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VITTORIO EMANUELE II,

IL CARIGLIANO

 

Carmine De Marco (dal libro Revisione della Storia dell'Unità d'Italia)

da: http://www.adsic.it/storia/VITTORIO_EMANUELE_II.htm

Il Savoia regnante al momento dell’unità d’Italia, Vittorio Emanuele II, non apparteneva ai Savoia ma ad un suo ramo cadetto, i Carignano. Vittorio Emanuele diventò re di Sardegna nel 1849 e re d’Italia nel 1861. Nacque nel 1820, morì nel 1878. Dopo la nascita dello Stato unitario italiano, data la necessità di fronteggiare la polemica repubblicana e di sopravanzare Garibaldi in popolarità, tutta una apologetica ufficiale [l’aggettivo è di Mack Smith] fu messa in azione allo scopo di gonfiare la sua reputazione. La realtà che si nascondeva dietro questa cortina di incenso, era quella di un uomo debole e generalmente insignificante, scaltro e di buon cuore, ma superstizioso e rozzo, che possedeva un carattere semplice non spregevole, ma ben poco del lustro e dello splendore della maestà regia. Le sue principali passioni erano le donne, i cavalli e la caccia. Quando la sua provincia avita di Savoia dovette essere ceduta alla Francia, la sua prima preoccupazione fu la perdita delle riserve di caccia. Analogamente ai suoi predecessori ed a suo figlio, mantenne pubblicamente un’amante e dei figli illegittimi e sembrava convinto che da un sovrano ci si attendesse una condotta del genere (MS).

L'ASPETTO DI VITTORIO EMANUELE

Quando divenne re d’Italia, nel 1861, Vittorio Emanuele II aveva solo quarantuno anni, ma era già precocemente invecchiato e ingrassato; aveva incominciato a tingersi i capelli e gli enormi baffi arricciati all’insù, cosa che non mancarono di notare alcuni attenti osservatori che videro la tintura colargli sul viso per l’effetto della pioggia (VE). "Torino 1861. Vittorio Emanuele ha quarantuno anni; è di statura sopra la media, ma la pinguedine lo fa apparire sgraziato, specialmente quando non è in uniforme. Porta il capo eretto; ha lineamenti tutt’altro che regolari, ma la sua fisionomia si fa egualmente notare: lunghissimi baffi, occhi azzurri e un po’ sporgenti, il naso all’insù danno al suo viso un carattere singolare di audacia e di risolutezza" (ID).

L'ASPETTO DI CARLO ALBERTO, PADRE DI VITTORIO EMANUELE

"L’aspetto di Carlo Alberto presentava un non so che di inesplicabile. Altissimo di statura, smilzo, col viso lungo, pallido ed abitualmente severo". Così Massimo d’Azeglio lo descrive ne I miei ricordi.

IDENTITA' DI VITTORIO EMANUELE

Nella sera del 16 settembre 1822, la nutrice di Vittorio Emanuele, Teresa Zanotti, essendosi accostata col lume in mano al lettino di lui, appiccò inavvertitamente il fuoco alle cortine di mussola che lo ricoprivano. Le fiamme si svolsero con tanta rapidità che l’augusto bambino sarebbe perito tra orribili spasimi se quella affettuosa donna, incurante di sé, non l’avesse pigliato tra le braccia e portato in mezzo della camera, dove, depostolo, gli versò acqua sopra. Quest’atto eroico salvò il bambino il quale non riportò che due scottature, una alla mano destra, l’altra al fianco sinistro; ma il fuoco appigliandosi alle vesti della nutrice, così orribilmente la devastava che essa morì, dopo quindici giorni di indicibili e strazianti dolori (DB). Vittorio Emanuele era talmente dissimile dal padre Carlo Alberto da avvalorare l’ipotesi che non ne fosse figlio, essendo il vero erede bruciato vivo nel rogo della culla e sostituito con il figlio di un macellaio di Porta Romana a Firenze, un certo Tanaca. In effetti, la culla andò in fiamme e l’incidente è menzionato in un rapporto della polizia di Firenze; a Poggio Imperiale infatti Carlo Alberto soggiornava con la famiglia nel settembre del 1822. La cosa fu risaputa e molti si meravigliarono che il fantolino fosse sopravvissuto (MC VE). Massimo d’Azeglio di tutto questo ne era convinto (VE).

IL GIOVANE CARIGNANO

I rapporti degli insegnanti di Vittorio Emanuele contenevano frasi come "è sempre addormentato, lavora poco o nulla", "lavora con somma noia e indolenza", "un’ora di lezione per lui non basta neanche per spiegargli la più semplice proposizione" (GO VE)

VITTORIO EMANUELE SOVRANO COSTITUZIONALE

Nel 1848 si dichiarò contrario alla Costituzione proclamata dal padre (UT). Il suo primo atto di sovrano fu di negoziare l’armistizio con il maresciallo Radetzky dopo l’abdicazione del padre Carlo Alberto, sconfitto nel gennaio 1849 a Novara. Secondo la versione allora accolta, era stata la fermezza del nuovo re nelle trattative per l’armistizio di Vignale a salvare lo statuto piemontese che Radetzky aveva sperato di fargli abrogare. Ma questa versione si rivelava una falsificazione dei fatti: gli austriaci avevano essi stessi un governo costituzionale e Radetzky non tentò affatto di costringere i piemontesi a rinunciare allo statuto (VE). La verità è che Vittorio Emanuele non salvò patriotticamente la costituzione, ma al contrario disse di voler diventare amico degli austriaci e ristabilire un maggior grado di potere monarchico (VE). Poiché la Camera dei Deputati si rifiutava di ratificare la pace con l’Austria, il Carignano sciolse la Camera ed entrò indirettamente nelle nuove elezioni esortando gli elettori ad appoggiare i moderati. L’ambasciatore francese scriveva di Vittorio Emanuele: "Il re non ama lo statuto come forma di governo, né la libertà della camera e della stampa come istituzioni. Le accetta, temporaneamente, come armi di guerra. È bene non ingannarsi sulle disposizioni cavalleresche del monarca" (VE). Vittorio Emanuele II riferì all’ambasciatore austriaco la sua inesorabile ostilità verso "ces canailles de démocrates" "quelle canaglie dei democratici" perché "je le ferais pendre tous" "io li farei impiccare tutti". "Avec un couple de régiments, je me charge de mettre toute cette canaille à la raison" "Con un colpo di autorità mi incarico io di ridurre tutte queste canaglie alla ragione" (VE). Il primo dicembre 1862, Urbano Rattazzi presentò le dimissioni a Vittorio Emanuele dopo un furibondo litigio tra i due. Pare che si fossero rinfacciati reciprocamente un comportamento da avventuriero. Probabilmente avevano ragione entrambi. A questo punto Vittorio Emanuele non trovando nessuno di più malleabile ai suoi voleri orientò la sua scelta su Luigi Carlo Farini che soffriva di gravi turbe psichiche e non riusciva ad articolar bene la parola: "Restava imbambolito - scrisse di lui il deputato Finali - cogli occhi fissi e quasi mai prendeva la parola" (RM).

