, dice che nel 1834, su 5.701 abitanti, c'erano 76 preti, per la maggior parte incolti, dediti al lavoro dei campi, i coltivatori diretti dei nostri giorni, che si opponevano a ogni forma di progresso, in modo particolare osteggiavano tutto ciò che si ispirava ai principi della rivoluzione francese. In un ambiente cosi ostile fu una grande fatica per il giovane avvocato ottenere risultati positivi ed immediati, questi vennero quando riuscì a conquistare alla sua fede un personaggio di cultura elevata come lo scrittore don Antonio Albanese, filosofo e sacerdote che abbracciò con amore profondo le idee liberali. Naturalmente, l'Albanese subì la persecuzione della chiesa che ben presto lo ridusse allo stato laicale, però nessuna punizione riuscì a bloccarlo, anzi si sentì di più legato al Ferrari e a tutti i professionisti e agli artigiani che si erano votati al liberalismo. Nacque ufficialmente la Loggia massonica che fu denominata ""la valle della Viola"" le cui origini, secondo quanto scrive la ricercatrice Rosalia Cambareri nel suo libro ""la Massoneria in Calabria"" ascenderebbero al 1801 e verso il 1850 la loggia mammolese era una delle più importanti ed ebbe vita fino a prima del fascismo. I liberali cominciarono a svolgere un intenso lavoro sotterraneo, difficile e pericoloso, allacciarono forti rapporti con i cospiratori dei paesi limitrofi creando una vasta rete di rivendite carbonare, il loro punto di incontro era stato fissato nella vecchia e millenaria grancia basiliana, ormai deserta da che gli ordini monastici erano stati soppressi, prima dai francesi, e poi dagli stessi borboni. Col favore delle tenebre e nella più assoluta segretezza vi convenivano gli adepti, ma questi strani movimenti non passarono inosservati, tanto è vero che in paese si diffusero delle strane dicerie, si disse che erano briganti che preparavano i loro assalti. Maestro Giuseppe Lucà, uno dei maggiori poeti dialettali mammolesi, quello che io reputo la memoria storica mammolese, morto nel 1946, a cent'anni, riferiva per averlo appreso da suo padre, che quei moti non erano dovuti a briganti, ma a preti spretati, galantuomini e artigiani che preparavano la rivoluzione. L'alfiere di tutta la cospirazione, ovviamente, era il Ferrari, sorretto dall'azione potente e dalla illuminata cultura di don Antonio Albanese, considerato la mente, molti dei manifesti eversivi erano dovuti alla sua penna, ma il nostro non era da meno per audacia, violenza nell'attaccare le istituzioni, era lui in prima fila ad affiggerli sulle cantonate. Comunque, non è un'azione rivoluzionaria localizzata al solo territorio di Mammola, essa si è allargata ai paesi della Piana come Polistena e Cinquefrondi e si può senz'altro affermare che un solido collegamento c'era con Siderno, tanto è vero che durante i moti dei 5 Martiri di Gerace, un grosso personaggio come il Falletti, sidernese, si trovava a Mammola dove avrebbe dovuto sventolare il tricolore se la sommossa avesse avuto migliore fortuna. Purtroppo, l'insurrezione fini nel peggiore dei modi, non si affievolì lo spirito battagliero dei mammolesi, anzi trovò nuova linfa e un nuovo vigore, perché i patrioti intendevano vendicare gli innocenti martiri di Gerace. Le autorità paventavano una sommossa in Mammola e per tale motivo piombò nella cittadina il generale Nunziante pronto a scatenare le soldatesche e si deve all'azione moderatrice di Nicodemo del Pozzo, notabile borbonico di provata fede ed intimo amico del Nunziante stesso se furono risparmiate delle tristi conseguenze alla popolazione civile. Si disse che i mammolesi erano rimasti a guardare mentre Michele Bello e compagni marciavano lungo i paesi delle marine nella speranza di coinvolgere le popolazioni, Mammola fu detta codina per l’acquiescenza alle autorità clericali, mai, però, un simile titolo fu tanto falso e offensivo, quando si pensi che nel millenario borgo era fiorita una delle più forti logge massoniche