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 GIUSEPPE CESARE ABBA TESTIMONE E INTERPRETE DEL RISORGIMENTO

di Emilio COSTA

 

"Vidi la prima volta Giuseppe Mazzini in una via di Napoli, sul finire del settembre 1860. Egli se ne andava tra la folla soletto, a passo lento. Ed erano i giorni che gli si aveva voluto vietare di stare in Napoli, e che egli aveva severamente risposto di credersi d'essere in terra libera. Pareva che non si ricordasse d'essersi sentito urlato a morte, pochi giorni avanti, dalla plebaglia condotta sotto le sue finestre. E noi che eravamo in tre lo seguimmo a poca distanza, osservando come egli camminava sicuro e pensavamo alle tante volte che avevamo sentito accusarlo come uomo che mandava la gente a morire e badava bene a non esporre la propria vita. Ma là in quei giorni, qualsifosse sicario o fanatico avrebbe potuto piantargli un pugnale nel petto o nel dorso! Eppure Mazzini non si guardava. Il capitano Enrico Novaria pavese, morto sei anni di poi combattendo a Bezzecca, e il tenente Aurelio Bellisoni morto un anno fa a Bergamo, che me l'avevano mostrato ed erano suoi devoti, mi dissero che Egli non credeva di poter esser ucciso da un uomo, e che questa sicurezza era una delle sue forze. Forze? Eh certo! Chi aveva avuto più forza di lui col suo solo pensiero? Intanto mi veniva in mente d'aver udito da parecchi medici liguri che il padre di Mazzini loro professore soleva dire ai loro tempi che la penna di suo figlio faceva tremare le potenze d'Europa". Questa pagina poco nota dell'ultimo Abba (1) riesce utile per introdurci alla illustrazione della tematica che ci siamo proposti di trattare. Il verbo mazziniano era stato cibo e luce per molti di quei giovani che erano partiti da Quarto con Garibaldi. Il mazzinianesimo di Abba doveva necessariamente approdare al garibaldismo, secondo un lineare paradigma morale. Alla base della sua piramide ideale, Mazzini e Garibaldi erano fulcro e matrice del senso che egli ebbe dei valori etici del Risorgimento. Garibaldi doveva essere per lo scrittore e patriota cairese il modello ideale a cui accostarsi sul piano della vita quotidiana, l'incarnazione di quella virtù "esule a Caprera", il senso più alto e cavalleresco dell'umanità, la forte voce che si interiorizza come imperativo categorico, senza feticismi e retorica. Mazzini era l'identificazione della Patria, la scienza e la consapevolezza dell'Italia, polo di attrazione indefinita che riassumeva in se Foscolo e Byron. Abba testimone e interprete del Risorgimento, come recita il titolo di questo scritto, è la coniugazione di due temi che si integrano nel contesto di una personalità costantemente legata al motivo vitale di una lezione morale, che si è fatta sostanza di vita. Testimone del Risorgimento Abba a pieno titolo è stato perché molto ha visto e ha inteso di quel tempo. Alla scuola calasanziana di Carcare, il padre Atanasio Canata aveva saputo infondere in lui il senso della patria: la prospettiva moderata dello scolopio con i suoi slanci di entusiasmo e con le riflessioni su quella che doveva essere la libertà dei popoli, con la mediazione di opportune letture era stato il primo viatico con il suo carisma religioso, che doveva focalizzarsi nella religione della patria. Abba è testimone di quella pedagogia calasanziana che fece fiorire in non poca gioventù eletta della Liguria la vocazione al volontariato azionistico, alla consapevolezza del dovere patriottico (2). Tale formazione spirituale non poteva non incontrare motivi di affiatamento sinergico con il mazzinianesimo. Testimone assiduo e attento di grandi giornate, egli, con instancabile costanza e attraverso innumerevoli occasioni, ha utilizzato i suoi ricordi con concreta vivacità descrittiva. Nelle sue pagine torna spesso ad illustrare momenti della sua esperienza di legionario, di convinto democratico impegnato nella lotta per il progresso sociale, di educatore fermo nella sua dignità di maestro. Non c'è in lui il compiacimento sterile della memoria ma reca con senso costruttivo la propria testimonianza, sempre opportuna a lumeggiare, a integrare, a precisare. Pone alla base delle proprie referenze la forza della verità, allo scopo di rendere funzionali alla intelligenza della cronaca le note della propria vicenda autobiografica. Anche la pagina dalla quale abbiamo preso le mosse, scritta per una raccolta di ricordi e giudizi per il centenario della nascita di Mazzini, è una puntuale testimonianza. Il garibaldino incontra colui che è stato l'apostolo del Risorgimento, quando a Napoli pare essere un rinnegato e in uno dei momenti più amari della sua vita. E' un ricordo che assurge a testimonianza della tempra morale mazziniana; agli occhi del giovane volontario ligure l'Esule è colto nella dimensione della sua eccezionale grandezza; è l'uomo superiore che non cura il volgo sobillato e facilmente facinoroso, che in quei giorni, nella città partenopea liberata da Garibaldi, risultava indesiderato e scomodo perché ispirava un'azione contraria ai disegni della diplomazia e delle cancellerie europee. Quell'incontro, racchiuso nell'intensità di uno sguardo a distanza, è stato per Abba la conferma di quello spirito insonne che aveva saputo parlare dell'Italia quando tutti tacevano, che aveva dato fiato alla tromba della resurrezione alla "terra dei morti". Il volontario garibaldino in quella via napoletana aveva certamente sentito nel proprio monologo interiore la santità della