AMOR FILIALE DI VITTORIO EMANUELE

La sconfitta di Novara del gennaio 1849, subita ad opera del mediocre esercito di Radetzky, costituiva, per i piemontesi, una umiliazione nazionale, e vi erano buone ragioni per cercare un capro espiatorio per ciò che era avvenuto e che sembrava incredibile. Vittorio Emanuele riversò quindi tutta la responsabilità sul padre e sui rappresentanti del popolo in parlamento, i soli che avessero voluto la guerra (VE). Accusò il padre all’ambasciatore francese perché "trompait tout le monde" "rompeva le scatole a tutto il mondo" con il suo "régime déplorable" ed accusò quegli italiani che perseguivano assurdamente "le fantôme de l’indépendance italienne qui a perdu notre malhereux pays" "il fantasma della indipendenza italiana che ha perduto il nostro sfortunato paese" (VE).

DOPPIEZZA DI VITTORIO EMANUELE

Per tutta la vita la sua reputazione di doppiezza costituì un ostacolo del quale subì le conseguenze negative, perché, nonostante la leggenda accuratamente costruita della sua franchezza e fidatezza, i politici di professione considerarono sempre dubbie anche le sue più serie affermazioni. Essi sapevano che in realtà il suo cuore non batteva per la politica e gli mancava qualsiasi capacità di tenacia e di serietà. Perciò gli osservatori avevano l’abitudine di riferire che le parole da lui pronunciate non potevano essere prese sul serio, che egli avrebbe detto una cosa a uno, e mezz’ora dopo la cosa contraria ad un altro. Massimo d’Azeglio fu l’uomo che inventò la leggenda dell’onestà e integrità del re, la cui parola poteva essere sempre creduta (VE).

IL SOLDATO VITTORIO EMANUELE

Napoleone III aveva detto una volta di lui che sarebbe stato un ottimo sottufficiale ma che gli mancavano le qualità di un comandante, e Vittorio Emanuele veniva trattato di conseguenza (VE). Il 4 giugno del 1859 si ebbe a Magenta la prima grande vittoria alleata, nella guerra tra i franco piemontesi e gli austriaci. Nicola Nisco, al quale furono commissionati, e sicuramente pagati dal re, i sei volumi della storia d’Italia, riuscì ad attribuire il merito principale di quella giornata ai piemontesi e al loro intrepido comandante, ma di fatto si trattò di una vittoria dovuta interamente ai francesi: il comando piemontese si trovava a dieci chilometri di distanza, e sul fronte degli alleati gli italiani non subirono neanche una perdita. Più di un reggimento italiano invece combatté dalla parte del nemico. Al pubblico italiano la verità fu tenuta volutamente nascosta (VE). Il 24 giugno fu il giorno di Solferino. A rigore questa fu, al pari di Magenta, una vittoria francese, mentre i piemontesi vinsero quello che può essere considerato uno scontro secondario, qualche chilometro più in là, a San Martino. Il generale Solaroli, uno degli aiutanti di campo del re, racconta nel suo diario che il re trascorse buona parte di quella giornata in uno stato di confusione, incapace di decidere dove e come concentrare le sue forze in modo da assumere il controllo della battaglia. Il volume di storia ufficiale della guerra, pubblicato dallo Stato Maggiore prussiano, giunse ad affermare che San Martino era piuttosto una vittoria degli austriaci, contro le preponderanti forze nemiche, che non una vittoria piemontese. Alcuni generali francesi parlarono con aperto disprezzo dei loro alleati italiani, e lo stesso fece l’imperatore francese all’occasione (VE).

VITTORIO EMANUELE E LA FIGLIA

Vittorio Emanuele scriveva alla figlia, principessa Clotilde, per chiedere il permesso di sposare la sua donna, la Rosina Vercellana. "Cara Kekina, mi faccio un gran coraggio e mi metto a scriverti. Cara Clotilde, ho bisogno, ho diritto di avere un po’ di pace, desidero di potere morire tranquillo. Ho bisogno perciò di essere riunito a quella persona che da 17 anni fu compagna indivisa delle mie pene e dei miei lavori per la patria e compagna nel mio lungo soffrire. I sun pi nen genname. Il tuo misero padre, Vittorio, detto il disgrassià". (Lettere di Vittorio Emanuele II, vol. I, n. 863).

VITTORIO EMANUELE E LE DONNE

Quanto alle fortune amorose, Vittorio Emanuele ne parlava con una franchezza e una disinvoltura che non erano degne del suo soprannome di Galantuomo. Il fatto più singolare è che spesso confondeva i successi avuti con quelli che avrebbe voluto avere (ID). Nel gennaio del 1860, nelle beghe che portarono alle dimissioni di La Marmora e al ritorno di Cavour a presidente del consiglio, nella speranza di sbarazzarsi di Cavour, le ambizioni politiche di Rattazzi e della Sinistra erano anche appoggiate dall’amante del re, Rosina Vercellana (VE). Vittorio Emanuele conferì di nuovo l’incarico al suo ex presidente del consiglio, Cavour, ma a malincuore e soltanto dopo averne ottenuto la promessa che la posizione della Rosina, quale maîtresse en titre, non sarebbe più stata rimessa in discussione (VE). Vittorio Emanuele ebbe molte amanti e molti figli illegittimi. La contessa Della Rocca e la signora Bensa, sue amanti, erano mogli di due suoi cortigiani (VE). A Torino si diceva che Vittorio Emanuele II fosse fin troppo il padre del suo popolo (MS). Si diceva anche che il generale Della Rocca gli fosse parente per parte di moglie, come Urbano Rattazzi.

VITA FAMILIARE DI VITTORIO EMANUELE

Il castello di Stupinigi serviva, durante l’estate, da residenza alla famiglia reale, e la regina soleva stabilirsi coi figli in quel grazioso edificio quando la calura di Torino diventava insopportabile. Ma nemmeno a Stupinigi, più che a Torino, la regina era garantita contro le infedeltà coniugali del re. Questi, senza delicatezza e senza alcuno scrupolo, alloggiava la sua amante Rosina all’estremità del parco, in una casetta, dove si recava spesso a far visita alla sua seconda famiglia (ID).

LA ROSINA VERCELLANA

Rosina era figlia di una delle guardie del palazzo. Aveva sedici anni, era bella e molto virtuosa, quando il re la notò. Abbastanza abile e intelligente, la ragazza seppe, sin dagli inizi, conquistare Vittorio Emanuele. Fra tutte le sue amanti, fu la sola che fosse riuscita a esercitare su di lui una vera influenza (ID). È facile, del resto, spiegare il predominio esercitato da questa donna sul re, spirito facile da dominare. Presso di lei, infatti, quell’uomo, che sopra ogni altra cosa odiava l’etichetta e le forme, trovava modo di soddisfare interamente il suo amore per l’indipendenza e la semplicità. "La contessa di Mirafiori, o per meglio dire la Rosina, come tutti la chiamano in Piemonte, è una donna bella ancora, ma senza grazia e senza nessuna distinzione. L’ultima volta che la vidi era al Teatro Alfieri; portava un cappello guarnito di piume, il suo corpo era coperto di diamanti: impossibile immaginare una donna vestita con un cattivo gusto più completo" (ID).