a contatto con la quale lavoravano diecine di carbonari e non passava notte che i muri del paese non fossero pavesati di manifesti antiborbonici, gli stessi avvocati difensori dei 5 martiri erano di Mammola e tutto ciò sta a dimostrare l'effettiva volontà di molti mammolesi di contrastare, con ogni mezzo, la politica retriva dei borboni. Tra i numerosi fautori dei moti carbonari vanno ricordati: Don Antonio Albanese, insigne oratore sacro, Scali Giuseppe, proprietario, Larosa Bruno, diacono, Agostino Carmelo, medico, Agostino Giuseppe, avvocato, Piccolo Fortunato, farmacista, Piccolo Stefano, proprietario, Piccolo Domenico Sacerdote, Lamanna Carmelo, avvocato, Scali Nicodemo, avvocato, e uno stuolo di artigiani illuminati, libertari per vocazione, insomma, l'intellighenzia mammolese che si batté con coraggio, sfidò il regime fino all'arresto e alla condanna. Da non dimenticare un altro figlio illustre di Mammola dello stesso tempo, don Giuseppe Lamanna, liberale, che insegnò nell'Università di Napoli e si elevò a grande notorietà, ebbe fama di grande letterato, secondo quanto narra don Antonio Albanese che fu suo discepolo, così come lo furono gli infelici Michele Bello, Gaetano Ruffo e Carlo Pisacane che alla scuola del Lamanna acquisirono gli onori per le opere d'intelletto e d'ingegno e da cui ereditarono il grande sentimento di patria che doveva trasformarsi in eroico martirio. La fine tragica dei 5 martiri che avevano voluto immolare la loro vita sventolando il tricolore, acuì in modo determinante la situazione politica in Mammola e il Ferrari fece di tutto per dare un'accelerata alle azioni sabotatrici e alla propaganda antigovernativa. Dopo anni di militanza carbonara avverte che bisogna cambiare la vecchia metodologia dei carbonari stessi che sono arroccati su posizioni municipalistiche, il nostro eroe compie una radicale evoluzione sposando le idee mazziniane che parlano di libertà e di indipendenza dallo straniero. Il suo nuovo modo di combattere, infatti, si adegua a questi principi fondamentali, lotta ancor più contro i borboni che considera stranieri, come Mazzini è repubblicano, cosciente che solamente la repubblica libera e democratica dalle Alpi alla Sicilia, può garantire la libertà politica e la libertà dal bisogno. Pur continuando la battaglia notturna dei manifesti sovversivi, compie assieme ai suoi amici, un grave gesto, ritenuto tale dagli sbirri del regime e, siccome era in atto una mobilitazione militare, divelle la cassetta della leva e la butta nel letame, accompagnando il tutto con un manifesto contro l'arruolamento che avrebbe portato i nostri giovani al servizio degli austriaci. Il manifesto fu definito incendiario e i sospetti furono rivolti a quella frangia di teste calde, tra le quali il maggiore indiziato è lui, Francesco Ferrari, e la polizia aspetta solo di coglierlo in flagrante per arrestarlo e troncare i conati insurrezionali. Viene portata avanti una capillare caccia all'uomo da parte della forza pubblica con l'ordine di sparare, anche senza preavviso e l'irreparabile avviene nella giornata del 14 febbraio I849, presso la località don Bartolo, dove si scontrano i rivoltosi con i soldati borbonici che sparano sui rivoluzionari costretti a loro volta a difendersi. Un militare cade ferito a morte, un altro rimane ferito, lo stesso Ferrari è ferito gravemente ed arrestato, mentre i suoi amici fuggono, si scatena contro l'eroe un'ignobile campagna denigratoria, si disse che il Ferrari aveva ucciso a sangue freddo un povero soldato e durante la sua permanenza nelle patrie galere la polizia imbastì contro di lui un castello di bugie infamanti che lo avrebbero condotto, dritto dritto, al capestro come un volgare delinquente comune senza alcuna attenuante. Ci ricorda don Domenico Zangari, il grande storico, uno dei pochi a fare delle precise ricerche sull’eroe mammolese, che egli poté rendersi conto delle fandonie fatte veicolare su Ferrari, dopo