patria, come ebbe a sentirla nella giornata di Catalafimi nelle parole di Garibaldi. Egli doveva, meno di dodici anni dopo, avere un muto colloquio con la salma di Mazzini, la notte del 17 marzo 1872 nel cimitero di Staglieno. Alla notizia che i funerali di Mazzini si svolgevano a Genova, Abba era partito subito da Cairo ma prima aveva lasciato le opportune disposizioni affinchè alcuni rappresentanti della Società degli operai cairesi, da lui fondata, intervenissero a quella cerimonia con la propria bandiera, la quale doveva assumere poi un notevole significato storico (fu tratta fuori la mattina del 9 novembre 1910 per avvolgere il feretro del fondatore di quel sodalizio). Egli ci ha lasciato sui funerali di Mazzini alcune pagine incisive: " Genova [...] nella mattina di domenica 17, s'andò popolando di gente che giungeva dalle più lontane contrade d'Italia, dalle isole, dalla Svizzera, dalla Francia; gente taciturna, raccolta, piena di cordoglio. Amici che non s'erano più riveduti dagli anni delle guerre garibaldine, si incontravano, s'abbracciavano, si davano mesti la mano e singhiozzando si esprimevano a sguardi di dolore [...]. Alle dieci [...] il corteo funebre cominciò a formarsi. Nella via Andrea Doria e oltre, si schierarono le associazioni operaie che tutte traevano origine dalle dottrine sociali del Maestro. Nella piazza dell'Acqua Verde, si stesero le rappresentanze delle città italiane e straniere: lungo la via San Teodoro si ordinarono i reduci delle patrie battaglie. Non c'era la Chiesa, non c'era il Governo; c'era Dio che è dappertutto, e c'era il popolo. Alle dodici suonate, anzi quasi al tocco, la testa della colonna si mosse, e tutti i gonfaloni e le bandiere, a mano a mano che passavano dinnanzi al carro su cui stava il feretro, si chinavano a salutare. Erano più di centocinquanta; e molte, specie di Romagna, rosse o senz'altro simbolo o colore [...]. Lentamente, per le vie Balbi, Novissima, Nova, Carlo Felice, Giulia, il corteo percorse dall'Acqua Verde a Porta Pila si può dire tutta Genova. E tutte quelle vie erano gremite di gente sui marciapiedi; a tutti i balconi, a tutte le finestre, e fin sui tetti, gente, gente e gente, e tutti si scoprivano e c'era un gran silenzio. Non si vedeva una figura di puramente curioso [...]. E fuori la Porta Pila, sulla spianata del Bisagno, su tutti i bastioni e lungo la via a Staglieno, sempre folla a far ala. Ma da dove era uscita tutta quella moltitudine? Nessuno ne aveva mai visto tanta" (3). Quella notte l'Abba era rimasto a Staglieno con due suoi compagni dei Mille per assistere Paolo Gorini che doveva ultimare le sue cure per la pietrificazione della salma dell'Esule. Alcuni giorni dopo, il 29 marzo 1872, scriveva all'amico Mario Pratesi: "Io mi trovai con pochi [...] nella Cappella ardente di Staglieno, alla scopertura della salma. Il Gorini temeva che nei giorni passati dalla preparazione fatta a Pisa, il processo di decomposizione l'avesse vinta sull'arte sua. Ma quando vide il corpo, un lampo di gioia passò su quella fronte, e parve illuminare quelle degli astanti, sotto quella volta tutta parata di nero, e qua e là s'udivano scoppiare pianti. Erano la Nathan, la Rosselli, la Saffi, e altre donne, che alla scena davano l'aspetto di una notte delle catacombe. Il grande idealista giaceva nella sua bara come un uomo che dorme, e la sua bocca era quale ei l'atteggiò nell'ultimo della vita. Pareva stesse per dire ciò che l'anima sua vede di là, dove gli avversari suoi degli ultimi tempi scopersero il nulla ..."(4). Il 9 luglio 1905, inviando ad un amico il suo articolo "I funerali di Giuseppe Mazzini", uscito il 22 giugno di quello stesso anno, affermava che quello scritto era "tutto di ricordi e di impressioni viventi come vi vissero presenti tutti questi 33 anni" (5). Tali ricordi e impressioni, che continuavano a vivere in lui, altro non potevano essere che uno dei motivi di conforto uniti a quelli di Garibaldi e della militanza garibaldina, da quando, dopo Roma capitale, la realtà politica non poteva che lasciarlo insoddisfatto. Il suo nome era stato noto a Mazzini, il quale in un suo taccuino di indirizzi ebbe a scrivere: "Abba. Cairo Montenotte, consigliere comunale e nell'insegnamento: uno dei Mille: ottimo e nostro" (6). L'annotazione mazziniana pone l'accento su quello "ottimo" e su quel "nostro" e rivela che all'Esule erano giunte referenze davvero buone sul fondatore della prima società operaia delle Langhe. Occorre notare che le due valenze del giovane Abba, sottolineate da Mazzini, puntano su di un fatto di grande momento per colui che era stato l'ispiratore dell'associazionismo operaio. Infatti il garibaldino cairese era "nell'insegnamento" non come professore (lo sarà poi a partire dall'autunno del 1881 a Faenza) ma come educatore e organizzatore di lavoratori, secondo il credo mazziniano. Per questo l'Esule lo considerava aderente al proprio movimento politico-sociale. Ottimo appariva l'intraprendente consigliere comunale di Cairo perchè aveva offerto prove di essere davvero sulle orme di Mazzini. L'annotazione mazziniana racchiude, nella sua essenzialità, i tratti salienti della fisionomia morale di quel cairese dei Mille. Testimone del suo tempo, Abba ha costantemente guardato allo svolgimento della realtà politica italiana. Ancorato alla fede di coloro che erano stati apostoli e operai dell'Italia unita, guardava con crescente amarezza a chi, trascorsa l'epopea risorgimentale, faceva