INTOLLERANZA VERSO LA STAMPA

Il giornale La Presse il 7 agosto 1867 pubblicava una corrispondenza da Firenze: "Il re non è giammai a Firenze. La Contessa di Mirafiori che ha sposato clandestinamente (morganatiquement) e ch’è meglio conosciuta sotto il nome di Rosina, antepone Torino alla Petraja, al Castello di Poggio a Caiano che ebbe già ad abitare la celebre Bianca Capello. Sarebbe egli vero che gl’italiani senza saperlo si avessero nella famosa Rosina, figlia mi dicono di un tamburino maggiore, la loro Regina?". Vittorio Emanuele faceva scrivere al Rattazzi: "Sua Maestà mi ordina di segnalare a Vostra Eccellenza la riproduzione di una parte dell’articolo della Presse. Detta riproduzione è riportata dal conte Cavour, il quale con termini grossolani e poco delicati verso la persona del re fa pure i suoi commenti. Comunico pertanto a Vostra Eccellenza tanto la riproduzione che i commenti, pregandola a volerne parlare col conte Castellamonte, il quale potrà, recandosi a Torino, far chiamare Vegezzi Ruscalla, direttore di detto giornale, per ammonirlo in tutte le forme" (AL).

OPINIONE DI UNA DONNA SU VITTORIO EMANUELE

Un ritratto preciso e penetrante ci viene da una delle ex amanti del re, Letizia, che egli doveva più tardi dare in moglie all’uomo politico italiano, Rattazzi, da lui prediletto: "Vittorio Emanuele era un soldato e un gentiluomo, il che non significa che fosse un uomo galante. Nella sua semplicità era sensibile all’adulazione purché non fosse troppo scoperta. Era abile, intelligente, acuto sotto sembiante di una natura buona e onesta. Dietro modi bruschi e militareschi, possedeva più scaltrezza di quanto aveste immaginato. Benché sostenesse il contrario, era avido di popolarità; aveva scarsa cultura, ma l’intuizione gli aveva insegnato molto di più di quanto non avrebbe mai appreso a scuola. Era di modi piuttosto goffi ed impacciati: questo rozzo soldato riusciva a sbarazzarsi della sua timidezza soltanto in compagnia delle donne" (VE).

VITTORIO EMANUELE E I SOLDI

La lista civile del re, il suo appannaggio, era un punto particolarmente dolente per il governo. Vittorio Emanuele, dopo il 1860, aveva un tenore di vita modesto, ma non aveva il senso dell’economia, e allo scopo di mantenere intatto il prestigio della casa reale si era allegramente addossato le spese di manutenzione di palazzi e riserve di caccia che erano appartenuti a una mezza dozzina di dinastie spodestate. Arrivò persino a comprare o a farsi assegnare nuove tenute per soddisfare la sua insaziabile passione per la caccia. Amava fare lussuosi regali alle sue amanti. Si vantava di essere solito corrompere gli uomini politici con regali e di servirsi di una sua polizia privata. Era circondato da truffatori di ogni genere, che sfruttavano la sua ingenuità e la sua generosità; e in fatto di contabilità amministrativa la gestione economica della casa reale non aveva fatto molti passi avanti dai tempi di suo padre. La frequenza con cui Letizia Rattazzi parla nelle sue memorie di malversazioni della casa reale, induce a pensare che suo marito Urbano debba essere stato debitore della sua influenza a corte anche all’abilità dimostrata nel districare il re da difficoltà economiche; in particolare ella ricorda quanto discredito gettassero sul re alcune equivoche operazioni finanziarie riguardanti i beni ecclesiastici e la concessione di appalti ferroviari a compagnie straniere (VE). Letizia Rattazzi aggiunse con una punta di malizia, naturalmente senza fornirne le prove, che il re percepiva con regolarità parecchi milioni l’anno dagli stanziamenti per l’esercito e che nel 1868 intascò la bella somma di venti milioni, un peccatuccio che nel bilancio fu nascosto con difficoltà (VE). Nel 1864 si fece molto chiasso intorno alla generosità regale che acconsentiva a diminuire di tre milioni la lista civile di Vittorio Emanuele; ma questa riduzione seguiva di poco l’aumento del suo reddito annuale da quattro milioni a dieci e poi a diciassette. Questa riduzione non era niente altro che un bel gesto, ed è chiaro che le spese di corte non furono ridotte in proporzione; il tesoriere di corte non aveva altro mezzo che far accumulare i debiti e ricorrere quindi al governo perché vi ponesse rimedio. I radicali protestavano perché la lista civile di Vittorio Emanuele II era superiore a quella inglese e americana (VE). Le finanze della corte costituivano sempre un problema delicato. Nel 1867 Vittorio Emanuele aveva fatto ancora un altro bel gesto, quello di rinunciare a quattro milioni della sua lista civile. Meno reclamizzato era il fatto che per far ciò egli aveva posto come condizione di ricevere in cambio una somma molto maggiore con la quale pagare i suoi debiti, minacciando in caso contrario di fare uno scandalo e di accumulare nuovi debiti. Il ministro delle finanze Sella era convinto che questa fosse una delle cause dei gravi problemi finanziari dell’Italia e in parlamento si rivolse al re, senza nominarlo apertamente, invitandolo a dare alla nazione miglior esempio di economia e di moralità (VE). Il 31 luglio 1867 Vittorio Emanuele telegrafava al Rattazzi: "Posto che la Camera è ancora in numero, La prego di fare in modo onde passi legge Lista civile, senza di ciò dichiaro di fare nuovi debiti e di non pagare gli antichi: forse ciò sarebbe un mezzo termine che potrebbe andare. Giudichi Lei se esso è adattato alla stagione" (AL).

VITTORIO EMANUELE PADRE DELLA PATRIA E RE GALANTUOMO

Vittorio Emanuele II di Savoia ha ricevuto da storici ufficiali l’appellativo di Padre della Patria e Re Galantuomo. In verità l’immagine del Re Galantuomo assiduamente disegnata dall’Azeglio a favore del Carignano in quegli anni con un lavoro di propaganda abile ed insistente, proseguito ogni giorno nelle sue corrispondenze con tutti coloro che in Italia avevano qualche peso nella formazione dell’opinione moderata, fu una delle creazioni più importanti del liberalismo risorgimentale, la sola che in campo moderato potesse rivaleggiare con quella che in campo democratico si realizzò intorno al nome di Garibaldi. Ma per questa via l’agitazione e la propaganda liberale riuscirono a fare un eroe nazionale e a decorare del titolo di Padre della Patria e Re Galantuomo un personaggio di livello non certo elevatissimo e probabilmente inferiore, in fatto di ingegno, di cultura e di maniere a quel Ferdinando II di Borbone che veniva contemporaneamente dilaniato come Re lazzarone. Vediamo (R2).

