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LA CORSA VERSO IL BRASILE E L'ARGENTINA

di: Aurelio LEPRE - da: Storia Illustrata n. 370, 1988

 

Nella storia degli Stati Uniti, la "frontiera" ha avuto una grande importanza. Sulla "frontiera" i coloni americani hanno affrontato gli indiani e hanno messo a coltura immense estensioni di terre. La "frontiera" per gli americani non è stata una linea di confine, ma il limite mobile della colonizzazione, oltre il quale si aprivano vastissimi territori aperti all'espansione e alla conquista. Anche gli italiani hanno avuto una loro "frontiera" nel corso dell'ottocento: l'hanno avuta nel Sudamerica, dove gli emigrati hanno spesso lavorato e lottato in condizioni analoghe a quelle dei pionieri. I loro indiani sono stati gli Indios.

"Temiamo i selvaggi", scriveva da Urussanga, in Brasile, un emigrato di Belluno ai parenti rimasti in Italia. E raccontava di un giovane che era stato colpito con una freccia da un uomo di alta statura color di rame con lunghi capelli, mentre si stava costruendo una casa in mezzo ai campi di granturco. Anche in seguito i "selvaggi", come scrisse due anni più tardi un altro emigrato, "continuarono a mietere vittime" nella zona. In cambio, c'era terra in abbondanza, quella terra che in Italia era in mano ai "signori". I "signori", per dissuadere i contadini dal partire, dicevano che in America c'erario "le bestie feroci". Ma, in Italia, affermava un emigrato, Vittorio Petrei, le bestie feroci erano proprio loro, i signori. Insistere sugli aspetti avventurosi dell'emigrazione italiana in Sudamerica non significa volerne trascurare gli altri. Non vogliamo fare nemmeno un paragone troppo stretto tra le condizioni di vita dei coloni del Far West e di quelli italiani nelle terre vergini del Sudamerica. In realtà, le condizioni di vita di questi ultimi erano, in generale, molto più dure. Non c'erano nemmeno, come sarà per i pionieri americani, miniere d'oro da scoprire; c'era soltanto la terra da strappare alla foresta vergine e alla prateria. Per raggiungere i lotti assegnati, gli immigrati dovevano camminare per decine di chilometri, con l'intera famiglia, aprendosi faticosamente la strada. Dappertutto spini, piccoli tronchi aguzzi, sporgenti dal terreno, fiumi da passare a guado, pantani, pozzanghere, narrava un colono. I viaggiatori erano tormentati da migliaia di zanzare e moscerini. La sera dormivano in baracche coperte di foglie. Arrivati a destinazione non trovavano né una casa né animali: c'erano soltanto il cielo e la foresta: "mai ci siamo trovati così soli e abbandonati come allora". Le bestie feroci c'erano davvero e la notte si doveva dormire lasciando i fuochi accesi. La durezza delle condizioni di vita dei primi coloni, descritta nelle lettere che gli emigrati mandavano a casa, è rimasta anche nel ricordo della tradizione orale. Gli Indios "bugres" (che gli italiani chiamavano "bulgari") dovevano essere tenuti lontani a colpi di fucile. Le prime abitazioni furono capanne di canne e frasche sollevate da terra, solo dopo qualche tempo si