della politica un mestiere, la gestione di una consorteria di arrivisti. L'Italia era salita al Campidoglio ma da allora il trasformismo di tanta parte della classe dirigente seguiva il paradigma di un costume morale, che non poteva essere accettato da chi era partito volontario per amore di una patria, la quale poi, come ebbe a dire in una sua invettiva il Carducci, era stata vile in non poche occasioni. L'Italia umbertina con le sue contraddizioni, coinvolta nelle sue aporie, pervicace nella iterazione dei suoi errori, doveva essere poi per il maturo Abba termine fisso di disappunto. Egli che aveva visto come i giovani di trent'anni prima avevano saputo morire per un ideale di patria, ora, che le camarille regolavano la vita pubblica con tanta iattanza, si rifugiava nella forza della memoria. Una sua affermazione contenuta nella lettera a Francesco Sciavo del 26 febbraio 1901 racchiude in nuce quella che fu una sua radicata convinzione degli ultimi tren'anni almeno della sua vita: "Il nostro paese è così fatto [....]. Io l'Italia l'ho veduta farsi, e so come s'è fatta. Essa è venuta qual doveva venire: il feudo di una classe di furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi" (7). Egli che non voleva essere della "classe dei furbi", trovò se stesso nel culto di quel passato che aveva visto, nel rivisitarlo costantemente, nella riconquista quotidiana di quei sentimenti che dovevano essere per lui vitalità e ispirazione giorno dopo giorno. Come tanti altri suoi fratelli d'armi, le cui file si andavano assottigliando, egli sapeva di essere testimone di una delle stagioni più luminose di "quell'itala gente dalle molte vite" che fa presto a dimenticare la lezione dei suoi uomini migliori. Amareggiato, ma mai abbattuto, egli faceva di quel grande passato il fulcro della sua ispirazione, la sua disciplina interiore. Contribuiva con la sua presenza, in tutte le occasioni possibili, a rendersi testimone di quel passato con la parola chiara e con la voce ferma. Da quel passato aveva creato poesia. Schivo, sapeva rapportarsi però alle esigenze della vita collettiva, non risparmiando il proprio intervento quando ravvisava l'opportunità di recare la propria testimonianza. Tempra tolstoiana, egli sapeva vivere nel suo mondo e animarlo di voci e di fatti del passato. Alieno dal mondano, intendeva la partecipazione agli incontri pubblici come un dovere inderogabile. Il discorso su Abba interprete del Risorgimento rischierebbe di farsi lungo per la pluralità delle referenze utili per offrire una sintesi articolata, che necessariamente dovrebbe mettere a fuoco le più sensibili componenti che si esplicitano attraverso una molteplicità di scritti. Tuttavia ci si limiterà all'indicazione di taluni temi centrali, opportuni per accostarci a quell'unità di visione che lo scrittore ligure ha avuto della civiltà risorgimentale. Il termine interprete qui deve acquistare un significato polivalente, coniugandolo con quello di divulgatore e soprattutto di poeta. Non potendo entrare nel campo dell'arte dell'Abba scrittore, studiata da Luigi Russo, da Gaetano Mariani, da Edoardo Villa, e da altri ancora quali Aldo Capasso, si punterà sul valore e sulla costante attualità di molte pagine abbiane che sanno comunicarci ancora, nella loro naturalezza, spiriti, forme e figure dell'ethos risorgimentale. Le Noterete restano uno dei libri grandi dell'età del Risorgimento ed è ormai assodato che gli altri scritti garibaldini dell'Abba e il suo epistolario devono essere considerati come un commento, una integrazione necessaria del capolavoro. Anche soltanto attraverso poche ma incisive citazioni testuali è possibile riuscire a comprendere quella che è l'interpretazione del Risorgimento che Abba si è studiato di dare. Egli non aveva la vocazione dello storico: lo studio del passato in lui era soitanto termine di confronto per il presente. Al fondo programmatico del suo assunto di scrittore di avvenimenti e di personaggi del suo tempo c'è la preoccupazione di una finalità educativa. Quello che gli importava era che i suoi scritti servissero a trasmettere quella che era stata la forza morale di quegli uomini grandi, minori e minimi che avevano militato nell'ambito della democrazia mazziniana e che del loro garibaldismo non avevano fatto un mito ma una missione di dovere (8). La sua opera è basata su solidi fondamenti educativi. Si è parlato di "fioretti" di Garibaldi nell'opera di Abba ma l'affermazione può risultare soltanto sfocata. Non c'è in lui la lezione di una mistica garibaldina né la serafica ingenuità dello scrittore di aneddoti ma l'interprete robusto di un mondo di volontari, che avevano nel sangue la passione della lotta per la libertà e per la giustizia. Settantenne, il 10 ottobre 1908, scriveva ad un ragazzo, figlio del poeta Corradino Corrado: "Se la lettura delle mie Noterelle, in cui tu certamente non troverai nulla mai d'indegno, gioverà a farti amare le cose sante della vita, che sono molte o poche secondo che si è nati a sentirle, se qualche pagina di esse ti preserverà dalla malattia del secolo, siano benedette" (9). In lui era costantemente viva quella volontà di educare al senso della vita nei suoi valori più nobili.Occorreva infondere spirito di osservazione, aiutare a scoprire la verità dei valori perenni che formavano la coscienza nazionale, offrire i mezzi morali adeguati per combattere il male e per trovare il rimedio a convertirlo nel bene, cercare in ogni modo di far