LO SCANDALO DELLA REGIA DEI TABACCHI

Lo scandalo della Regìa maturò tra il 1868 e il 1869. Presidente del consiglio era Luigi Federico Menabrea, uomo di assoluta fiducia dei Savoia Carignano, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele II. Ministro delle finanze, e promotore dell’operazione, era il marchese Luigi Guglielmo Cambray Digny, esponente della grande proprietà terriera. La situazione finanziaria era più che preoccupante. Il nuovo Regno d’Italia si era dovuto assumere il debito pubblico degli Stati preunitari; e la guerra all’Austria, che si era conclusa con l’annessione del Veneto grazie ai successi della Prussia nostra alleata, nonostante le pessime figure fatte dall’Esercito italiano a Custoza e dalla Marina a Lissa, aveva ulteriormente dissanguato le casse dello Stato. Tirava aria di bancarotta. Il governo fece sondaggi presso banchieri italiani ed esteri, ma il disavanzo pubblico era tale che nessuno voleva concedere prestiti. Questa almeno fu la versione del governo per giustificare la clamorosa soluzione adottata: impegnare il monopolio dei tabacchi appaltandolo ad ambienti finanziari privati (ST). La cosa non era del tutto priva di precedenti: Regìe dei Tabacchi appaltate a privati o cointeressate, cioè a capitale misto, erano esistite in alcuni Stati italiani prima dell’unità. Tuttavia era inevitabile che la proposta suscitasse, oltre alla reazione scontata dei deputati della opposizione, anche molte perplessità e critiche tra i parlamentari governativi. Nel decalogo dell’uomo di potere, un comandamento fondamentale insegna, quando si vuole imporre una certa scelta, a contrabbandarla come una riforma. Usava così anche allora. E poiché nella conduzione della Regìa c’erano sprechi, inefficienza, sacche di parassitismo, la proposta di ricorrere al capitale privato fu motivata dal ministro con l’opportunità di risanare e razionalizzare l’azienda. Si riteneva utile affidare la Regìa dei Tabacchi, disse il ministro Cambray Digny alla Camera, a "una associazione di capitalisti, la quale, svincolata dai molti legami e tradizioni degli uffici governativi, potesse sradicare gli abusi, procedere a decisive riforme, ed avere l’interesse privato a sprone nell’introdurvi quelle norme e quei sistemi più semplici e capaci di cavarne un prodotto maggiore" (ST). Considerazioni: È curioso: lo Stato italiano aveva sette anni, e già un suo ministro, piemontese, parlava in termini così spregiativi di "legami e tradizioni degli uffici governativi"! (ST).

GLI ZUCCHERINI

Nel campo dell’alta finanza, patrono dell’operazione Regìa fu il banchiere Domenico Balduino, amministratore delegato del Credito Mobiliare. Questi mise insieme un gruppo di finanzieri interessati all’affare, che si preannunziava ghiotto e tale fu. All’orgia di quelle che negli anni novanta del ventesimo secolo le cronache della corruzione hanno definito tangenti, e che il linguaggio meno tecnologico di allora definiva zuccherini, parteciparono sicuramente personaggi di primo piano della politica e dell’ambiente bancario. Lo stesso presidente del consiglio Menabrea, che una ventina di anni dopo, divenuto ambasciatore a Parigi, dimostrò un’estrema disinvoltura nel coltivare interessati rapporti con affaristi di fama dubbia, era uomo tutt’altro che sopra possibili sospetti. Il faccendiere internazionale Cornelius Herz, ebreo, il cui nome si ritroverà nelle polemiche seguite allo scandalo della Banca Romana, e che aveva ricevuto da Crispi una importante onorificenza italiana, era stato presentato proprio dall’ambasciatore Menabrea all’intelligente e graziosa sposa dell’illustre primo ministro d’Italia, cioè alla signora Lina Crispi. Non solo: emerse in termini certi che Cornelius Herz aveva fatto a Menabrea una serie di grossi favori per acquisirne la benevola mediazione con Crispi: aveva assunto come impiegato in una propria azienda un figlio dell’ambasciatore allo stipendio, allora favoloso, di mille lire al mese. La convenzione fra il ministro delle finanze Cambray Digny e il gruppo rappresentato dal banchiere Domenico Balduino fu firmata il 23 giugno 1868. Sulla base di quell’intesa, dal gennaio successivo una società anonima privata avrebbe gestito il monopolio dei tabacchi per venti anni (la durata fu poi ridotta a quindici) e, in cambio, avrebbe versato allo Stato italiano una anticipazione di 180 milioni di lire oro. Veramente al ministro Cambray Digny, per riassestare le finanze nazionali, occorreva una cifra superiore ma nei magazzini della Regìa c’erano tabacchi grezzi e lavorati per circa 50 milioni. E il gruppo di Balduino li acquistò. Per validità della convenzione era necessario, naturalmente il sì della Camera (l’assenso del Senato, che non era un organismo elettivo ed esprimeva in pieno le posizioni governative, era scontato). Nella sede fiorentina di Palazzo Vecchio i deputati furono convocati il 4 agosto 1868. Era già tempo di vacanza, ma il governo aveva fretta di concludere. La seduta durò quattro giorni e fu molto movimentata. Molti e autorevoli gli interventi contrari alla proposta ministeriale. Il presidente della Camera, Giovanni Lanza, scese dal suo seggio per poter parlare come semplice deputato e criticò duramente l’operazione: "I monopoli o bisogna sopprimerli, disse, o che li tenga il governo". Fra coloro che presero posizione contro la proposta fu anche Urbano Rattazzi. Paradossalmente il suo intervento finì col giocare a favore della proposta Cambray Digny. Appariva infatti inevitabile, in caso di bocciatura parlamentare della convenzione, la caduta del governo, ed era molto diffuso, il timore di un possibile ritorno al potere di Urbano Rattazzi, il cui nome era legato a due esperienze governative non certo felici. Circolava già insistente la voce che il ministro delle finanze, su esplicito suggerimento del banchiere Domenico Balduino, avesse provveduto a corrompere taluni deputati indecisi per assicurarsene il voto. Il clima di sospetto accresceva la tensione. Un deputato propose una sospensiva. La sospensiva fu respinta con lieve margine: 182 voti contro 201. Il governo l’aveva spuntata. Per protesta, Giovanni Lanza si dimise immediatamente dalla presidenza della Camera. Le indiscrezioni che circolavano trovavano credito, anche perché un personaggio di riconosciuta serietà come Giovanni Lanza era venuto a conoscenza di fatti che ponevano il problema del monopolio tabacchi in una luce diversa da come l’aveva presentato Cambray Digny. Risultò che all’estero alcuni banchieri si erano offerti di concedere allo Stato italiano il necessario prestito senza chiedere in cambio la privatizzazione della Regìa. Perché, allora, il governo aveva fatto ricorso alla soluzione estrema? I si dice non risparmiarono re Vittorio Emanuele: il suo zuccherino, secondo le voci, sarebbe stato di 6 milioni. Della propensione al guadagno facile dimostrata dal generale Menabrea si è già detto. Quanto al ministro Cambray Digny, manovratore principale della operazione, era inevitabile che fosse oggetto di sussurro. C’era poi il ministro della giustizia Michele Pironti, che, a giudicare dall’insistenza con cui intervenne sui magistrati, potrebbe essere stato sulla lista dei corrotti. E quanti altri ministri? Quanti deputati? (ST).

