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IN AUSTRALIA COL MIRAGGIO DELL'ORO

di: Emilio FRANZINA - da: Storia Illustrata n. 370, 1988

Terra di deportati, lontanissima geograficamente e, anche dopo l'apertura del canale di Suez, scarsamente serviti da linee marittime che non fossero straniere. L'Australia non poteva suscitare in Italia, nè fra le classi popolari, nè tutto sommato nei gruppi dirigenti, quelle aspettative che da tempo veniva legittimando l'America in tutte le sue parti. Così nel periodo che Joseph Gentili ha definito - l'epoca degli individualisti - e cioè dagli anni quaranta dell'ottocento al 1901, non furono molte le occasioni di contatto "emigratorio" fra l'Australia e il nostro Paese.

La stessa grande emigrazione che dilagò a partire dal 1876 e che dopo il 1901, sino alla guerra, costituì la componente "transoceanica" dell'esodo costante e ininterrotto di italiani all'estero, non diede luogo a fenomeni statisticamente apprezzabili per quanto riguarda l'Australia. E' stato calcolato infatti che tra il 1876 e lo scoppio del primo conflitto mondiale non furono più di 20.000 gli italiani che raggiunsero l'Oceania. Nulla o pochissimo, quindi, di fronte agli oltre quindici milioni di connazionali emigrati, nello stesso arco di tempo, per questa o quella parte del mondo, in cerca per lo più di lavoro e secondariamente di benessere o di "avventure". Una certa avventurosità comunque caratterizzò il movimento emigratorio italiano per l'Australia negli ultimi decenni dell'ottocento quando, gradualmente, si esaurì la tendenza dei governi europei, e di quello inglese soprattutto, a farne luogo d'invio per condannati. Artisti. missionari e qualche professionista provenienti dalla penisola, come l'urbinate Raffaello Carboni o come il musicista veneziano Ernesto Zelman, rappresentano a dovere, con le loro storie personali, l'episodicità un pò rapsodica degli arrivi e delle partenze, o delle stesse permanenze forzose che di tanto in tanto si rendevano palesi attraverso esperienze assai specifiche d'immigrazione. Alla fine degli anni sessanta dell'ottocento, per esempio, l'interesse per la cultura musicale italiana (il nostro melodramma era allora all'apice del suo successo) invogliò alcuni impresari australiani a scritturare cantanti e professori d'una certa fama per una stagione d'opera a Melbourne e in altre località. Giunti alla meta nel 1869, già l'anno seguente essi si ritrovavano privi di lavoro e nel 1871 un giornale di Melbourne pubblicava la notizia che "il tenore Neri si guadagnava da vivere spaccando scandole, il basso Dondi insegnava nelle scuole e un altro cantante, tale Contini, aveva trovato impiego in lavori agricoli". Professionisti e intellettuali (come il terzetto fiorentino composto di due ingegneri e un fisico, Ettore Checchi, Carlo Cattani e Pietro Baracchi che, approdò in Australia nel 1874 trovandovi pronta sistemazione) difficilmente potrebbero essere scambiati per i precursori effettivi della nostra futura emigrazione proletaria. Tuttavia agirono talora da battistrada in un'impresa e in un gesto che incontrava, tra gli altri ostacoli già ricordati, anche quello della precocissima ostilità dei nativi Wasp (ossia dei bianchi anglosassoni protestanti che discendevano dai primi coloni). Sparsi nel vasto continente, per lo più sprovvisti di conoscenze linguistiche elementari (all'ignoranza dell'inglese si aggiungeva assai spesso l'uso pressoché esclusivo dei rispettivi dialetti regionali), in collegamento saltuario con casa e non organizzati, tranne poche eccezioni, in "nuclei coloniali", i radi immigrati italiani dell'ottocento non assomigliavano troppo ai loro compatrioti che avevano scelto per destinazione le Americhe. Tuttavia, a guardar bene, e al di là delle singole "storie" - individuali o di gruppo - cause e modalità dell'emigrazione in Australia non differivano di molto dalle ragioni e dai modi del flusso emigratorio di massa verso il continente americano. Se una differenza "qualitativa" esisteva poi, e per certo vi fu, essa consisteva nel fatto che gli emigranti "australiani" si avvicinavano maggiormente al prototipo dell'emigrante intraprendente e attivo, autonomo nelle sue scelte obbligate (c'è molto di grottesco, ma anche un pizzico di vero in tale espressione) e, come vengono oggi scrivendo vari storici, autore e responsabile del proprio destino. Certo che alle origini di questo capitolo di storia della modernizzazione ancora abbastanza controverso e condizionato dalle tradizioni un pò pietistiche e lacrimose della nostra letteratura "antiemigrazionista", si ritrovano poi situazioni ed uomini, storie di vita ed esempi che mettono in rilievo soprattutto le fasi dure e penose dell'espatrio, del viaggio (il doppio o il triplo di quello per l'America che pure durava, come ricorda la canzone, quaranta giorni di macchina a vapore) e del primo ambientamento, senza che a ingentilire il quadro intervengano magari, come per i casi americani, sogni e speranze di tipo "mitemico".