riusciva a costruire baracche di leguo. Nelle foreste vergini del Brasile, racconta un immigrato, il colono italiano per costruirsi una casa aveva bisogno soltanto di un'accetta per abbattere gli alberi, di una sega, di uno scalpello, del martello e di chiodi. Si fabbricavano anche i letti, mentre coperte, lenzuoli e pagliericci erano stati portati da casa. Si mangiava polenta e riso; il pane solo quando era possibile perché la farina costava troppo. Le verdure e gli ortaggi del luogo erano diversi, per aspetto e sapore, da quelli di casa. In alcune zone si mangiavano "fagiolini di foresta", conditi con erbe acidule e anche brodo di pappagallo e scimmia; si facevano pranzi nuziali a base di "pugnoni" (pinoli delle araucarie). Era molto sentita la mancanza di chiese e di preti. Per la maggior parte degli immigrati, dunque, le condizioni iniziali di vita furono molto difficili. Ma in Italia non stavano meglio. In uno dei più importanti libri sull'emigrazione, Sull'Oceano, di Edmondo De Amicis, pubblicato nel 1889, un emigrante lo dice in maniera molto efficace: "Mi emigro per magnar". Lo avevano esortato a restare, perché il governo avrebbe bonificato la Sardegna, la Maremma e l'Agro romano. Ma lui aveva risposto: "Ma se intanto mi no magno! Come se ga da fare a spetar o no se magna?"'. Indubbiamente, non era questa la sola ragione. Molti giovani emigravano per sottrarsi alle famiglie, altri speravano di fare fortuna, altri, infine, erano costretti ad allontanarsi dall'italia per ragioni politiche. Ma la grande maggioranza di coloro che lasciarono l'Italia negli ultimi decenni dell'ottocento e nei primi del novecento lo fece perché non riusciva più a viverci. L'emigrazione ha rappresentato una valvola di sicurezza che ha impedito l'esplosione di rivolte nelle campagne. Ma in un primo tempo le classi dirigenti guardarono ad essa con preoccupazione, e non solo per motivi umanitari. Il 23 gennaio 1868 fu diramata ai prefetti una circolare in cui si ordinava di non lasciar partire i lavoratori italiani che non mostrassero di avere un'occupazione assicurata e sufficienti mezzi di sussistenza. La questione fu discussa alla Camera il 30 gennaio. Un deputato affermò che la gente espatriava non "per vaghezzza di far fortuna", ma "piangendo e maledicendo ai signori e al governo"; un altro, ligure, sostenne invece che il problema non doveva essere posto in questi termini. Gli emigrati contribuivano al benessere della Liguria. Accanto a poveri contadini partivano per l'America meridionale "persone indurite ed abituate al lavoro"', che accumulavano laggiù un discreto capitale, fondando case di commercio e fabbriche. Sia coloro che sostenevano l'utilità dell'emigrazione sia quelli che la condannavano avevano dietro le spalle interessi di determinati gruppi economici da difendere. Gli armatori respingevano ogni limitazione. Quelli genovesi, m crisi per la concorrenza della flotta mercantile inglese nel commercio dei grani del Mar Nero e del Mediterraneo orientale, vedevano nel trasporto degli emigranti al Plata un rimedio alla crisi.