VITTORIO EMANUELE re GALANTUOMO

In particolare, merita qualche parola Vittorio Emanuele II, che gli agiografi, con malafede o ironia, battezzarono Re Galantuomo. Spendaccione e godereccio, il primo re d’Italia, quando morì nel 1878, lasciò 40 milioni di debiti. In quella voragine dovevano essersi perduti molti rivoli provenienti dall’erario (ST). Nel 1868 il deputato Cancellieri si accorse che un residuo di venti milioni di moneta bronzea era scomparso dal bilancio. Si affrettò ad interrogare il ministero Cambray Digny, ma il ministro negò per due volte l’esistenza nelle casse dello Stato di quella somma non iscritta nella contabilità, e in genere di somme non iscritte nella contabilità statale. Dinanzi a tali dinieghi, il deputato Cancellieri, che conosceva i suoi uomini, non si ritenne soddisfatto, ma continuò le sue indagini, obbligò il ministro a confessare che la somma veramente avrebbe dovuto figurare nell’attivo del bilancio; e la Camera, per pudore, ringraziò il deputato che aveva ricuperato alla nazione venti milioni smarritisi... nella tasca di influenti personaggi. Il Petruccelli della Gattina esprime il sospetto che il Re Galantuomo si sia appropriato di una parte di quella somma e che, ormai obbligato a restituirla, lo fece grazie a una forte partecipazione che ebbe nell’affare della Regìa dei tabacchi (SM). D’altronde, quattrini finiti chissà dove ne erano corsi parecchi in quegli anni, se nel 1870 il rigoroso ministro Quintino Sella si trovò costretto, davanti a spese ingiustificate per centinaia di milioni avvenute fra il 1862 e il 1868, a chiedere alla Camera un voto di sanatoria con la formula pro bono arbitrio (ST). In merito alla disinvolta avidità di Vittorio Emanuele, manca una documentazione diretta, con ogni probabilità perché gli ambienti della Corona, d’accordo con i governi, provvidero a distruggere quelle carte compromettenti che lo stesso re non aveva potuto distruggere di persona. Vedremo meglio più avanti le affermazioni di Denis Mack Smith circa la reticenza e l’omertà su argomenti che avessero a che fare con i personaggi principali degli avvenimenti dell’epoca. "Le carte di Cavour - anticipiamo qui quanto scrive il Mack Smith - vennero tolte di forza dal governo italiano agli eredi del conte nel 1876, e in seguito soltanto poche persone hanno potuto vederle. Sembra che nel 1878 una parte di quelle carte siano state trasferite negli archivi reali, e ciò serviva senza dubbio a nascondere certi fatti nei quali il sovrano era coinvolto". Non potevano essere fatti relativi allo scandalo della Regìa, che maturò quando Cavour era già morto; ma la procedura è indicativa di un metodo certo adottato anche in seguito. Mack Smith, forse per cortesia di straniero, non parla dei sospetti circa le somme indebite finite nelle voraci tasche regali, ma riferisce un’opinione sintomatica del sovrano: "Vittorio Emanuele aveva detto che gli italiani potevano essere governati solo con le baionette o con la corruzione". Uno storico attento, Giampiero Carocci accennando ai gruppi dominanti che favorirono l’ascesa della Sinistra al potere, cita anche re Vittorio Emanuele, il quale "sperava dalla Sinistra maggiori larghezze per le spese militari e per quelle della lista civile", per l’appannaggio, cioè, destinato al sovrano (ST).

TANLONGO E VITTORIO EMANUELE

Nello scandalo della Banca Romana il nome di Vittorio Emanuele II fu associato a quello di Bernardo Tanlongo il banchiere che aveva finanziato e corrotto la politica dell’epoca. Ricordiamo che il Tanlongo fu accusato, oltre che di innumerevoli fatti di corruzioni e malversazioni, di avere, come governatore della Banca Romana, emesso oltre nove milioni di lire clandestine, semplicemente duplicando il numero di serie dei biglietti di banca. Pare che il Tanlongo fosse stato in relazione con il conte di Cavour (così almeno il Tanlongo raccontava). Il Gran Ministro gli avrebbe affidato l’incarico di corrompere alcuni cardinali. Il fatto non è inverosimile a sentire quanto affermava Vittorio Emanuele ed a ricordare come si fosse comportato il conte di Cavour con i suoi inviati a Napoli, nei giorni che precedettero l’arrivo di Garibaldi quando Cavour tentava con la corruzione di far scoppiare dei tumulti in Napoli. Se Camillo Cavour fosse vissuto un po’ più a lungo forse avrebbe ottenuto Roma in modo ancor più tranquillo della facile conquista militare: comprandola! Infatti il primo presidente del consiglio dell’Italia unita aveva sperato di risolvere la questione romana attraverso negoziati clandestini, e a questo fine aveva segretamente inviato cospicue somme a Roma per corrompere le gerarchie ecclesiastiche. Il suo plenipotenziario, il gesuita Carlo Passaglia, era pure riuscito a farsi ricevere dal cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Pio IX. Poiché Antonelli era tutt’altro che incorruttibile, la via non era sbagliata. Ma Cavour morì nel 1861. Di certo, però, il futuro Governatore della Banca Romana fu in relazione con Vittorio Emanuele II del quale fu fattore, banchiere e non sappiamo che altro.