che poté mettere le mani sulle carte segrete depositate nell’archivio di stato di Napoli. Scrivendo sulla ""Rivista critica di cultura calabrese"" nel 1922, ci dà un quadro esatto e veritiero della personalità del Ferrari, per lui, non era stata tanto la morte di un povero soldato a scatenare le ire dei borboni, quanto il reato di lesa maestà, fin troppo alti erano i principi libertari del patriota mammolese, egli guarda all’Italia unita, vede i borboni stranieri, ignobili occupanti di una parte della penisola, quindi, bisognava punire con il disprezzo chi aveva avuto delle tanto nobili aspirazioni, pertanto l'assassinio doveva essere avvenuto in un vile e crudele agguato. Purtroppo, questo falso storico non fu contrastato efficacemente da chi aveva il dovere di tenere alta la fama e l'onore del mammolese la cui opera non può essere circoscritta al solo episodio dello scontro armato, ma va giudicata per tutto l'immenso e lungo operato di rivoluzionario, dagli anni dell'università al suo epilogo di martire per la causa risorgimentale. Il dottor Carmelo Agostino, uno dei suoi compagni di fede e che fu accusato di cospirazione, enumerando le varie gesta del Ferrari e l'oblio che era caduto su di lui come un velario di piombo, cosi si esprime: ""Un municipio italiano ha dimenticato l'eroismo di questo valoroso martire della libertà, e le sue gesta lamentano indarno di un monumento che lo ricordi, di un marmo che lo additi alla memoria dei posteri"". In un primo momento i mammolesi intitolano la piazzetta vicino alla chiesetta di S.Filippo ""14 febbraio"" data della cattura del Ferrari, poi passa la provinciale Mammola-Cinquefrondi e di quella piazzetta non se ne parlerà più e bisognerà arrivare al 1926, quando con la delibera n. 177 della G.M. del 5.12.26, il comune intitolerà la nascente piazza a Francesco Ferrari. Poca cosa. Per illustrare nella sua interezza le imprese famose e memorabili di un cittadino così benemerito ed anche il valore dei suoi compagni che valsero a sollevare un intero paese dallo stato sonnacchioso in cui era piombato, fra i tanti episodi basterebbe la sola lettera di Vincenzo Pisani di Polistena scritta al Ferrari nella quale vengono riconosciuti le doti e il coraggio del mammolese che secondo il Pisani stesso ha saputo riscattare l’onore di Mammola, lettera che trovata addosso al patriota il giorno della sua cattura fu uno dei capi d'accusa di cui si valse la gran corte criminale di Reggio per infierire sullo sfortunato eroe mammolese. Da questo si evince come per il Ferrari fosse stata architettata una procedura premeditata e pregiudiziale atta a demolire la sua illuminata statura morale e politica e la dimostrazione è data dal suo deferimento alla gran corte criminale, invece che alla commissione militare secondo l'art. 369 del codice penale che giudicava i casi relativi ai reati politici atti a sovvertire il regime. Era una sottile vendetta posta in essere contro un uomo che per anni aveva combattuto contro l'oppressore, che era stato il punto di riferimento di tutti gli uomini amanti della libertà, una personalità la cui immagine andava distrutta, oltre che fisicamente, soprattutto con l'arma della calunnia che avrebbe dovuto seppellire nel fango la memoria di un intemerato eroe. Dice ancora di lui il dott. Carmelo Agostino incarcerato per gli stessi reati del Ferrari: ""Combatté valorosamente finché cadde ferito e poi tradotto nelle prigioni criminali, dopo di che venne sottoposto ad un severo tirannico giudizio la cui conclusione non poteva essere che la morte per ignominia"". Ma guarda caso, è lo stesso dispositivo della sentenza di morte che mette in risalto le virtù eroiche del mammolese, in questo documento si parla di manifesti definiti incendiari, della distruzione della cassetta per la leva militare più volte divelta e buttata nello sterco, offesa ai simboli reali, una lettera che i cospiratori della piana gli avevano indirizzato, l'arresto