In questi ambienti, a opera di Jacopo Virgilio, nacque la teoria dell'espansione fondata sull'emigrazione: il commercio tra Italia e Sudamerica era aumentato proprio grazie alle case commerciali fondate dagli italiani in Brasile, Cile, Guatemala, Haiti, Guiana, Perù, Venezuela, e soprattutto Argentina e Uruguay.

Può sembrare più difficile comprendere perché anche i proprietari di terre chiedessero al governo di porre limiti all'emigrazione. In realtà, gli agrari temevano la mancanza di manodopera e il conseguente rialzo dei salari agricoli. Essi protestavano, infatti, anche nel Mezzogiorno, dove il lavoro certo non abbondava. Gli agrari di Bari, nel marzo 1874, si dissero preoccupati dal fatto che in molti luoghi le terre restavano incolte, per l'espatrio di "robusti coloni" e per l'impossibilità di sostituirli, "tanta era generale la febbre di emigrare". Erano fortemente interessate all'emigrazione anche le agenzie che si occupavano del viaggio degli emigranti. Nel 1873, in un'altra circolare governativa, gli agenti furono definiti "speculatori" che, incassato il prezzo del viaggio, per il quale i contadini avevano dovuto vendere spesso le masserizie e una parte degli indumenti, li imbarcavano a "somiglianza di mandrie". Il costo del viaggio era elevato. Nel corso di un'inchiesta svolta nel 1892 da Agostino Bertani, nell'ambito dell'inchiesta agraria Jacini sulle condizioni nelle campagne, un contadino della Basilicata, che nella sua terra guadagnava una lira al giorno, dichiarò di averne dovuto pagare 235 all'agente. I commissari erano saliti sul vapore "Navarre" a Genova, che avrebbe dovuto far rotta per il Rio della Plata. La nave, di proprietà francese, non sembrava riservare agli emigranti un trattamento troppo duro. Ma i membri della commissione d'inchiesta rimasero lo stesso profondamente colpiti dalle dichiarazioni degli emigranti. Un contadino di Cosenza partiva senza conoscere il luogo di destinazione. La somiglianza dei nomi, in qualche caso, sembrava, se non annullare le distanze, rendere omogenei gli spazi. A un altro contadino della Basilicata fu chiesto da dove venisse e dove andasse. Rispose: "Di Rionero". I commissari insistettero: Di Rionero, va bene, ma volete dire che andate a Rio de Janeiro? Rispose: "Sì, a Rionero". Su un'altra nave, la "Colombo", anch'essa in partenza per il Sudamerica, la commissione interrogò un contadino di Giffoni, presso Salerno, che aveva lasciato al paese la moglie e tre figli. Gli chiesero come avrebbero fatto a vivere senza di lui. Rispose: "Dio ci pensa". In Sudamerica non aveva nessun conoscente (molti emigranti, invece, vi avrebbero trovato, ad accoglierli, parenti e amici), ma affermò di sapere che chi aveva buona volontà vi trovava lavoro. Questi frammenti di dialoghi rappresentano in maniera efficace la mentalità degli emigranti. Il viaggio era un'esperienza traumatizzante, o almeno molto dura. E non solo per quei contadini che non avevano mai visto il mare, ma anche per gli altri. Nel 1888 sul piroscafo "Matteo Bruzzo", partito da Genova per il Brasile, morirono 18 emigranti per mancanza di viveri; altri 27 morirono per asfissia nel 1889 sul "Frisca". Nello stesso anno, un giovane medico, Teodoro Ansermini, che prestava servizio sulla nave "Giava", in viaggio per Buenos Aires, rilevò l'assenza di pulizia, l'affollamento dei malati in uno spazio troppo ristretto, la mancanza di acqua e aria. Durante la navigazione, vi furono ammalati di tifo, di vaiolo, di difterite. Una commissione nominata dal ministero della Marina trovò vere solo in minima parte le accuse del medico e ne censurò il comportamento. Ma proprio nel 1889, con la sua opera Sull'oceano Edmondo De Amicis portò anche questo problema all'attenzione della più vasta opinione pubblica. Una volta arrivati in Sudamerica gli immigrati erano ospitati nelle "case d'immigrazione". A Buenos Aires, l'Asilo era un immenso baraccone di legno, dove ricevevano una razione sufficiente di cibo, dormivano in ampi cameroni e venivano curati, se ammalati. Ma le donne erano separate dagli uomini, e la separazione aumentava il senso d'insicurezza. Inoltre, dopo cinque giorni, gli immigrati dovevano cercarsi un'abitazione e un lavoro. E qui intervenivano spesso altri speculatori. A San Paolo la "casa d'immigrazione" era uno stabilimento che ospitò migliaia di persone provenienti da ogni parte d'Europa. I sensali vi accorrevano a offrire lavoro, gareggiando in promesse per accaparrarsi la manodopera: lavoro e cibo per un anno, acqua e aria buone, un cavallo e tutto ciò che potessero desiderare.

Gli immigrati ne erano attirati, ma molto spesso si trovavano ingannati. A San Paolo lavoravano nelle piantagioni di caffè (dopo il 1888, al posto degli schiavi negri, liberati in quell'anno). Era un lavoro diverso da quello dei coloni che ricevevano terre vergini da coltivare, ma non meno duro, soprattutto durante la stagione delle piogge. Ogni famiglia doveva badare a un certo numero di piante di caffè, secondo le braccia da lavoro. Nella stagione delle piogge l'erba cresceva a vista d'occhio, scriveva l'immigrato veneto Francesco Costantin, e se anche la terra era bagnata bisognava zappare, zappare, zappare (...); qui non c'è redenzione, terra asciutta o bagnata, bisogna zappare".