UNA LETTERA SGRAMMATICATA E SIGNIFICATIVA

"Informerò l’E.V. che sebbene semplice mortale, e non Governatore della Banca Romana ancora - scriveva nel 1874 il Tanlongo a Giovanni Giolitti - feci nel 1871 un ben grosso sacrificio per il bene di Roma, onde ottenere che S. M. il re Vittorio Emanuele II restasse più in Roma, cedendogli come desiderò, l’affitto di varie tenute riunite fuori di Porta Pia, a cinque chilometri da Roma, che da ben tredici anni io letamavo e tenevo in riposo, della quantità di circa due mila ettari con duecento ettari di bosco, e tenute tutte a solo pascolo per riposarle, letamarle, e gli ultimi cinque anni, che appunto mi restavano, seminarle e con i grani allora a 34 e 35 lire il quintale, con la quantità copiosa che avrebbero rese quelle fertili di sua natura, lascio considerare a chi è pratico di simili gestioni; ed avendole dovute cedere per i cinque anni che ancora mi mancavano, per compire l’affitto di tutte, mi dovetti privare di un beneficio al minimo di 100 mila e più lire all’anno, e di più S. M. volle impormi anche l’obbligo di amministrargliele senza dipendenza dal ministero di casa Reale, ma unicamente da lui; ma io, sebbene mi fosse ingiunto così, tenevo sempre e quasi giornalmente informato S. E. il ministro Visone di tutto l’andamento, e molte volte stavo in disborso delle corrisposte di affitto che dovevo io antistare, e giunsi finalmente in un’epoca che quasi per due anni di affitto ero creditore, perché pagando lire 80 mila all’anno, quanto costavano a me, era giunto il mio avere a lire 150 mila, e da quel punto volle S. M. che gli facessi fare dalla Banca Romana una operazione per 500 mila lire con cambiali, che egli avallò separatamente, e che entro sei mesi puntualmente fece pagare in ogni scadenza, ed allora con il ricavo di questa operazione mi pagò il mio avere, ma senza veruno interesse di sopporto e nulla mai ho percepito né di assistenza né per lo spostamento di tutto il mio bestiame, e siccome, grazie a Dio, il conte Visone è ancor vivo, gli si può dimandare. Avevo adempiuto anche per S. M. ad altri incarichi delicati per i quali ho dovuto anche rimetter del mio; ma di ciò siccome ho li documenti, se li vorrà vedere, potrò farglieli mostrare da qualcuno onde ne sia persuaso che qualunque lavoro fatto da me, o per la Casa di S. M., o per la Nazione, è stato sempre disinteressato; e che avendo sempre tenuto riservato, certo se non potessi più vedere, che almeno mi si mostri gratitudine, dovrei per il mio onore farlo saper ad altri, onde dopo morto io, mi si renda quella giustizia che da vivo ormai non posso che attendere dalla E. V., tanto più vedendo l’accanimento dei miei nemici, della Banca e degli ordini che gli si impartono dai complottisti" (NQ). Considerazioni: Oscura lettera di gravi minacce ed avvertimenti che non poteva scrivere il Tanlongo se non in possesso di prove di comportamenti non limpidi da parte di Vittorio Emanuele II di Savoia, il… Re Galantuomo!

DEPUTATI CORROTTI

Quando nel 1864 fu fatta luce su di un grave scandalo in materia di appalti per la costruzione di strade ferrate nel sud, fu significativo che nessuno dei cinque deputati che dovettero dimettersi fosse un meridionale (il conte Bastogi, uno dei cinque, aveva fatto parte del ministero di Cavour), e guadagnò così terreno la convinzione che il nord si stesse disonestamente arricchendo a spese di questa regione indifesa (MS).

re ladricello

I Savoia avevano instaurato un sistema di corruzione e di legame tra affarismo e politica al quale non si era sottratto Umberto, successore di Vittorio Emanuele. Il settimanale satirico L’Asino pubblicò il primo ottobre 1893 una sarcastica parodia del Re Travicello di Giuseppe Giusti. Ne riporto alcune strofette:

Al re Travicello / Ei bada a mangiare

Piovuto ai ranocchi / e lascia rubare.

Leviamo il cappello / È un re Travicello

e diamo balocchi. / che calza a cappello.

Lo predico anch’io / Da tutto il pantano

che costa un fottìo, / si sente gridare:

ma è comodo e bello / evviva il sovrano

un re Travicello. / che lascia rubare!

Non erano soltanto maldicenze da menestrello. Umberto di Savoia aveva non poco da nascondere. Non aveva voluto l’inchiesta sullo scandalo della Banca Romana ed è facile capire il perché. C’erano in primo luogo i maneggi, da tenere celati, delle sue avide amanti (altra costante caratteristica dei sovrani carignaneschi), ma dovevano esserci anche rapporti di potenziale ricatto reciproco fra il sovrano e Francesco Crispi. In proposito è illuminante una confidenza fatta da Umberto I a Domenico Farini, in merito a Crispi: "Ella non sa i grandi bisogni di quest’uomo; né i denari che gli ho dato anche ora... È una vera sudiceria. Ormai conosco bene la mia gente ed ho in mano le prove delle sudicerie di Crispi e dei suoi predecessori". Fra i predecessori le cui sudicerie sicuramente Umberto non ignorava, c’era Urbano Rattazzi, nipote omonimo dell’uomo politico che aveva presieduto due governi nel ’62 e nel ’67. Il Rattazzi junior era diventato una sorta di alto dignitario privato dei Savoia, di cui tutelava gli interessi. Il settimanale satirico L’Asino gli aveva appioppato un soprannome: Suburbano Rattazzi. È un altro dei personaggi che dallo scandalo della Banca Romana uscirono ricchi e senza guai, a parte gli attacchi dei giornali. Riferiva il settimanale satirico: "Strane voci sono corse in questi ultimi tempi a proposito dei rapporti di S. E. l’intemerato Suburbano Rattazzi (antico nonché postumo accomodatore delle faccende di cuore di S. M. il compianto Vittorio Emanuele, Padre della Patria), con la Banca Romana. Si mormora essere stati i rapporti di Suburbano con la suddetta banca, mossi tutt’altro che da interessi personali di lui; e si insinua anche non essere stato egli che l’intermediario a favore di cospicua personalità cui serve ciecamente e devotamente". L’allusione a Umberto I era esplicita. Rattazzi e Crispi si odiavano; quando il secondo chiese la testa del primo, il re congedò Rattazzi, regalandogli un villino, un appannaggio principesco di 24 mila lire annue, il laticlavio (ST).

OPINIONE DI GARIBALDI SU VITTORIO EMANUELE

Gli storici favorevoli alla monarchia sostengono talora che in Garibaldi non sia mai venuta meno la fede monarchica, ma di fatto, a giudicare dalle correzioni apportate alle successive versioni delle sue memorie, Garibaldi si era abbastanza avvicinato ai repubblicani. Egli concludeva che Vittorio Emanuele era spinto non tanto da motivi patriottici quanto da egoistiche ambizioni dinastiche, per soddisfare le quali la monarchia sarebbe stata disposta a lasciare l’Italia in stato di debolezza e di servitù. Secondo Garibaldi Vittorio Emanuele era mantenuto da una imponente lista civile che la nazione non poteva sostenere, e non era più rispettato dalla gente onesta: "la dinastia, sotto il velo della sua irresponsabilità, è cagione dei mali che affliggono l’Italia: all’estero scredito e disprezzo, miseria e disperazione all’interno". Era un despota, un disonesto, e aveva condotto l’Italia al disonore; la monarchia si era quindi "ingolfata nei vizi, nelle ingiustizie e nelle depredazioni; essa non merita più il rispetto della gente onesta ed è aborrita da quanti non scialacquano nella mensa sua" (VE).