di molti dei suoi compagni di lotta che non sono grassatori, ma la sentenza emanata dalla gran corte voluta dal procuratore del re presenta l'accusato a tinte fosche e come ci ricorda lo Zangari che ebbe modo di leggere le carte della polizia segreta conservate nell'archivio storico di Napoli, ""C’è da rimanere inorriditi, poiché il commissario di relazione ebbe modo di presentare l’eroe al pubblico dibattimento come volgare malfattore che attenda alla macchia e, per sola sete di sangue, uccida un innocente"". Un altro particolare va ricordato. Narra lo storico Matteo Mazziotti nel suo libro ""La reazione borbonica nel regno di Napoli dal 1849 al 1860"" che in questo periodo il regime borbonico, sotto le apparenze di una politica remissiva, che delle tante condanne a morte emesse dalle corti speciali, furono eseguite appena due sole: l'una il 26 aprile 1851, in Reggio Cal., per il giovane Francesco Ferrari da Mammola, il quale minacciato di arresto per cause politiche, aveva ucciso un gendarme, e l'altra sentenza venne eseguita a Salerno. La condanna si ammanta di un rigore sadico e raggiunge la mostruosità, soprattutto nella vile fretta della corte che ordina che la sentenza venga eseguita il giorno successivo per evitare che qualche personaggio influente potesse chiedere la grazia al sovrano. E fu così che l'eroe puro e romantico, cosciente delle sue responsabilità politiche e morali, al grido di Viva l'Italia, sale la forca innalzata sulla piazza S. Filippo di Reggio Cal. oggi piazza Carmine, mentre due suoi compagni, don Bruno Larosa, sacerdote, don Giuseppe Albanese, pure lui prete ed oratore illustre, vengono condannati, il primo a 25 anni di ferri, il secondo a 3 anni di galera. Si chiude in tal modo il calvario di un uomo che aveva combattuto per i supremi ideali che innalzano una personalità alle più alte vette dell’onore, questo di Francesco Ferrari fu uno dei tanti processi celebrati in Calabria, dice a proposito il prof. Vincenzo Zavaglia, storico di chiara fama, che senza alcun dubbio, dopo quello dei fratelli Bandiera e dei 5 martiri di Gerace, fu il più importante e il patriota mammolese è un altro martire della Locride e il suo nome risplende accanto a quelli di Michele Bello, Gaetano Ruffo, Pietro Mazzoni, Rocco Verduci e Domenico Salvatori.

Esattamente 150 anni fa - dopo tre duri anni di carcere - alle ore ventuno del 26 aprile 1851 veniva eseguita, tramite decapitazione nella pubblica piazza di S. Filippo (oggi Piazza del Carmine) di Reggio Calabria, la sentenza di condanna a morte di Francesco Ferrari emessa dalla Suprema Corte Speciale borbonica la sera prima. Noi non sappiamo se il corpo del giovane Francesco Ferrari abbia ricevuto degna e solenne sepoltura, dal momento che quel giorno furono eseguite tante altre sentenze di morte per reati comuni. Possiamo, tuttavia, immaginare che tra le mura della casa domestica, che un tempo sorgeva in questo luogo, è echeggiato tristemente il grido di dolore dei suoi contristati genitori. Già altre volte quella casa era stata di discussioni, cospirazioni e delusioni, legate agli eventi risorgimentali nella locride: vogliamo qui ricordare che il 6 settembre del 1847 il nobile F. Falletti di Siderno era venuto a Mammola e dal balcone del Palazzo di Francesco Ferrari era pronto ad issare il vessillo tricolore. Poi il movimento dei giovani cospiratori fallì. Da questo episodio e dal quello del 14 febbraio del 1858, che culminò nell'arresto del nostro Francesco Ferrari, possiamo dedurre se e quanto la nostra cittadina abbia assunto legami stretti con i fatti dei Cinque Martiri di Gerace, perche animata dallo spirito liberale e patriottico soprattutto della parte migliore della intellighentia mammolese del tempo. Mammola, i mammolesi - ci chiediamo -ebbero un ruolo in quella ventata di liberazione dalla dominazione borbonica? Non possiamo tacere infatti, come F. Ferrari ebbe come maestro G. Antonio Albanese discepolo, anche