Quello che non nasce cioè, nell'ottocento, è un "mito" dell'Australia paragonabile al "mito" dell'America diffusosi invece con grande tempestività a partire dai primi anni settanta e sapientemente amministrato al di qua e al di là dell'Oceano. Solo intorno agli anni venti del novecento, comincerà a funzionare qualcosa di simile nelle predisposizioni mentali dei protagonisti dell'esodo nel nuovissimo continente. E anche allora con indicative riserve che Filippo Sacchi, giornalista all'epoca del Corriere della Sera, saprà cogliere descrivendo il colloquio d'un emigrante deluso col nostro rappresentante diplomatico a Melbourne: "Per loro (ossia per gli emigranti n.d.r.) fuori dall'italia tutto il resto è paese per trovar lavoro, terra per fare fortuna: America. Donde la frase di un italiano ch'era andato dal console a domandare il visto per rimpatriare: "Signor console, desidero rimpatriare, perché questa "Merica non mi piace"'.. Per la verità, un momento in cui era stato lì lì per nascere il mito, poi dissoltosi, della Australia quale terra se non di cuccagna, almeno di opportunità e di ricchezza, si potrebbe, volendo, individuare. E paradossalmente esso risale agli albori dell'immigrazione "libera" del continente con la partecipazione di migliaia di contadini, di montanari e di valligiani che erano sì cittadini svizzeri, ma anche italiani di lingua e di cultura.

La concomitanza di due fatti piuttosto eccezionali per un lato, ma anche "fisiologici" e quasi normali per un altro, aveva propiziato, negli anni cinquanta dell'ottocento, l'insorgere di questa emigrazione dall'arco alpino: una vera e propria carestia che aveva impoverito ai limiti della sopravvivenza le popolazioni della Svizzera italiana e, contemporaneamente, la notizia, diffusasi in un baleno attraverso l'Europa, che in Australia era stato scoperto l'oro. La voce delle prime scoperte d'imponenti giacimenti auriferi si era sparsa a Sydney nel maggio del 1851 e i primi cercatori erano all'opera da pochi mesi quando una vera e propria "febbre dell'oro" invase coloni e residenti per trasferirsi poi, con estrema rapidità, fra aspiranti "milionari" ed emigranti potenziali di tutto il vecchio continente. L'avvio della ricerca mineraria, che dall'oro si spostò più tardi, ampliandosi, in altre direzioni, divenute tutte causa e occasione di lavoro per migliaia di europei emigrati, modificò tra l'altro le basi della società arcaica e per così dire "agro-pastorale" delle colonie australiane, che cominciarono a convertirsi in embrioni d'una nuova nazione moderna ed evoluta. L'immigrazione dei "pionieri" fu a lungo contraddistinta dalla prevalenza dei maschi partiti soli e dalla loro dispersione, agli inizi, sul territorio di arrivo. La maggior parte dei nostri connazionali, evocati dai numeri delle statistiche ufficiali, si distribuiva infatti tra le zone minerarie e le zone agricole bisognose di manodopera avventizia. Secondo le stime di Gianfranco Crescioni, forse il maggiore storico italo-australiano dell'ultima generazione, solo una minoranza trovava impiego nelle città. D'accordo con i sindacalisti e con gli osservatori d'età giolittiana, come Angiolo Cabrini Crescioni suggerisce il quadro variegato delle occupazioni e dei mestieri collegandoli ai dati d'estrazione regionale per la provenienza e a quelli d'insediamento geografico per l'arrivo. Dalla Valtellina venivano allora i minatori impiegati nei giacimenti auriferi di Kalgoorlie, Coolgardie, Murchison, Wiluna e Gwalia, nell'Australia Occidentale e di Broken Hill nel Nuovo Galles del Sud. In questa "colonia madre", e poi stato importante della confederazione, altri valtellinesi lavoravano in miniera nell'estrazione di rame a Colon e del carbone a Newcastle e a Maitland. Lombardi, toscani e piemontesi dimostravano una più spiccata propensione per l'agricoltura e per i lavori di disboscamento, laddove friulani e veneti denotavano invece maggiori inclinazioni al lavoro salariato di tipo operaio in veste di manovali, muratori, cementisti ecc.