VITTORIO EMANUELE RICATTATO

A parere del presidente del consiglio Ricasoli, il re non avrebbe dovuto accumulare tanti debiti, né frequentare compagnie equivoche, né concedere titoli per motivi banali, bensì svolgere il ruolo assegnatogli ponendosi come esempio alla vita pubblica, cercando di spendere di più per il patrimonio artistico e meno per le donne. Vittorio Emanuele smentì la maggior parte delle accuse di Ricasoli in una replica dignitosa piena di amaro risentimento per una simile intrusione nella sua vita privata, sebbene ammettesse esplicitamente di essere stato ricattato per anni da giornalisti che minacciavano di divulgare la sua vita privata e benché aggiungesse che "s’è stabilita in Torino una camorra per succhiargli il denaro" (VE).

VITTORIO EMANUELE RICATTATORE

Vittorio Emanuele II aveva un cattivo rapporto con il parlamento. L’ambasciatore austriaco Kubeck riferisce le parole dei Vittorio Emanuele: "Li tengo tutti in pugno, avendo conservato un intero archivio di lettere che essi mi hanno scritto in epoche diverse, li faccio star zitti e rigare diritto perché sono in grado di comprometterli agli occhi del pubblico, ed essi lo sanno" (VE).

I MODI DI VITTORIO EMANUELE

Il re ostenta nel vestire una semplicità che raggiunge la trascuratezza. È sobrio, mangia una sola volta il giorno, ma abbondantemente e preferisce i cibi grossolani e popolari. Quando è costretto a assistere a un banchetto ufficiale, a un pranzo di corte, non svolge nemmeno il tovagliolo, non tocca cibo; con le mani appoggiate all’elsa della sciabola, esamina i convitati, senza cercare di nascondere la sua impazienza e la noia (ID).

L'INDOLE DI VITTORIO EMANUELE

Il suo cappellano affermò una volta che egli si contentava di fare il re per massimo un mese, mentre per il resto dell’anno era troppo pigro e troppo attaccato ai piccoli piaceri perché gli restasse tempo da dedicare alla politica; e non gli giovò certo il godere fama di indolenza (VE).

IL CARATTERE DI VITTORIO EMANUELE

Pochi mesi dopo la sconfitta di Custoza, Vittorio Emanuele aveva riacquistato il suo buon umore. Stava già progettando un’altra guerra. Questa volta pensava che probabilmente sarebbe stato alleato col suo ex nemico. Quando incontrò il plenipotenziario austriaco per trattare la cessione del Veneto, spiegò quanto poco amava sia la Francia che la Prussia. Forse l’Austria si sarebbe unita a lui per combattere contro Bismarck, in altre parole, proprio contro l’alleato la cui vittoria a Koniggratz aveva dato Venezia all’Italia. Quale dovesse essere l’obiettivo di tale guerra non fu detto, e forse neppure importava molto all’autore del progetto. È facile presumere che l’esito sarebbe stato disastroso. Un paragrafo del rapporto che il generale Mohring stilò di questa conversazione può essere citato perché rivela il carattere del re. Vittorio Emanuele chiese a Mohring di parlare a Francesco Giuseppe: "Promettetemi di riferirgli personalmente quanto vi ho detto. Ditegli che mi unirò a lui con 400 o 450 mila uomini contro la Prussia. Marciare contro la Francia sarebbe più difficile, e per mio conto preferirei che i francesi fossero dalla nostra parte. Dite all’imperatore che può contare sulla mia parola d’onore quando gliela do come re e come soldato. La sola cosa che mi dà veramente piacere è di fare la guerra. Non mi piace governare, e lascerei volentieri questo compito ai miei ministri. Vengono continuamente a chiedermi consiglio e a farmi prendere delle decisioni. Appena posso, me ne scappo via da loro e vado a caccia, perché amo l’esercizio all’aria aperta. Vado molto a cavallo. Ho sempre un cavallo pronto e sellato per andarmene a caccia" (VE). La sua fiducia in se stesso era grande ma in verità poco fondata; infatti le sue nozioni di politica estera erano soltanto un po’ meno incoerenti delle sue idee sulle questioni finanziarie. Disse con molta insistenza ai prussiani che voleva stipulare un’altra alleanza con loro contro chiunque, ma soprattutto contro la Francia. Agli austriaci, invece, disse che voleva un’alleanza con loro contro la Prussia: spiegò a Vienna che non lo seduceva l’idea di essere alleato di Napoleone o di Bismarck, perché ambedue facevano sempre un doppio gioco, cosa questa interamente contraria alla sua natura e alle sue abitudini; ambedue erano infidi, mentre egli non aveva mai ingannato nessuno. Ma le maggiori speranze di Vittorio Emanuele erano riposte nella Francia, giacché egli sperava almeno in una tacita connivenza di Napoleone III per quanto riguardava l’annessione di Roma; pur essendo già stato varie volte avvertito della difficoltà di assicurarsi l’appoggio francese, egli preferiva, in questa questione, affidarsi al suo istinto. Insomma gli ambasciatori stranieri impararono presto a non prendere troppo alla lettera le sue proteste di amicizia o di inimicizia. Sapevano benissimo che era sua abitudine avere una politica segreta distinta da quella del suo governo ufficiale, ma la miglior cosa era di non farci troppo caso. Niente imbestialiva tanto Vittorio Emanuele quanto il fatto che non ci si fidasse della sua parola di onore, ed era capace di insistere fino all’ossessione sulla propria lealtà. Ma il barone Kubeck non si fidava di lui, e neppure il conte von Beust. L’ambasciatore britannico Elliot era stato avvertito che le parole del re non avevano spesso altro scopo se non di sbalordire, di impressionare o di trarre in inganno, e consigliò quindi Londra di non prestare loro soverchia importanza. Anche altri ambasciatori britannici riferirono la stessa cosa. Il conte Usedom parlava di "bizzarra estrosità" di Vittorio Emanuele, la quale lo rendeva non degno di fede. Bismarck, che dissentiva spesso da Usedom, era completamente d’ac-cordo sulla "ben nota incostanza del sovrano", e soleva dire che giocando sui punti deboli di Vittorio Emanuele, donne e denaro, lo si poteva tenere sempre in pugno (VE).