lui, di quell'abate Giuseppe Lamanna - mammolese, di spirito liberale e professore presso la facoltà di giurisprudenza del Regia Università degli Studi di Napoli - che annoverava, tra gli altri, discepoli come Carlo Pisacane, Carlo Gallozzi, Domenico Mauro, Gaetano Ruffo, Michele Bello, Francesco De Sanctis e Vincenzo Clausi. Commemorando il giovane patriota F. Ferrari, quindi, miriamo all'esigenza di rileggere una pagina del Risorgimento vissuta intensamente in Calabria ed in particolare chiarendo alcuni aspetti della vicenda mammolese nel contesto degli eventi registrati nella locride tra il 1847 e i 1848, completamente ignorati dalla storiografia ufficiale postunitaria e che sono pregni di dignità storica inspiegabilmente taciuta. Questi obiettivi sono alla base del programma ufficiale, messo a punto dalle odierne manifestazioni. L'Amministrazione comunale, sensibile come sempre alla storia della nostra Città, in questa circostanza ha inteso commemorare uno dei suoi migliori e sfortunati figli per additarlo ancora alle nuove generazioni come esempio di eroismo e di combattente per la libertà. Ed insieme ad esso ricordare altri illustri uomini che hanno onorato Mammola, la locride e la Calabria durante il Risorgimento, come Giuseppe Antonio Albanese - sacerdote, filosofo e rivoluzionario - che patì il carcere per gli stessi ideali del Ferrari, ma ricevette il riconoscimento delle sue qualità intellettuali quando fu nominato nel 1860 professore e preside del Liceo Campanella di Reggio Calabria, che rifiutò, ed unanime consenso politico del Mandamento di Mammola quando fu eletto al Consiglio Provinciale del 1861: a questa figura di educatore proporremo l'intitolazione dell'Istituto Scolastico Comprensivo della nostra Città - così come era desiderio del compianto don V. Zavaglia. A Francesco Ferrari - anche per onorare un debito storico nei suoi confronti, invocato dal medico e letterato Carmelo Agostino, coevo ed adepto della sua stessa consorteria mammolese, quando lamentava la mancanza di "...un marmo che lo additi alla memoria dei posteri". - abbiamo voluto dedicare questa lapide marmorea ed erigerla su quella che dobbiamo considerare come sacra reliquia di patria memoria: l'ultimo frammento murario e testimonianza di quello che fu il Palazzo di F. Ferrari, per ricordare a noi e alle generazioni future una pagina gloriosa, benchè triste, della nostra storia. Nel concludere - prima del solenne gesto di scoprimento della lapide, accompagnato dalla fanfara con le note dell'Inno di Mameli, e passare alla sua benedizione - mi si conceda di leggere, in breve, come il nostro Eroe è stato ricordato in passato ad alcuni storici e letterati: - Carmelo AGOSTINO: "Nasceva in questa fortunosa terra di Mammola nel 1802: crebbe uomo di nobili sentimenti, di ferme risoluzioni, umanitario, patriota, cultore di lingue, erudito nella Storia, Avvocato di professione, si dilettava di musica e drammatica. Col risorgimento italico ebbe a cuore la nazionale indipendenza" - Don Domencio ZANGARI: "In Mammola fu di grande autorità presso il popolo, perché concitato tributo dei diritti conculcati del debole e dell'umile, vendicatore intrepido dei soprusi esercitati dai nobili e dai ricchi, gratuitamente e con impegno colà accorreva dove era da riparare un torto o da difendere , povero ". - Don Vincenzo ZAVAGLIA: "Questo di Francesco Ferrari fu uno dei tanti processi tenuti in Calabria nel periodo borbonico e senza dubbio uno dei più importanti, dopo quello dei fratelli Bandiera e dei martiri di Michele Bello, Gaetano Ruffo, Pietro Mazzone, Rocco Verduci e Domenico Salvadori ". - M. D' AYALA: "Saliva con passo fermo ed animo invitto la ghigliottina, innalzata dalla piazza S. Filippo di Reggio Calabria, e suggellava col sangue la fede giurata alla libertà d'ltalia ". Viva Francesco Ferrari! Viva Mammola!

Arch. Antonio LONGO - Sindaco di Mammola

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