In Sudamerica gli immigrati italiani non dovettero affrontare gravi problemi di carattere etnico o razziale, anche se l'inserimento non fu sempre facile. Le società sudamericane, e quella brasiliana ancor più di quella argentina, erano società in formazione, dove i nuovi venuti non venivano a scontrarsi contro strutture consolidate. E non si sentivano nemmeno portatori di una civiltà superiore, se non, talvolta, nei confronti degli Indios. Con i neri del Brasile i rapporti non furono difficili. Gli italiani li consideravano guaritori o stregoni, a cui ricorrere in caso di assoluta necessità, e non mancarono matrimoni tra neri e ragazze immigrate. I "brasiliani", scriveva nel 1889 Giuseppe Manzoni, venuto a San Paolo dal Veneto, sono buoni, in maggioranza sono neri. I neri sono molto buoni, gente allegra senza pensieri". Si tratta di una testimonianza tanto più significativa, perché il Manzoni, se non aveva pregiudizi quanto al colore della pelle, non ne era però privo in assoluto: riteneva, infatti, "brutta gente" tutti i napoletani immigrati a San Paolo. In alcuni casi, come si è già detto la manodopera italiana venne a sostituire gli schiavi negri e molti proprietari delle grandi aziende agricole finirono col considerarli alla stessa stregua e, di conseguenza, a trattarli male. Atteggiamenti che possono essere considerati razzistici ebbero una certa diffusione anche in una parte dell'opinione pubblica borghese. Ma non ci furono conflitti. In Argentina l'immigrazione italiana fu più scelta che in Brasile. Nel 1896 un deputato, il radicale Pantomo, affermò alla Camera che le sue condizioni morali e materiali erano assai migliori che in Brasile, ma che, per certi aspetti, restavano gravi: "i facchini, i lustrascarpe, i menestrelli da strapazzo" erano reclutati tra gli italiani che accettavano, di fronte agli altri emigranti, questo stato di inferiorità. Ma questo rischiava di diventare un luogo comune. Lo ritenevano falso, nel 1910, due osservatori della realtà argentina, Cittadini e De Duca, scrivendo a proposito dell'operosità italiana in Sudamerica: "Non è vero che l'italiano all'estero faccia soltanto l'accoltellatore, l'ubriacone, il suonatore d'organetto, il lustrascarpe". E già nel 1896 un altro pubblicista, Scardin, aveva ricordato che in Europa chi nasceva povero, quasi sempre moriva povero. In Sudamerica, invece, c'erano molte occasioni da cogliere. Appena arrivato, un avvocato poteva anche fare il cocchiere, il contabile, il cuoco, ma veniva sempre il momento in cui ciascuno poteva trovare la sua strada. Anche dopo il 1870, quando ci fu un'immigrazione di massa, proveniente dalle campagne, gli italiani diedero all'Argentina medici, scienziati e imprenditori. E molte volte il contadino venuto dall'Italia si trasformò, una volta arrivato in Argentina, in commerciante. E anche vero, d'altra parte, che per la maggior parte degli italiani, l'ascesa sociale ebbe luogo con i loro discendenti argentini. Gli immigrati nel Sudamerica, così come in altri continenti, cercarono di mantenere stretti rapporti con la loro patria d'origine. E non solo attraverso le lettere, che costituiscono oggi per gli storici una delle fonti più preziose per la storia dell'emigrazione, ma anche fondando associazioni e giornali. Con le lettere essi cercavano di perpetuare i legami con la comunità d'origine, dando e ricevendo notizie sulla vita d'ogni giorno.