Nella coltura delle primizie e dei prodotti ortofrutticoli spiccavano i siciliani, mentre i loro compaesani del sud, napoletani e lucani, esercitavano i mille mestieri dell'ambulante e del girovago svariando dalle competenze artigianali (calzolai, arrotini ecc.) ai classici del "nomadismo lavorativo" - su cui esiste un'intera letteratura deprecatoria - in qualità di lustrascarpe, suonatori d'organetto, intrattenitori, fiorai.

Le specializzazioni coincidevano talvolta con particolari catene emigratorie determinate dai meccanismi ben noti della "chiamata" (che poteva venire da amici e da parenti, ma anche semplicemente da "paesani"): quasi senza eccezione e per lungo tratto di tempo gli emigranti dalle Isole Eolie furono dediti in Australia alla coltivazione e alla commercializzazione degli ortaggi. Sia in situazioni di questo genere che nell'industria mineraria, dove i nostri trovarono impiego dapprima come "lavoratori autonomi" e come minatori a giornata, pronti a vivere in luoghi disagiati e di grande isolamento, e poi come dipendenti al soldo di grandi compagnie, gli italiani, gruppo minoritario, dovettero fare i conti con le idiosincrasie etnico-politiche dei nativi bianchi e in più anche con le attitudini culturali difformi della restante immigrazione europea o con il problema, come essi dicevano, "dei mori", ossia degli aborigeni. Nei confronti dei quali, sia ben chiaro, nemmeno i nuovi arrivati, in condizione di grande inferiorità, si sforzarono mai di praticare le virtù cristiane della tolleranza e lo sforzo più civile dell'accettazione. Stretti nella morsa del protezionismo operaio australiano e delle ritornanti folate xenofobe, innescate sovente dall'avversione per i cinesi, il "pericolo giallo", gli italiani, che a un certo punto qualcuno cercò di ostracizzare come "pericolo oliva", dovevano innanzitutto guardarsi, a quei tempi e a lungo anche dopo, dai rischi dell'ospitalità condizionata ch'era loro concessa dagli australiani. Nelle città e nei centri urbani, pigiati in "pensioni" (boarding-houses) e alla mercè degli ispettori sanitari, saltuariamente vittime d'incidenti e di ristrutturazioni con licenziamento frequente, gli operai della Penisola, a ogni modo, riuscirono a dar vita a delle comunità etniche abbastanza riconoscibili. Nelle città, scrive Gentili, la popolazione italiana tendeva a raggrupparsi al centro, dove le case antiquate e un pò trascurate si potevano prendere in affitto a buon prezzo e dove si formavano quindi delle "Little Italies" che erano disprezzate dagli xenofobi, "ma visitate forse alla chetichella dai buongustai che volevano farsi una bella mangiata di pasta". Da un punto di vista regionale prevalevano nettamente i settentrionali, oltre il 60 per cento della popolazione italiana immigrata sin verso la fine degli anni trenta, con forti presenze siciliane (un 25 per cento del totale) e con minori aliquote di centro meridionali. Un caso a sé che merita d'essere almeno accennato è poi quello dell'arrivo "fuori stagione" e senza programmazioni di sorta, d'un gruppo d'oltre duecento contadini trevigiani e vicentini che a partire dal 1882 diedero vita all'inconsueto nucleo etnico rurale della "New Italy" di Woodhurn. Le cose erano andate così: vittime di una truffa consumata ai loro danni da un avventuriero e utopista clerico-reazionano francese, il marchese de Rays, i duecento coloni veneti erano stati "arruolati" con larghe promesse nel 1880 per trasferirsi a Port Breton in una costituenda colonia (la "Nuova Francia") da cui si sarebbe dovuta irradiare l'azione "legittimista" ed educativa dei colonizzatori cristiani su tutto l'arcipelago delle Bismarck. Salpati da Barcellona nel luglio del 1880 e arrivati dopo tre mesi e mezzo di traversata travagliatissima alla loro primaria destinazione, i contadini come tanti altri loro compatrioti in quel tempo, finirono dentro a un meccanismo infernale di stenti, di fame e d'impossibilità materiale a sopravvivere in climi e su suoli soltanto all'apparenza "paradisiaci". Decimati da un'epidemia e abbandonati alla loro triste sorte dal marchese, i sopravvissuti a bordo dello stesso vascello che li aveva trasportati dall'Europa poterono alcuni mesi più tardi approdare in una località della Nuova Caledonia francese da dove, in uno slancio encomiabile di solidarietà, le autorità britanniche del vicino Nuovo Galles del Sud li trasferirono a proprie spese in territorio australiano provvedendoli di aiuti e avviandoli in gruppi sparsi al lavoro.