OPINIONE SU VITTORIO EMANUELE

Secondo l’ambasciatore britannico, Sir Henry Elliot, Vittorio Emanuele era indifferente a qualsiasi cosa in Italia all’infuori del Piemonte. La corte era piena "di suoi protetti, tutti piemontesi, i cui modi, nella maggior parte dei casi, ispiravano tutto il contrario del rispetto" (VE). L'ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson, riferisce che "Sua Maestà non fu e non sarà mai un uomo politico"; che "crede che quell’uomo sia mezzo matto", infine che "il re di Sardegna che non ha in mente che la sua spada e il suo cavallo, non sogna che di sguainare l’una e di cavalcare l’altro, non importa dove" (VE). Lord Clarendon, ex ministro degli esteri inglese, che vide il re alla fine di dicembre 1867, raccontò del suo viaggio a Firenze in una lettera privata a Lord John Russell (e Clarendon era uomo che si accostava alla politica italiana da osservatore imparziale): "Ho visto molte persone che ripetevano tutte lo stesso ritornello: che il re costituiva l’ostacolo principale, che era ipocrita e ignorante, un intrigante che nessun onest’uomo poteva servire senza danno per la sua reputazione" (VE). Clarendon raccontava di aver visto La Marmora, Rattazzi, Ricasoli, Minghetti e tutti i capi parlamentari. "A colloquio con questi uomini – queste le parole di Clarendon riferite dall'ambasciatore austriaco Kubeck - la cosa che più mi ha colpito è il totale discredito in cui ora tengono il re. Tutti sono d’accordo nel giudicare il re un imbecille; è un disonesto che mente a tutti. In questo modo finirà col perdere il trono e rovinare sia l’Italia che la sua dinastia" (VE). Clarendon si accingeva a far visita a Pio IX, e Vittorio Emanuele lo autorizzò a trasmettere a Sua Santità l’assicurazione che l’Italia avrebbe sempre rispettato gli attuali possedimenti pontifici. Clarendon commentò in seguito di aver riferito il messaggio a Sua Santità che sorrise e rispose: "Le pauvre roi è in pericolo anche lui quanto me. Era probabilmente convinto di ciò che vi ha detto, ma la sua abitudine alla menzogna è così inveterata che di lui non ci si può fidare". Se l’uso della parola menzogna fosse eccessivo si può giudicare dal fatto che una settimana più tardi il re tentava di convincere Sir Augustus Paget che "il papa stava organizzando un esercito allo scopo di attaccare l’Italia e di riprendersi le province perdute" (VE). Francesco Giuseppe non lo considerava nemmeno un vero gentiluomo (VE).

VITTORIO EMANUELE, PICCOLO UOMO, PERFETTO CARIGNANO

Fin dal tempo delle sconfitte di Custoza e di Lissa, durante la guerra nella quale era alleato della Prussia, Vittorio Emanuele aveva covato, tra sé e sé, il proposito di scatenare un’altra guerra europea, una guerra qualunque, purché servisse a fargli recuperare la sua dignità e a dargli lustro sui campi di battaglia. Perciò aveva promesso, in privato, a Napoleone di unirsi alla Francia in una guerra contro la Prussia (MZ). Considerazioni: Tradisce Napoleone, che aveva regalato alla sua casa la Lombardia, alleandosi con la Prussia. Tradisce la Prussia offrendo il suo aiuto alla Francia. Tradisce la Francia quando scoppia la guerra con la Prussia.

COMPORTAMENTO SPREGEVOLE

Il 27 dicembre 1858 Giuseppe Massari descrive nel suo diario una vicenda che vede Cavour e Napoleone III comportarsi in modo spregevole. "Il conte - annotava il Massari - mi fa vedere una lettera che Berryer scriveva a Napoleone III molti anni or sono per chiedergli 10 mila franchi in prestito. Napoleone III vuole ora si stampi quella lettera per punire il Berryer dell’arringa con cui ha ora difeso il conte di Montalembert. Prometto al conte di Cavour di fare in modo che l’Opinione appaghi il desiderio dell’imperatore" (GM).

VITTORIO EMANUELE VENDICATIVO ED ARROGANTE

Ritiratosi a Milano con 23 mila superstiti, dopo la sconfitta di Custoza, Carlo Alberto fu vituperato nei circoli politici e nelle bettole al grido di tradimento.L’infelice fu assediato a palazzo Greppi da una folla furibonda: ebbe il coraggio di affacciarsi al balcone e venne sfiorato da alcune fucilate; per via si rovesciarono carrozze, per poco non si diede l’assalto all’edificio. Quando nel 1860 Vittorio Emanuele visitò Milano, chiese di radere al suolo palazzo Greppi. "Avremo dunque una Piazzetta infame?", domandava l’ing. Cagnoni a Massimo d’Azeglio. "È una multa pecuniaria all’uso austriaco che si infligge al comune di Milano? È un monumento d’infamia all’uso del secolo XVII?".

VITTORIO EMANUELE E L'ITALIA ATTUALE

Per calcolo o per errore, nel bene e nel male, Vittorio Emanuele II ha lasciato la sua impronta nelle istituzioni e sulla prassi politica dell’Italia unita (VE).

PROCLAMA DEL CARIGNANO

"Popoli dell’Italia meridionale!

Le mie truppe avanzano tra voi per riaffermare l’ordine. Non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra, che voi potete liberamente manifestare. La provvidenza che protegge il giusto ispirerà il voto che deporrete nelle urne. Qualunque sia la gravità degli eventi, attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile, e quello della storia, perché ho conoscenza di compiere doveri di re e di italiano. In Europa la mia politica non sarà inutile a conciliare il progresso dei popoli con la stabilità della monarchia. In Italia so che chiudo l’era delle rivoluzioni".

BIBLIOGRAFIA

AL - Alessandro LUZIO – Aspromonte e Mentana Documenti inediti - Felice Le Monnier – Firenze, 1935

DB - Domenico BERTI – Scritti vari L. Roux & C. Editori – Torino Roma, 1892

DM - Carmine DE MARCO - Unità d’Italia: la conquista, l’asservimento, la colonizzazione, lo sfruttamento ed il finto risarcimento. Grafico per grafico non pubblicato - Napoli, 1979

GM - Giuseppe MASSARI - Diario 1858-60 sull’azione politica di Cavour - Cappelli - Bologna, 1931

GO - G. OXILIA - I figli di Carlo Alberto allo studio in "Nuova Antologia", Agosto 1907 ***

ID - Henry D’IDEVILLE - Il Re, il Conte e la Rosina TEA - Milano, 1996

MC - Mario COSTA CARDOL - Venga a Napoli, signor conte Mursia - Milano, 1986

MS - Denis MACK SMITH - Storia d’Italia dal 1861 al 1958 Con documenti e testimonianze Edizioni Labor - Milano, 1967

MZ - Denis MACK SMITH - Mazzini RCS Rizzoli Libri - Milano, 1993

NQ - Nello QUILICI - Banca Romana Mondadori - Milano, 1935

RM - Roberto MARTUCCI - L’invenzione dell’Italia unita Sansoni - Milano, 1999

R2 - Rosario ROMEO - Cavour e il suo tempo (1842 - 1854) Laterza - Bari, 1984

SM - Francesco S. MERLINO - Questa è l’Italia – Parigi, 1890 Cooperativa del libro popolare - Milano, 1953 M&B Publishing 1996

ST - Sergio TURONE - Politica ladra. Storia della corruzione in Italia. 1861-1992 - Laterza - Bari, 1992

UT - Dizionario enciclopedico UTET - Torino

VE - Denis MACK SMITH - Vittorio Emanuele II Laterza - Bari, 1972

 

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