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CARMINE CROCCO DONATELLI

 

La prima metà del diciannovesimo secolo è caratterizzata da numerosi atti di brigantaggio che turbano la sicurezza delle campagne del Vulture, proprio mentre, finalmente comune autonomo, Rionero vince la battaglia per l'abolizione del terraggio sul Gualdo. Non si è ancora spenta l'eco delle imprese del famigerato Angiolillo (Angelo Del Duca, nativo di San Giorgio Magno) e già tutta la zona, soprattutto il bosco di Monticchio, pullula di briganti; Vuozzo di Sant'Andrea di Conza, Taccone di Laurenzana, Bufaletto e Maccapane di Rionero. Certamente, però, il "brigante" più famoso di Rionero è stato Carmine Donatello Crocco. Carmine Donatello Crocco nasce a Rionero il 5 giugno del 1830 da Francesco, pastore nei boschi di Monticchio, e Gerarda Maria Santomauro. Una prepotenza segna tragicamente la sua gioventù. Il levriero di un notabile azzannò a morte un coniglio di proprietà dei Crocco ed il fratello minore di Carmine uccise il cane. Il signorotto per vendetta prese a calci la madre di Carmine, che era incinta, intervenuta per difendere il figlio. La donna abortì e fu costretta a letto per tre anni durante i quali, accusato ingiustamente di aver attentato alla vita del proprietario del cane ucciso, il marito fu arrestato e poi scarcerato e per questi motivi la donna stessa perse la ragione e tempo dopo morì in manicomio. L'odio di Crocco per i padroni comincia qui. Nel 1849 si arruola nell'esercito napoletano ed inviato a Palermo nel I Reggimento artiglieria, ma diserta quasi subito, nel 1852, dopo aver ucciso una sentinella e torna a Rionero per vendicare un torto subito dalla sorella Rosina. Con l'aviglianese Ninco Nanco costituisce una banda armata e si nasconde nel bosco di Monticchio vivendo di rapine. Arrestato il 13 ottobre 1855 viene condannato a 19 anni di reclusione da scontare nel carcere di Brindisi da dove nella notte tra il 13 ed il 14 dicembre 1959 evade con altri compagni di prigionia e si riporta nei boschi di Monticchio dove ricostituisce la sua banda con la quale, il 17 agosto 1860, sperando di "sorgere a nuova vita", aderisce ai moti liberali di Rionero e per due mesi resta a disposizione della Giunta Insurrezionale e del Vice Governatore Decio Lordi mostrandosi, con entusiasmo, attaccato al nazionale risorgimento adempiendo con zelo agli ordini superiori. Il 27 gennaio 1861 viene arrestato a Cerignola e rinchiuso in carcere da dove evade nella notte tra il 3 e 4 febbraio aiutato, forse,dal movimento legittimista rionerese. Da questo momento Crocco si pone al servizio della restaurazione borbonica. Negli anni che seguirono Crocco, Generale di migliaia di uomini, portò avanti attività di guerriglie nei boschi del Vulture e coronava ogni sua conquista con saccheggi, con il canto del Te Deum nelle chiese e la benedizione delle bandiere borboniche. Il 25 luglio del 1864, tradito dal brigante Caruso di Atella, Crocco viene sconfitto in una cruenta battaglia sull'Ofanto ragione per cui scioglie le sue bande e si rifugia nello Stato Pontificio, sperando di essere accolto con tutti gli onori spettanti ad un generale di Francesco II. Invece, privato dei soldi che ha portato con se, viene subito incarcerato e, nel 1870, consegnato alle autorità italiane. A Potenza viene condannato a morte con sentenza dell'11 settembre 1872, mutata poco dopo in quella di lavori forzati a vita. Durante l'ergastolo Crocco scrive le sue memorie dalle quali emerge l'amara costatazione di un uomo tradito: "promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza di impadronirsi degli armenti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti il recupero delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche onorifiche. E così, mentre io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemento infimo, ignorante ed ambizioso, il clero e i nobili borbonici si servivano dell'opera mia per avvantaggiarsi nella reazione". Il 18 giugno 1905 muore nel carcere di Portoferraio. Aveva 75 anni

Carmine Crocco Donatelli, dai suoi uomini veniva chiamato "Generale", mai nome fu più appropriato. Crocco infatti oltre ad essere un "Capipopolo" carismatico e capace di sollevare le masse, era anche un ottimo stratega militare. All'opposto degli altri capi che soventemente, all'arrivo delle truppe regolari piemontesi, disperdevano la loro banda egli molte volte accettava anche il conflitto in aperta campagna riuscendo sempre a trovare il luogo più favorevole per difendersi. Usava tattiche proprie delle milizie più esperte come tagliare i collegamenti telegrafici o far saltare ponti per bloccare le arterie stradali. Con grande signorilità ed autorità riuscì ad imporsi alla sua gente, composta, in maggior parte, da persone semplici, testarde e molto violente. La sua banda composta all'inizio da pochi uomini nel tempo riuscì ad arrivare alla forza di oltre mille componenti, tanto che dovette dividerla in varie bande più piccole dislocate in luoghi opportuni in modo da poterle riunire velocemente quando veniva il momento di attaccare. Le sue escursioni toccarono tutta la Basilicata, ma anche la Puglia (dove in molte operazioni collaborò con Pasquale "Sergente" Romano) e la Campania, occupò tantissimi villaggi, ma anche comuni di una certa importanza come Melfi, quando trovava resistenza attaccava a viva forza devastando, distruggendo ed incendiando. Quando occupava i villaggi lui si insediava nel palazzo o casa più signorile che c'era e faceva sfogare la rabbia della sua truppa con saccheggi e violenze sugli oppositori, preoccupandosi di far rispettare le famiglie dei loro compagni d'armi e solo verso la sera pensava a riordinare l'orda ubriaca e soddisfatta. Qualche paese, talvolta, lo accoglieva a suon di fanfara, con i preti che aprivano le chiese portando la statua della Madonna del Carmine sul portale in suo onore (il Crocco, nonostante tutto ed a suo modo era molto fedele). Quando la Guardia Nazionale, dopo l'entrata in vigore della Legge Pica, concentrò i suoi sforzi e la maggior parte della truppa nel meridione per sconfiggere il brigantaggio, con l'aiuto del Vaticano e dei Borbone si rifugiò nello Stato Pontificio, dove dopo l'invasione venne catturato. Fu processato e condannato a morte dalla Corte d'Assise di Potenza e ritenuto colpevole per i seguenti reati: 67 omicidi, 7 tentati omicidi, 12 rapine a mano armata, 20 estorsioni, 15 incendi di case ed altri reati minori. La condanna a morte, fu in seguito, commutata a lavori forzati a vita. In carcere, con l'aiuto di un giornalista dell'epoca, scrisse un libro, interessantissimo, di memorie. Morì il 28/12/1905 all'età di 75 anni nel carcere di Portolongone.

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