Benevolo ed umanitario in questa sua predisposizione, il governo coloniale però fece di tutto per impedire che si realizzasse una 'improvvida" concentrazione di immigrati dello stesso ceppo etnico e addirittura di estrema compattezza reale e familiare.

L'ostinazione proverbiale dei veneti, tuttavia, l'ebbe vinta, nel giro di alcuni anni, sulla comprensibile, ma non giustificabile attitudine Wasp delle autorità australiane e così fra il 1882 e il 1885 alcune decine dì famiglie superstiti poterono fondare nei pressi di Woodburn un piccolo villaggio, dotato di scuola, di chiesa e di servizi elementari, dove l'insolita comunità visse per alcuni decenni del lavoro dei campi e dell'allevamento dei bachi da seta, un'attività che proprio un colono di "New Italy", memore delle tradizioni regionali, importò fra i primi in Australia. Per qualche tempo l'identità italiana del gruppo si preservò intatta esaltando anzi i caratteri "veneti" dell'insediamento, ma via via anche impellenti ragioni economiche contribuirono a smantellare quell'angolo d'italia casualmente sorto nel Nuovo Galles del Sud. Questo insormontabile ostacolo della difficile assimilazione e della ancor più difficile costruzione di comunità etniche coeve spiega una delle ragioni del successo che arrise per molto tempo alle pratiche "anti-italiane" delle autorità e degli stessi sindacati operai australiani, rendendo a tratti patetica e comunque inefficace l'azione svolta presso i nostri immigrati dalle élite politiche della sinistra di classe del tempo. Nondimeno rivestono grande importanza, nella storia dell'emigrazione italiana in quel continente, le iniziative che Sceusa, Ercole, Munari e altri ancora assunsero fra otto e novecento per promuovere la sindacalizzazione e la presa di coscienza (politica certo, ma un poco anche nazionale) dei lavoratori italiani a cui nei primi anni nel nuovo secolo cominciarono a rivolgersi giomali socialisti come l'Uniamoci. Assieme ad altri fogli redatti in lingua italiana, l'Unianzoci ingaggiò per tempo una battaglia sia difensiva che "propositiva" al fine di indurre gli immigrati italiani a una più conveniente integrazione. Ad una prima svolta si giunse così dopo la grande guerra e all'indomani dell'affermazione del fascismo quando riprese quota in maniera decisa il movimento emigratorio internazionale per un'ultima volta prima che le frontiere (lei Paesi ospiti di mezzo mondo, e di quelli transoceanici in particolare, si richiudessero per quasi vent'anni. C'era di mezzo la complicazione appunto del fascismo e di conseguenza, nel momento in cui la presenza italiana cominciava a farsi consistente di peso se non sempre d'influenza in una nazione costruita all'insegna del restrizionismo e degli Immigration Acts (i provvedimenti di "quota" che limitavano o impedivano per legge l'accesso di troppi lavoratori stranieri in Australia), il rinnovato afflusso di emigranti dal nostro Paese prese a svolgersi sotto l'ipoteca di una dura contrapposizione ideologica: cacciati o indotti ad andarsene dall'Italia per motivi politici e di "sicurezza", molti antifascisti e protagonisti del biennio rosso si trovarono mischiati, prima nei bastimenti e poi in terra straniera, agli antagonisti di appena ieri costretti a propria volta ad andarsene per ragioni di carattere esclusivamente economico. Le autorità consolari italiane, e quelle politiche australiane un pò meno prevedibilmente, copersero di attenzioni e di appoggi la parte lealista e d'ordine nelle nostre colonie (nuclei o "Little Italies" che fossero), mentre a tener desta l'animosità degli oppositori all'estero del regime provvidero vari gruppi e vari leaders della sinistra socialista ed anarchica, già distintisi prima dell'espatrio come protagonisti delle violente lotte politiche del tempo. Uomini come lo sdedense Frank Carmagnola per l'ala, come oggi diremmo, "militarista" (era un ex Ardito del popolo d'altronde) o come Omero Schiassi, per l'ala gradualista, impedirono ai fasci italiani in Australia di accampare l'alibi dell'unanimismo. E non mancarono sino agli anni trenta inoltrati gli scontri anche cruenti, gli agguati, le bastonature e le morti violente accanto al difficoltoso emergere di un dissenso politico organizzato e strutturato.