crescere dei figli migliori di noi, infondendo il sentimento del dovere. Tali fondamenti traevano il proprio ubi consistam nella frequentazione della dottrina etico-sociale mazziniana, l'unica che potesse offrire gli strumenti per l'emancipazione morale e culturale del popolo. Mazzini era per lui l'alfabeto del Risorgimento e del progresso politico e sociale della nazione, senza del quale non si potevano intendere le istanze di rinnovamento della società italiana. Garibaldi era il padre spirituale di ogni volontarismo organizzato a favore della conquista della patria; giustizia e libertà garibaldina erano i pilastri di quel socialismo non marxista di cui il Generale era stato autentica incarnazione. Per questo egli volle essere fedele interprete degli atti e dei sentimenti di Garibaldi e testimone attento dei suoi stati d'animo rivelati nella diversità delle occasioni. Egli non esalta e non glorifica gli eroi garibaldini, ma li coglie nella loro naturalezza e anche nella prosopografia che delinea di essi è sobrio nel descriverli nel vivo delle loro azioni; cerca la similitudine con altre virtù del passato. Il tono della sua prosa risulta antioratorio. In lui si armonizzano visione epica e visione etica del Risorgimento; le quali devono essere intese nella loro globalità, perché sentimento epico ed etico in lui, come nel Carducci (di cui è forse lo spirito più vicino), si ricollegano ad una stessa radice ideale. Per questo, più di ogni altro scrittore garibaldino, Abba assume un ruolo a se nel contesto della memorialistica ottocentesca, proprio per quel suo motivo vitale di ispirazione che fiorisce non soltanto dal suo vissuto di combattente ma più ancora per quella partecipazione spirituale che lo portava a scoprire in quel mondo di volontari, al di là di ogni pragmatismo, la sostanza stessa di un'epopea che è poesia. Egli doveva così restare autore di un solo e grande libro, il cui respiro non poteva estendersi oltre le Noterelle. Il resto è commento, articolazione di chiose. Ha scritto una sobria prosa di cronaca epica con coerenza, con passione, con calore, con efficacia artistica. Il tono che talvolta appare religioso nella sua scrittura gli può conferire l'aureola dell'evangelista di uomini e fatti eccezionali. Ma in Abba il tono religioso non è mai sovrastruttura, ma linguaggio quale soltanto la convinzione dell'apostolo può trovare. Si è scritto che egli volentieri si mette in mostra come letterato e poco si evidenzia come combattente. Ma come poteva mettere in risalto se stesso, umile gregario, in un contesto così nobile di volontari, di veterani, di uomini fuori del comune? Egli fa riferimento a se stesso per quanto il suo ruolo poteva offrirgli, secondo quello spirito di verità che ebbe a caratterizzare sempre la propria presenza in talune circostanze. Per quanto concerne il letterato, Abba raramente indulge alla digressione; ricorre all'elemento culturale, quando questo gli affiora spontaneo alla penna per fissare meglio talune immagini di grandezza epica o che egli rivive utilizzando temi del passato (del classicismo e del romanticismo) in funzione del presente (nessuno contesta a Dante le similitudini, sempre così efficaci, e i riferimenti al mondo dei pagani e alla Bibbia). Attraverso le Noterelle e le molte pagine garibaldino-risorgimentali, egli, oltre le valenze poetiche del capolavoro, rivela intenti di divulgazione popolare di uomini e di fatti destinati a restare in parte nella storia. Il suo occhio va oltre il sentimento dell'epopea, guarda a non pochi aspetti della vita sociale. Abba rende vivo il senso religioso dell'umanità, intesa mazzinianamente nella sua epifania di Dio attraverso un indefinito progresso morale. Tra mazzinianesimo e garibaldismo, tra religione della patria e redenzione sociale, Abba è uscito dal momento dell'azione con una esperienza dolorosa della realtà, con un senso di tristezza del domani. Egli è l'interprete di un Risorgimento tradito nella sua sostanza morale, svuotato, dopo i grandi fatti che avevano determinato l'unificazione, del suo messaggio politico, mortificato nel suo programma democratico. Le camicie rosse, caste vestali dell'amore di patria e del sacrificio, erano state bloccate da Teano ad Aspromonte, dal Trentino a Mentana. Era iniziata l'anabasi dei pretoriani del potere, della finanza, dell'impiegomania, dei dispensatori di prebende, delle speculazioni edilizie. Roma era italiana ma senza Garibaldi e senza Mazzini: un mondo multicolore di piccoli machiavelli vi formicolava e vi intrigava tra scandali mondani, politici e bancari. E il progresso del popolo? Il programma di Mazzini? Le idee di Garibaldi? Pareva che un sipario fosse sceso a nasconderne la presenza, che il silenzio attorno ad essi si fosse fatto più denso, anche se si erigevano monumenti, si pronunciavano discorsi, si raccoglievano e si pubblicavano scritti. Non era la sua Italia, quella che avevano indicato quegli spiriti magni ai quali si era accostato col palpito del novizio e che tale doveva restare nel suo cuore di "grande fanciullo". Tuttavia, anche se la realtà era diversa, in modo crudele, da quelli che erano i suoi ideali, egli continuava ad ispirare quei sentimenti di patria e di fratellanza che mai gli erano venuti meno e non rinunciava alle speranze, perché così gli avevano insegnato Mazzini e Garibaldi. Verso la fine del 1859, il giovane Abba aveva composto un'ode dedicata a Garibaldi, la quale resta documento significativo:

"E ancor manca un poeta alla tua spada,

che balenò con tanto

raggio di speme all'itala contrada?

E sulle ausonie corde,

armonizzate dalla man dei fati

di Pindaro alla lira,

facili note tenteran soltanto

d'amor gli itali vati,

di se incuranti e dell'eolio canto?

Oh perché non mi accende

il bellicoso spirito dei Bardi,

cui nelle sacre selve estinse il ferro

temprato alla vittoria

delle romane irrompenti coorti?

Ch'io scioglierei, fremendo

amor di patria, la canzon dei forti,

l'inno che in mezzo all'ira

delle battaglie a ben morir conforta,

e protegge dal rio

silenzio i prodi e dall'indegno oblio?" (10).

Il poeta vero, il più alto, doveva essere proprio lui; quei suoi versi giovanili ci appaiono come una aurorale premessa. L'intonazione di quell'ode doveva approdare all'Arrigo, poema in cinque canti in endecasillabi sciolti, ed in esso esaurirsi. Lo scrittore garibaldino toccherà l'epopea con ben altra mano e con senso pieno della realtà. Attraverso la lettura delle Noterelle cerchiamo di porre a fuoco alcuni momenti della capacità abbiana di cogliere, in modo incisivo, aspetti della vita e della società che lo circondava. Ci si limita al capolavoro, non soltanto perché un excursus attraverso tutta la sua opera risulterebbe esorbitante ma anche perché le Noterelle ci offrono, in modo più puntuale, gli elementi di analisi che qui ci interessano. In viaggio in treno, alla volta di Genova, vicino a Montebello, dove il 20 maggio 1855 cavalleggeri piemontesi e fanti francesi avevano respinto una grossa ricognizione austriaca, il suo ricordo va a "quel povero caporale dei cavalleggeri di Novara", al cui racconto dei fatti egli si era esaltato. Riesce indicativa la sua puntuale osservazione che si eleva dal caso particolare per rivelare una situazione comune a tanti padri di famiglia costretti a fare la guerra, e a lasciare il proprio lavoro. "Povero provinciale di quei di Crimea, richiamato per la guerra, aveva a casa moglie, figliuoli e miseria. Non amava i volontari: gli pareva che se fossero rimasti alle loro case in Lombardia, egli non si sarebbe trovato lì, con trent'anni sul dorso e padre, a dolersi della pelle messa in gioco un'altra volta. Del resto non si vantava di capire molto le cose: ciò che piaceva ai superiori, piaceva a lui: tutto per Vittorio e pazienza..." (11). E' un aspetto importante della triste situazione di molti popolani, buoni lavoratori e buoni soldati che venivano dalla miseria per ritornarvi a guerra finita. I giovani volontari non sono degli esaltati o fanatizzati ma persone coscienti del passo che fanno -, che guardano in faccia al proprio destino. "Si conoscono all'aspetto. Non sono viaggiatori d'ogni giorno; ma hanno nella faccia un'aria d'allegrezza, ma si vede che l'animo è raccolto. Si sa. Tutti hanno lasciato qualche persona cara; molti si dorranno di essere partiti di nascosto" (12). La nota illumina qui l'umanità dei volontari. A Genova, Abba incontra un "signor Senatore" che rappresenta l'antirisorgimento, portavoce del municipalismo retrogrado. E' un momento importante quell'incontro, perché rivela quello che allora, per quella classe di ben pensanti che amava la quiete e l'ordine, era motivo di "scandalo" quella falange di capiscarichi che voleva partire per la Sicilia. "Mi abbattei nel signor Senatore, che mi conobbe giovinetto. Egli mi ha detto che in Genova si è radunata una mano di faziosi, i quali oggi o domani vogliono partire, per andare a far guerra contro Sua Maestà il Re di Napoli. Non sa più in che mondo viva: e se il governo di qui non mette la mano sopra quegli sfaccendati perturbatori... Basta, spera ancora! Scaricava così la collera che gli bolliva; ma a un tratto si piantò, domandandomi se per avventura fossi anch'io della partita. Io non risposi. Allora certo d'aver colto nel segno, cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni. Come? Poteva essere che il mondo si fosse girato tanto da trovarsi a simili fatti un giovane, uscito dal fondo d'una valle ignota, allevato da buoni frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre...? Poi passò alle minacce. Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui, mi avrebbe affrontato ali ' imbarco per trattenermi [...] Ed io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte, proruppe: "Ma che cosa vi ha fatto il Re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti!" Eppure un suo figlio verrà con noi" (13). Il senatore non poteva capire quello che era stata l'educazione alla patria e dove potesse giungere, anche in quella valle e in quel collegio, come giunse ad umili lavoratori come quel Domenico Repetto contadino nel Monferrato. Un figlio del senatore sarebbe partito volontario. C'è stato nell'ambito dei Mille anche qualcuno che è partito per spirito di avventura ma la quasi totalità erano uomini che avevano chiara nella mente la propria determinazione. C'era quel sentimento di patria che legava padri e figli. Il padre e il fratello di Stefano Dapino, un genovese diciannovenne, condiscepolo dell'Abba, già combattente con Garibaldi nel 1855 a Varese e a San Fermo, erano giunti a Quarto per salutare il loro congiunto. "Allora cominciarono i commiati - narra il nostro scrittore. - Ed io che non aveva lì nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere mi abbattei, in Dapino, mio condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo; ma gli vidi a fianco suo padre e suo fratello, e mi cadde l'anima. Temei d'assistere ad una scena dolorosa, perché mi pareva che quel padre che io so tanto amoroso, fosse venuto per trattenere il figliuolo, e due passi più sotto v'erano le barche, e una turba silenziosa come di ombre sfilava giù in quel fondo. Invece ecco il padre e il fratello abbracciare l'amico mio..." (14). La madre del giovanissimo Riccardo Luzzatto era arrivata da Udine a cercare il figlio per trattenerlo e lo trovò: "E lui? - E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col rimorso d'averla disobbedita. - E la mamma? - Se n'andò sola" (15). Genova che fu, come scrisse Abba, il porto militare della Spedizione, aveva offerto un contegno esemplare: tutto doveva svolgersi con ordine. Il Governo di Torino sapeva della partenza dei volontari; Cavour aveva trasmesso istruzioni precise a Pietro Magenta, intendente generale a Genova: era necessario vigilare ma occorreva che le cose filassero a loro modo. La cospirazione era scesa in piazza; bisognava farla da furbi e prepararsi a far fronte alle complicazioni della diplomazia. Annota Abba: "Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso, silenzio, raccoglimento e consenso. Alla Porta Pila, v'erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a Quarto, di tanto in tanto, un po' di folla muta".16 Silenzio, raccoglimento e consenso, ecco il contributo di Genova, come se governo e popolo si fossero capiti: evitare ogni incidente per non costringere le forze dell'ordine ad agire. Abba ha sapientemente saputo interpretare quel silenzio del popolo. Lo stesso silenzio accompagna la discesa di Garibaldi al mare in una delle ore più solenni del Risorgimento: "Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità, pei viali, si muovevano uomini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v'era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo! No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui! Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguito da pochi, discese franco giù per gli scogli" (17). Garibaldi è sguardo e voce "limpida e bella", formula i suoi ordini del giorno con parole semplici e solenni, con quella schiettezza, per mezzo della quale non si sa dove finisca la parte del soldato e incominci quella dell'uomo. Il 7 maggio, in mare, un altro momento indimenticabile quanto le ore febbrili della partenza: lo spirito garibaldino vi è racchiuso in tutta la sua intensità. "Fu fatto fare silenzio. Da poppa a prora tacemmo tutti e la voce potente d'uno che leggeva un foglio, suonò alta come una tromba. L'ordine del giorno ci ribattezza Cacciatori delle Alpi, con certe espressioni che vanno dritte al cuore. Non ambizioni, non cupidigie; la grande patria sovra ogni cosa, spirito di sacrificio e buona volontà. Conosco un altro ordine del giorno, che fu letto non so bene se nella ritirata da Roma nel 1849, o l'anno scorso ai volontari, prima che passassero il Ticino. Si sente sempre lo stesso spirito. Anche in quello, il Generale diceva di offrire non gradi né onori, ma fatiche, pericoli, battaglie e poi ... [...] per tenda il cielo, per letto la terra, per testimonio Iddio" (18). Talamone, un paese di povera gente, carbonai e pescatori, con un bel panorama dal Monte Argentaro al Porto Santo Stefano: "Con una veduta come questa sempre dinanzi agli occhi, dovete fare una bella vita!. Se si mangiasse cogli occhi. Ma basta, finché si campa! Così mi diceva un giovane carbonaio" (19). L'attenzione dell'Abba alla gente, la sua disposizione al dialogo e alla ricerca per capire, lo conducono a fugaci ma incisive annotazioni che fissano immagini di miseria attraverso la voce degli umili, gente abituata e temprata alla lotta per la vita. Anche a Marsala l'immagine della miseria è viva. Rientrato in città con altri della sua compagnia, ne riesce passando per "una via sonnacchiosa... innanzi a certe casuccie dove la miseria si ridestava nelle stanze terrene semiaperte e schifose..." (20). Garibaldi, nella sua semplicità di uomo avvezzo alla vita dura, gli rivela il senso della grandezza degli antichi: "E il Generale seduto a piè di un olivo, mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno" (21). A Salemi, la miseria è ancora più animata. Resta impressa l'immagine della donna con un panno nero sulla faccia che gli chiede l'elemosina e più ancora dell'altra che segue: "Ma subito una giovane dagli occhi grandi, soavi, e smunta, malata, mi porse un cedro colla destra, e colla sinistra tesa mi disse: - Signorino! - Un cencio di gonnella le dava a mezzo stinco, e aveva i piedi ignudi. Le posi in mano due prubbiche, monetuccie di qui che paiono farfalle; essa le prese e corse via. La veggo ancora, colle gambe scarne, battute dai brandelli della veste lurida e corta, fuggire non so se lieta o vergognosa" (22). Impressioni fugaci e puntuali di ambienti, di persone, di cose. Ecco Salemi: "Vasta, popolosa, sudicia, le sue vie somigliano colatoi. Si pena a tenersi ritti; si cerca un'osteria e si trova una tana. Ma i frati ah! i frati gli avevano belli i conventi, e questo dov'è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati. Gli abitanti, non scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo. Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V'era una brigata d'amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciottole di legno che... Eppure ne mangiai anch'io" (23). E' l'incontro con un'altra faccia dell'Italia, che Abba guarda con occhio sereno ma attento a scoprire le ragioni di tanta disuguaglianza sociale (24). Nelle pagine dedicate alla giornata di Calatafimi, Abba racchiude l'essenza del suo Risorgimento. Garibaldi con la spada inguainata sulla spalla procede a piedi lentamente e controlla l'azione, mentre gli cadono intorno i volontari; Bixio galoppa per tentare di ripararlo col suo cavallo, ma egli rifiuta; il tuono del cannone dei Mille infonde coraggio; la tromba incessante suona il passo di corsa, che giunge con squillo angoscioso come la voce della patria in pericolo sono colti con una intensità epica tanto più grande quanto più scarno è il racconto. Il Risorgimento qui tocca il suo pathos più efficace. Il dialogo con il padre Carmelo a Parco contiene uno dei temi-chiave tra i più importanti per comprendere la valutazione risorgimentale di Abba, la quale oltre l'epopea delle gesta garibaldine, si apre ad un panorama dagli orizzonti più ampi verso la vita sociale. Le parole del padre Carmelo, il "frate strano" sembrano velare le riflessioni dell'Abba, le quali si estendevano, oltre ai temi della libertà e dell'indipendenza, alla questione sociale, suggerita dalle constatazioni oggettive della realtà economica siciliana: "Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l'ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L'anima di padre Carmelo strideva. Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell'avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo rattiene dal farlo. - Venite con noi, vi vorranno tutti bene. - Non posso. - Forse perché siete frate? Ce n'abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue. - Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l'Italia. - Certo; per farne un grande e solo popolo. - Un solo territorio..! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice. - Felice! Il popolo avrà libertà e scuole. - E nient'altro! interruppe il frate: - perché la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no. - Dunque che ci vorrebbe per voi? - Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa. - Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne! - Anche contro di noi; anzi prima che contro d'ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest'ora, quasi ancora con voi soli. - Ma le squadre? - E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più? Non seppi che rispondere e mi alzai..." (25). Appare chiaro, dalle affermazioni del padre Carmelo, che, oltre a talune motivazioni di fondo di una politica della irrealtà per allora (e ancora per molto tempo dopo), egli mette l'accento su quella che poi sarà dibattuta come la questione meridionale. I due parlavano non della rivolta ai Borboni, ma di una rivoluzione con tutta quella che doveva essere la sua portata storica. L'interlocutore dell'Abba accentua i temi di fondo di quella che poteva essere la prospettiva degli intellettuali illuminati e nel contempo rivela quella che era la reale situazione in Sicilia. Egli pare invocare "una guerra degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli" che sono dappertutto e non soltanto contro la dinastia regnante. E' la richiesta di un cambiamento totale, utopistica quanto mai, ma è una forte voce di protesta contro la persistenza di un sistema sociale ancorato al feudalesimo. Abba è stato tra i primi settentrionali a capire il dislivello tra nord e sud sul piano sociale e psicologico, a rendersi conto che il raggiungimento dell'Unità italiana non poteva essere che un punto di partenza (26). D'altra parte, anche il temporaneo governo garibaldino in Sicilia ebbe ad incontrare forti difficoltà in tutti i rami della sua amministrazione. La realtà siciliana si rivela, nella sua cruda effettualità, nelle parole del frate rivoluzionario, al quale l'Abba pare confidare anche il suo pensiero. Con la presa di Palermo l'epopea dei Mille era compiuta. Giungevano altre forze ad affiancarli, iniziavano gli intrighi della politica piemontese, i pericoli della diplomazia, le esigenze dell'ordinamento di un governo regolare in Sicilia, i disegni di Cavour per prendere in mano