Con le associazioni e con i giornali cercavano di formare delle isole di italianità. Il 21 settembre del 1895 un giornale di Buenos Aires, La Nacion, diede ampio rilievo alla celebrazione del 20 settembre I anniversario della conquista di Roma da parte dello stato italiano: il ripetuto scoppio di petardi e razzi in tutti i quartieri della città aveva annunziato fin dalle

prime ore che la comunità italiana si preparava a festeggiare la ricorrenza "con inusitato splendore e con il maggior entusiasmo". La grande quantità di bandiere, in certi quartieri, dava a Buenos Aires l'aspetto di una città italiana. Non era un'esagerazione. Nel 1895, su 663.864 abitanti ben 181.361 erano italiani. Il più italiano era il quartiere di Boca. La popolazione era povera, ma gli italiani occupavano le posizioni migliori: erano italiani l'80 per cento dei commercianti e il 70 per cento degli impiegati. Nello stesso 1895, su 143 pubblicazioni periodiche, 13 erano scritte in italiano. Quale fu l'atteggiamento degli argentini, della popolazione creola originaria o anche degli immigrati spagnoli, di fronte a quella che in certi momenti poté sembrare una vera e propria invasione? Nel 1899 un medico e sociologo, Ramos Mejifa, espresse le preoccupazioni della classe dirigente. Gli immigrati (che egli considerava in maggioranza italiani) erano tanti e ormai invadevano tutto: i teatri di secondo e terz'ordine, le passeggiate, "perché sono gratuite", le chiese, "perché sono credenti devoti e mansueti", le vie, gli asili, le piazze, gli ospedali, i circoli e i mercati. La cosa più preoccupante era che da questa massa amorfa stava emergendo, sia pure faticosamente e lentamente, una élite: per necessità o per ambizione, gli italiani affrontavano ogni difficoltà e riuscivano a farsi strada. La loro ascesa sarebbe stata temibile, secondo Ramos Mejifa, se non vi fosse stato l'intervento della cultura nazionale argentina. Poco più di dieci anni più tardi, nel 1913, un altro membro della classe dirigente argentina, Rodriguez Larreta, espresse analoghe preoccupazioni: egli aveva davanti agli occhi la prima generazione dei figli degli immigrati che aveva ormai possibilità molto maggiori di affermarsi, e si rendeva conto che, grazie al suo numero e alle sue capacità, un giorno essa sarebbe diventata classe dirigente. Si rendeva conto che si trattava di un'evoluzione inevitabile, ma riteneva che sarebbe stato bene non accelerarla. Le tesi dell'argentinizzazione si affermarono tra il 1900 e il 1910, con una politica a cui Ramos Mejifa diede anche un contributo pratico. La necessità di adottare misure repressive trovò fermi sostenitori anche per il pericolo che per la borghesia argentina rappresentavano le idee degli immigrati anarchici e socialisti. Nel 1902 e nel 1910 furono approvate leggi repressive. In quest'occasione gli immigrati trovarono il sostegno di una parte del parlamento italiano e La Patria degli Italiani, il maggior giornale di Buenos Aires in lingua italiana, riportò le interrogazioni di alcuni deputati che chiedevano al ministero degli Esteri d'intervenire, per impedire arresti e espulsioni. Un'altra ragione dei tentativi dì parte argentina di limitare le possibilità di affermazione degli immigrati era però data dal fatto che nella comunità italiana si andavano diffondendo tendenze nazionalistiche, che non erano soltanto una risposta alla politica aggressiva del governo argentino, ma contenevano esse stesse una certa carica di aggressività. Era irritante, per gli argentini, soprattutto la pretesa di certi ambienti italiani di essere portatori di una cultura superiore. Si può ricordare, come un significativo esempio di questi atteggiamenti, un decalogo patriottico che Ferdinando Martini fece pubblicare nel 1910 su La Patria degli Italiani. Nel decalogo si ricordava agli immigrati che la loro vera patria era l'Italia, e li si esortava a celebrare le feste nazionali, a onorare i rappresentanti ufficiali dell'italia, a non modificare il loro cognome, a insegnare la lingua italiana ai figli e a sposare un'italiana. Ma proprio nel 1910 diventò presidente della repubblica argentina Roque Sàenz Pena. Egli fece approvare una legge elettorale che concedeva il suffragio segreto e universale. Con esso gli immigrati diventavano cittadini argentini di pieno diritto, in grado di influire sulle scelte politiche del Paese. L'assimilazione fu facilitata e, se rimasero vive a lungo tradizioni italiane, la vera patria cominciò a essere l'Argentina. Del resto, era ormai cresciuta una generazione che della patria d'origine conosceva ormai soprattutto ciò che ne narravano i padri.