Fuori dai problemi dell'assimilazione condizionata e dalle diatribe tra fascisti e antifascisti - che allo scoppio della guerra verranno incautamente internati tutti assieme negli stessi campi di concentramento dagli australiani, responsabili, perciò, della morte di non pochi antichi oppositori del regime uccisi da connazionali fascisti - si assiste intanto anche alla formazione di qualche "grande" fortuna e alle origini di un vero e proprio nucleo di "australiani" d'origine italiana che si naturalizzano o che ottengono la cittadinanza, anche se fra il 1935 e il 1946 il periodo non è e non sembra dei più propizi. L'emigrazione di massa, quella vera, riprende nelle forme pianificate dell'afflusso negoziato dai governi tra il 1946 e i primi anni settanta. Grazie alle ondate dell'ultimo dopoguerra, quello italiano è ormai il secondo gruppo etnico immigratorio del Paese e si presta a narrazioni di segno diverso. In chiave cinematografica, per esempio, alle performances di Alberto Sordi e di Claudia Cardinale nella pellicola di Zampa del 1971 Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata. Tra foreste e località sperdute ancora alle soglie del nostro tempo, con i palliativi ovvi dlla modernizzazione (dai trasporti alle comunicazioni) la vita dell'emigrante italiano in Australia si svolge all'insegna d'una dichiarata difficoltà ad ambientarsi, che risulta assai più frequente e incisiva di quanto non accada in ogni altra località d'insediamento transoceanico di ieri e di oggi. Di fronte alle ragguardevoli medie annue dei decenni 1946-1955 (12.851 unità) 1956-1965 (15.244 unità) e 1966-1975 (7694 unità) l'emigrazione italiana in Australia si conferma come caso a sé stante che non riesce a superare però la separatezza dagli altri casi anche per questi semplici e, verrebbe voglia di dire, universali motivi. Nel Veneto, una delle regioni del nord tradizionalmente più interessate all'esodo in Australia, s'è costituita anni fa un'associazione di ex emigrati in Australia, lavoratori e gente soda che talora dall'estero è tornata con il classico gruzzolo o con qualche piccola fortuna, ma che ha sentito il bisogno di mettersi insieme per superare alcuni contraccolpi psicologici di un destino piuttosto beffardo: male ambientati in Oceania e disadattati per motivi culturali e linguistici, al loro ritorno dopo venti o più anni in un'Italia profondamente cambiata e arricchita hanno sentito il morso d'una nuova situazione di disagio e di disorientamento. E per vincerlo si sono costituiti in associazione adducendo come pretesto primo il fatto d'essere stati per qualche tempo accomunati da un disagio del tutto simile in Australia.

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