i frutti di quella impresa fortunata e ridurli nell'orbita subalpina. Si tentava di sminuire il valore dell'iniziativa garibaldino-democratica; occorreva, per quanto poteva essere possibile, ridimensionare la portata del successo di Garibaldi, attraverso la missione di uomini di fiducia del governo di Torino. Abba evidenzia il profilarsi di quella svolta politica nell'ambito della campagna meridionale. "Mi volgo indietro - egli scrive - Palermo è laggiù come la vedevamo da Gibilrossa, dal Parco, dal Passo di Renna, ma ora libera nella sua gloria fra le sue rovine, di giorno e di notte tutta un festino. Partendo, ho inteso che già sono arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fin dai primi giorni della capitolazione. Quella sera che ci raccolsero in fretta e furia e ci tennero sotto l'armi delle ore in via Maqueda, che cosa era stato? Mi disse Rovighi che si parlava d'un'alzata di La Masa per togliere a Garibaldi la Dittatura e assumerla lui gridato dal popolo. Era una calunnia: ma il fine?" (27). Anche taluni primi atti di Garibaldi dittatore erano risultati invisi ad una larga fascia di siciliani. Non era possibile che ottenessero quello che egli non poteva loro concedere; impopolare era la coscrizione militare. Osserva amaramente Abba: "Questo popolo che ci ha fatta la luminaria la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può indovinarlo. Parlano, sorridono, sono gai; discorrono con noi, ma a gesti impercettibili se la intendono tra loro. Che abbiano dentro parecchie anime? Fra Pantaleo ha messo il dito sulla piaga, lui! Questa gente ci si è fatta nemica per la coscrizione decretata dal Dittatore" (28). La faccia di un'altra Italia continuava a rivelare i suoi lineamenti in modo sempre più marcato e il dialogo ora accentuava le sue difficoltà. Dopo la liberazione di Napoli, con l'arrivo delle truppe piemontesi, prendono corpo i sospetti e le diffidenze: i garibaldini e i soldati di Vittorio Emanuele sembrano divisi da un segno algebrico contrario. "In un canto della piazza - scrive Abba v'è un battaglione di Savoia, ora brigata Re. I soldati stanno sotto le tende, e gli ufficiali si aggirano intorno ad esse, forse temendo che qualcuno ne sgusci via e venga con noi. Ma ci guardano, e c'invidiano [...] - Cosa ci vengono a fare? - ha detto un ufficiale dei nostri: - poi vorranno aver fatto tutto loro, aver gli onori e tutto" (29). Con la battaglia del Volturno e più ancora con l'incontro di Teano, la gesta garibaldina trovava il suo epilogo. La prosa di Abba assurge a tono di elegia. La pagina che ricorda l'incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele, tra le più alte da lui scritte, esprime tutto il pathos garibaldino: "...Sono quasi seicento anni, Carlo d'Angiò veniva in qua da Roma segnato e benedetto dal Papa e si pigliava la corona di Manfredi, tra i morti di Benevento. Il papa gliela aveva data, purché se la fosse venuta a prendere. Ma oggi un popolano valoroso come... cos'importa dirlo? Un popolano generoso come non sarà mai nessuno, semplice come Curio Dentato, delicato come Sertorio, anche fantastico come lui e sprezzatore come Scipione, in nome del popolo strappa quella corona al re di Napoli e dice a Vittorio Emanuele: - È tua! -" (30). L'Italia garibaldina e democratica consegnava al re di Sardegna il Regno delle Due Sicilie, dopo averlo conquistato con un alto contributo di sangue. La monarchia, per mezzo del suo governo diplomaticamente abile e con tempestivo intervento, era giunta a bloccare la marcia di quel movimento militare che non nascondeva, nelle sue premesse, il desiderio di arrivare a Roma. "Cosa ci vorrebbe a fare lo scoppio di una guerra civile?". E' un interrogativo di Abba, comune a molti altri suoi commilitoni. Ma Garibaldi era forte nella sua prudenza e più ancora nella sua lealtà. "Salute al re d'Italia!" aveva detto con voce ferma il Generale ed era la consacrazione di quella Unità raggiunta con tanti stenti, ma, da quel momento, iniziava una nuova fase tra garibaldismo e monarchia, quella che porterà ad Aspromonte e a Mentana. Garibaldi non andò a colazione col re, aveva preferito mangiare pane e cacio con i suoi amici sotto il portico di una chiesa. Così era rimasto nella propria grandezza; non aveva voluto scendere al rango dei nobili dell'alta ufficialità dell'esercito piemontese. "Ora si ripasserà il Volturno - nota Abba -, si ritornerà nei nostri campi o chi sa dove; certo non saremo più alla testa, ci metteranno alla coda. Dicono che il Generale lo disse a Mario. E questa deve essere la spina del suo gran cuore che voleva un milione di fucili da dare all'Italia, e l'Italia non diede che ventimila volontari a lui" (31). Il 3 novembre, a Napoli, il Generale consegnava le medaglie ai volontari decretate dal municipio di Palermo: "E allora un ufficiale cominciò a chiamare a nome i morti che rispondevano in noi, con l'improvviso ritorno della loro visione [...] e a ogni nome un fremito correva tutta la nostra fila. Meglio morti o vivi? Si diffondeva una malinconia cupa che pur pareva entusiasmo" (32). A Caserta, il 9 novembre, doveva arrivare il re per passare in rassegna l'esercito garibaldino ma il sovrano non venne. Giungeva invece Garibaldi "col cappello ungherese, col mantello americano, e insieme a Lui tutte camicie rosse. Quel cappello calcato giù sulle sopraciglia segnava tempesta... Così si andò verso il Palazzo reale a sfilare dinanzi al Dittatore, piantato là sulla gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l'ultima ora del suo comando. Veniva la voglia di andarsi a gettar ai suoi piedi gridando: - Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa! - Ma la guerra civile? Ma la Francia? [...]. Il Generale, pallido come forse non fu visto mai, ci guardava. S'indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro e gli allagava il cuore..." (33). La tristezza di Garibaldi in quel giorno non è soltanto un'immagine che la poesia di Abba ha fatto rivivere ma è il senso pieno della sua interpretazione del Risorgimento. È quel Risorgimento tradito non soltanto in quei giorni dell'autunno del 1860, ma sempre: la monarchia aveva profanato, anche dopo, con Roma capitale, gli ideali della democrazia garibaldina, la quale, per amore dell'Italia, aveva collaborato con essa. "Ora odo dire che il Generale parte - si legge nelle ultime righe delle Notereste che se ne va a Caprera, a vivere come in un altro pianeta; e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende. Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero, ma di quelle della Sibilla; portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta!... rimani pur bianca... Finiremo poi..." (34). Questo celebre finale delle Noterelle ci appare come il sugo di tutta l'esperienza risorgimentale di Abba. Quei garibaldini che da Caserta ebbero a disperdersi come foglie, si raccolsero ancora nel 1862 ad Aspromonte, nel 1866 a Bezzecca, nel 1867 a Mentana, nel 1870 in Francia, ma non riuscirono più a formar qualcosa che avesse un senso per quell'Italia garibaldina e onesta, come essi l'avevano invocata. Per questo il nostro scrittore lascia aperto il discorso: "Finiremo poi..." ma quel poi, resterà una sua assidua aspirazione. Egli, che aveva il "senso delle cose vive e delle cose morte", continuò la sua vita operosa di ogni giorno tra "ricordo e desiderio"35 e per questo molto ebbe a scrivere perché, come Mazzini e Garibaldi gli avevano insegnato, occorreva educare con serena fiducia nel domani.