Si chiudeva così, verso il 1920, un ciclo che aveva avuto inizio nei primi decenni dell'ottocento. Vi sarebbero stati anche in seguito emigranti italiani nel Sudamerica dopo il 1920 antifascisti perseguitati dal fascismo e dopo il 1945 fascisti che riuscivano così a sottrarsi alla giustizia italiana. Ma la grande ondata emigratoria era ormai terminata. Il processo migratorio in Sudamerica si era svolto in diverse fasi.

Nei primi decenni dell'ottocento aveva riguardato gruppi limitati di persone che vi si recavano soprattutto per ragioni di affari. Questa fase è stata definita "ligure" per la prevalenza di genovesi, interessati al traffico commerciale. A partire dal 1820 vi fu anche un'emigrazione politica, che si intensificò dopo il 1848. La partecipazione degli esuli alla vita civile del Sudamerica, in difesa dell'indipendenza e della libertà di quei popoli, è il dato che contraddistingue questo tipo d'emigrazione. Gli esuli non chiedevano soltanto un asilo, un rifugio, ma portavano ai popoli che li accoglievano il contributo della loro passione politica e delle loro idee. L'esempio più noto è ovviamente quello della "legione italiana" di Garibaldi, ma se ne potrebbero ricordare anche altri. La seconda fase ebbe inizio col 1870 e durò fino al 1890. Essa è stata definita "nord-occidentale" per la prevalenza di emigranti provenienti dall'Italia del nord. Dal 1890 al 1920, infine, vi fu, invece una prevalenza di meridionali. La grande emigrazione che ebbe inizio nel 1870 è legata ai processi di trasformazione che ebbero luogo nelle campagne. Si discute se questa ondata emigratoria sia stata causata più da fattori interni o esterni, cioè se si sia trattato di un processo di espulsione dall'Italia di masse che non riuscivano più a trovarci le condizioni elementari di sopravvivenza, o a un processo di attrazione da parte della "Merica" (così, di solito, gli emigranti definiscono nelle loro lettere la nuova terra) su persone che volevano migliorare le loro condizioni di vita. È indubbio che in quei decenni ci fu un peggioramento di queste condizioni e che esse sarebbero state ancora più gravi se la pressione demografica non avesse trovato sfogo nell'emigrazione. Certo, non si possono nemmeno escludere, tra le motivazioni che spingevano a lasciare l'Italia, la volontà di tentare la fortuna, spesso sull'esempio di compaesani, sia che l'avessero già trovata sia che la immaginassero, nel Sudamerica, vicina o almeno possibile. La documentazione disponibile, e soprattutto le lettere degli emigranti che finora sono state pubblicate, mette in rilievo soprattutto le difficoltà della nuova vita e, insieme, quelle che gli emigranti si lasciavano alle spalle, ma questo non è un elemento decisivo a favore della tesi dell'espulsione, perché una parte notevole di questa documentazione fu raccolta da quanti, per i loro interessi economici, erano contrari all'emigrazione, alla perdita di manodopera a buon mercato. Resta tuttavia, al di là di qualsiasi revisione storiografica, il fatto che l'abbandono in massa delle campagne, il distacco dalle comunità d'origine, non fu certo un fenomeno indolore. Il calcolo della ricchezza che gli emigrati apportarono all'Italia con le loro rimesse non deve far dimenticare come fu difficile e faticoso, per la grande maggioranza, risparmiare e accumulare qualcosa. La ragione di fondo della fuga dall'Italia è stata pur sempre quella che Edmondo De Amicis raccolse dalla voce di un emigrante: "Di peggio di come stavo non mi può capitare. Tutt'al più mi toccherà di far la fame laggiù come la pativo a casa".

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