NOTE

1) Cfr. Mazzini. Pensieri, giudizi e ricordi, ora editi per la prima volta [...] nel primo centenario della nascita, Milano, Arti Grafiche G. Citterio, 1905, p. XXI (E' una raccolta di affermazioni di trentatré personalità rappresentative nel campo della cultura e della politica).

2) Nella Noterella del 22 agosto, al Faro, Abba ha vivo il ricordo del padre Canata. E' una pagina che fissa mirabilmente taluni aspetti della pedagogia scolopica. E' bene averla presente: "O frate Calasanziano maestro mio; cosa fai, in questo momento, nella tua cella, donde in quello scoppio del quarantotto che noi sentimmo appena da fanciulli, l'anima tua di trovatore si lanciò fuori ebra di patria? E quasi voleva andarsene dalla terra, quel giorno del quarantanove orrendo, quando dalla cattedra dicesti ai tuoi scolari: Fummo vinti a Novara! Ci narravano i più grandi, che il padre maestro, dicendo così, era caduto sfinito: e noi mirandolo per i corridoi del collegio, rapido, sempre agitato, fronte alta, capelli bianchi all'aria, e l'occhio in un mondo ch'egli solo vedeva; ci sentivamo mancar le ginocchia e pensavamo a Sordello di cui, leggendoci Dante ci voleva infondere la gentilezza, la forza e lo sdegno. Fu lui, gran frate, che del cinquantatrè ci lesse, nella scuola, l'ode: Soffermati sull'arida sponda. Non disse il nome dell'autore, ma promise il primo posto a chi lo avesse indovinato. Indovinammo tutti! Non avevamo già letto il Coro del Carmagnola? [...]. E a lui, in questo momento, ritornano forse le immaginazioni di noi sette od otto suoi scolari che siam qui; forse ricorda come ci faceva raggiar di collera, quando ci leggeva nel Colletta la morte del Caracciolo, o gli eccidi dei Napoletani del novantanove; forse dice che alle guerre di Sicilia ci preparò egli stesso" (Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, Edizione nazionale delle opere, Brescia, Morcelliana, 1983, vol. I, pp. 425-426).

3) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini cit., vol. II, pp. 205-207.

4) Cfr. G.C. ABBA, Ricordi e meditazioni, Biella, Stab. Tip. G. Testa, 1911, p. 99.

5) Cfr. G.C. ABBA, Ricordi e meditazioni, cit., p. 100.

6) Cfr. Comitato per la Domus Mazziniana, Pisa Catalogo degli autografi, documenti e cimeli, a cura di Augusto Mancini, Ersilio Michel, Ezio Tongiorgi, Pisa, Domus Mazziniana, 1952, p.47.

7) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. III, p. 23.

8) Collaborava assiduamente a "La Stampa" di Torino, a "Il Secolo" di Milano, a "La patria degli Italiani" di Buenos Aires. Gran parte di tali scritti sono stati poi raccolti in volume (Cfr. LEONIDA BALESTRERÒ "Gli ultimi scritti giornalistici di G.C. Abba", in Miscellanea di storia del Risorgimento in onore di Arturo Codignola, Genova, E.R.G.A., 1967, pp. 39-89).

9) Cfr. G.C. ABBA, Da Quarto al Volturno. Noterelle d'uno dei Mille, con introduzione e note di Lorenzo Bianchi, Bologna, Zanichelli, 1937, p. XXVIII.

10) Cfr. G.C. ABBA, Ricordi e meditazioni, cit., pp. 230-234. Questa ode, certamente interessante, non figura in NELLO PUCCIONI, Garibaldi nei canti dei poeti suoi contemporanei e del popolo italiano, Bologna, Zanichelli, 1912.

11) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 303.

12) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 304.

13) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, pp. 305-306.

14) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, pp. 308-309.

15) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 309.

16) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 308.

17) Cfr. G. C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 308.

18) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, pp. 311-312.

19) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 312.

20) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 325.

21) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 326.

22) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 328.

23) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 329.

Anche Napoli gli farà un'impressione disgustosa. "Grande, immensa, varia da perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio della miseria. Non vidi mai sudiciume portato in mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri poveri; c'è qualcosa che mi dà al cervello come a traversare un padule" (Cfr. ivi, p. 432).

24) Scrive nella Noterella: Villafrati, 27 giugno: "Queste campagne come hanno fatto a diventar deserte? Si va delle ore senza vedere una casa. Contadini? Non ve ne sono. I coltivatori stanno nei villaggi, grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, con l'asino e le altre bestie men degne. Che tanfo e che colpe! All'alba movono pei campi lontani, vi arrivano, si mettono all'opera che quasi è l'ora di tornare; povera gente, che vita!" (Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 396).

25) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, pp. 351-352.

Scriverà in seguito, dopo ulteriori constatazioni: "Il padre Carmelo sapeva quel che diceva quando ci parlammo al Parco. Quaggiù vi sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. Pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un linguaggio come questo della poveraglia di qui". (Cfr. G.C. ABBA, ivi, p. 395).

26) Abba aveva già sentito amore per la Sicilia attraverso la lettura del "Dottor Antonio" di Giovanni Ruffini; quel libro era stato per lui una rivelazione. Si legge in proposito in una Noterella del 10 agosto: "Ebbi un lampo nell'anima. Il desiderio di questa Sicilia che mi tirava a se da tanto tempo, empiendomi la fantasia di delizie e il core di pene misteriose; quella certezza che aveva di trovare nelI'isola, non sapeva chi, ma qualcuno conosciuto, caro, un amico; tutto mi veniva dall'aver letto, anni sono, il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini. Me ne sono avveduto dianzi udendo rammentare questo libro, che mi tenne sull'ali tanti giorni dopo che l'ebbi letto. E fui lì per inginocchiarmi sulla rena, a ringraziare a mani giunte lo scrittore che dall'lnghilterra rivelò all'Italia questa parte delle sue terre, questo popolo qual è, o qual sarà, non importa" (Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 419).

27) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 392.

28) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 392.

29) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 437.

30) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini cit., vol. I, pp. 452-453.

31) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 454.

32) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini cit., vol. I, p.455.

33) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, pp. 456-457.

34) Cfr. G.C. ABBA, Scritti garibaldini, cit., vol. I, p. 457.

35) Queste espressioni si colgono all'inizio del romanzo storico del nostro autore (Cfr. G.C. ABBA, Le rive della Bormida nel 1794, ediz. con prefazione di Dino Mantovani, Bologna, 1912, p. 3).

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